Ho intitolato questa riflessione Venezia 2013 poiché è di un luogo e di un tempo che intendo parlare, non di un singolo evento, né di una mostra soltanto. Un luogo e un tempo precisi, solcati dall’esperienza della visione, dell’ascolto, della lettura, in una settimana di manifestazioni e inaugurazioni tra le calli veneziane. Un luogo e un tempo determinati, dicevo, ma attraversati dal conflitto aperto tra le tendenze opposte della definizione e della domanda. Di definizione si può parlare in modi diversi e a vari scopi. Uno di questi è rappresentato, qui a Venezia, dalle esigenze di chi, curando una mostra, si vede obbligato alla costruzione di un teorema che fermi la reazione a catena di un processo incline a sfuggire al suo controllo, anche solo per le molteplici finestre che apre. Ma di definizione si deve parlare anche in senso contrario, in riferimento alla pressione della realtà immanente che ferma il presente o la storia inchiodandoli ad un’urgenza. Quel reale che brucia, chiedendo di non essere ignorato, è anch’esso definito e necessario, oggi e qui. C’è chi ha sostenuto che fosse proprio tale realtà la grande assente della mostra di Massimiliano Gioni, Il Palazzo enciclopedico. Proprio là dove ogni sforzo è stato profuso al fine di destabilizzare le convenzioni più tipiche delle Biennali d’arte, nonché le aspettative di chi vuole aggiornarsi sulle ultime produzioni contemporanee, si sarebbe invece tralasciata la dimensione problematica e dialettica del mondo che corre e che necessita di un ascolto immediato.
E la domanda allora? Se fosse stato invece un eccesso di domanda a costituire il pericolo maggiore di una Biennale così tanto curatoriale? Se la domanda fosse anch’essa un vizio che imprigiona l’arte e gli artisti in un concept capriccioso? Si tratterebbe in questo caso di una lacuna altrettanto profonda: a mancare sarebbe la possibilità per l’arte di esprimere da sé la propria domanda, o più di una, magari proprio sulla realtà. Un’onnipotenza momentanea del curatore che avrebbe nelle sue mani, almeno per lo spazio di un evento, la possibilità di trasformare la domanda in testo, attirando al suo interno la risposta e costituendo un dominio temporaneo non del dubbio, ma dell’ipotesi.
Focalizziamo dunque, per un momento, questo evento-mostra internazionale: iI Palazzo enciclopedico che si è configurato tra gli spazi dell’Arsenale e il Padiglione centrale dei Giardini. A Venezia, quest’anno, chi ha impiegato le proprie energie nella sua decodificazione ha confessato spesso uno stato di confusione, seguito dalla necessità di riordinare le idee e le immagini che si affollavano nella mente. In questo senso, si può affermare che uno degli obiettivi del curatore sia stato raggiunto («Lo sguardo del visitatore dovrà essere sopraffatto dalle sollecitazioni, dalle suggestioni che lo accompagneranno» da Corriere della Sera, Il Club de La Lettura).
Ma da cosa è stato generato questo stato di inebriamento? Questa mostra si presentava quasi come un’anti Biennale (senza “le ultime tendenze” o, a detta del curatore, senza pretese da Esposizione Universale). Il pubblico si è trovato così di fronte ad una folla di artisti morti da un pezzo o di giovanissimi, posti accanto ad esempi di quella che in altri contesti è stata definita Art Brut, ovvero la produzione creativa di menti e sensibilità diverse che per via di una dote particolare o di una patologia clinicamente rintracciabile, hanno dato vita a figurazioni straordinarie, ma anche ad orribili sgorbi. Lavori che non possono essere, così facilmente, esclusi dalla nomenclatura delle opere d’arte contemporanea, ma che Gioni ha selezionato proprio per “sfumare le distinzioni tra artisti e dilettanti, tra outsider e insider.” Del resto, come è facile vedere ponendo un attimo di attenzione alle didascalie delle opere in mostra, molte di queste sono prestiti di notevoli gallerie. In questo caso ci si potrebbe addirittura chiedere se forse non siamo noi, visitatori incantati, confusi, inorriditi o annoiati da tali novità, gli outsider di un sistema dai risvolti commerciali ben stabili. Per riprendere il filo del pensiero che Gioni ha organizzato in immagini e allestimenti museali (sovrapponendosi del tutto all’architettura delle Corderie dell’Arsenale), è necessario
citare il riferimento essenziale di questa mostra: il progetto del meccanico (e artista autodidatta) della Pennsylvania Marino Auriti, il quale lavorò per tutta la vita al modello di un edificio che avrebbe dovuto raggiungere i settecento metri d’altezza, in cui sarebbe stato racchiuso tutto il sapere dell’umanità. Il Palazzo enciclopedico, per l’appunto. Ora, a mio avviso basterebbe anche soltanto ravvisare l’idiozia di un progetto che pretenderebbe di rappresentare la conoscenza globale come qualcosa di abbastanza definito da consentirne un’inventariazione. Infatti era Auriti a pensarlo, non Diderot, non Malraux, nè Eco. Però, volendo proprio andare dietro al signor Auriti, si potrebbe prenderlo come un gioco, a partire dal quale innescare una dialettica di voci della contemporaneità, piuttosto che ravvisarvi niente meno che il simbolo del fallimento positivista e lo spunto del pensiero olistico e postcolonialista. Argomenti del resto abbondantemente consumati e oggi facilmente digeribili e divulgabili. Una deriva nel mondo delle immagini produttrici del visibile, interpreti dell’invisibile? Bello, ma manca qualcosa.
Ciò che allora mi è venuto in mente, mentre mi ponevo le domande necessarie ad orientarmi nel paesaggio in cui mi trovavo immersa, è che questo paesaggio potesse essere considerato più come una scenografia che come un territorio reale: una scenografia retta da una notevole impalcatura capace di sostenerne ogni deviazione. Rileggendo adesso le parole del curatore, alcune di queste sensazioni vengono confermate.
La mostra-ricerca di Gioni espone capolavori della mente umana, splendide immagini, interessanti progetti e moltissimi diari o archivi privati di artisti ma è carica di domanda: all’arte di oggi e del passato e anche alla non arte. Che interroghi le vicende della psiche (da Jung a Steiner, ai suddetti pazienti psichiatrici); o esplori il mondo esoterico e le narrazioni dell’alterità (artisti africani ecc.), la domanda è sempre una, racchiude tutto, rassicura. Gioni non è il curatore di un vecchio museo ottocentesco, ma un avveduto conoscitore del sistema dell’arte contemporanea internazionale e dei suoi limiti. Da tale sistema si è schermato a dovere, costituendo un luogo di indipendenza e creatività, ma da lì dentro si è precluso
la possibilità di articolare, con altrettanta indipendenza, le voci che restano fuori dal palazzo.
Torno allora a ciò che mi è frullato in testa girovagando tra una mostra e l’altra. E riavvio il percorso a partire dalle domande che ho incontrato nei padiglioni nazionali, negli eventi collaterali, ma anche in alcuni ottimi esempi di eventi “laterali”. Domande poste dagli artisti, provenienti da realtà differenti, portatrici di problematiche, desideri, ma anche, spesso, di dubbio.
«Quando ha cominciato a cambiare il mondo? Nel 1973? Nel 1989? Quando è morta la “imagination au pouvoir”, nel 1968 o nel 2012? O solamente il 1o Gennaio 2013?» Così si interroga Jota Castro, insieme agli altri artisti da lui invitati a prendere parte alla mostra di Emergency Pavilion: Rebuilding Utopia. Questo più che uno pseudo padiglione deve essere letto come un vero progetto che, fuor di retorica, intende innescare un cambiamento nel mondo per mezzo delle potenzialità comunicative, ma anche organizzative, concrete, dell’arte. In questo caso ad una domanda è connessa una serie di risposte possibili che, attraverso la lettura della storia recente, giungono alla definizione di parole come Utopia e Solidarietà. Solidaridad è la scritta che campeggia nello striscione realizzato da Emily Jacir come un’iscrizione sul frontone di un tempio che non invita a conoscere se stessi ma ad occuparsi degli altri. Ma Solidarietà, oggi, è anche una richiesta urgente. Poca astrazione e molta realtà in questo atteggiamento che non può fare a meno dalla consapevolezza dei cambiamenti in atto nel mondo che abitiamo: «Quanto può sopportare una città?» Il titolo del video dell’artista Teresa Margolles si fa portatore di un quesito essenziale della nostra epoca, quello relativo al futuro dell’abitare.
Dentro la Biennale, in uno dei padiglioni più toccanti e incisivi, quello del Giappone, mi è capitato di leggere ancora delle domande, questa volta legate ad una relazione intima con la realtà, benché si tratti di una realtà terrificante come quella del trauma legato al terremoto del marzo 2011 e del conseguente incidente nucleare. «Come posso contribuire io?» O ancora, «Cosa produrrà una simile tragedia nel mondo dell’arte?» Nella semplice complessità di questi interrogativi, l’artista pone una prima auto-riflessione che si sviluppa in una serie di domande successive rivolte a gruppi di persone molto diverse, attivando processi di lavoro e collaborazione. Un percorso che verte sulla registrazione dei piccoli, grandi cambiamenti avvenuti nello stile di vita di chi ha subito la catastrofe e sulla loro ricontestualizzazione in ambiti diversi e lontani, al fine di renderne condivisibile il senso e il livello emozionale. Ancora una domanda dunque, «Una rappresentazione astratta di fatti reali può aiutare ad accrescerne la comprensione?» In questa mostra non si sviluppa una chiave di lettura, poiché il progetto che essa racconta punta a stimolare comportamenti inusuali sui quali interrogarsi nuovamente alla ricerca di risposte formulabili solo dentro l’esperienza.
Da un padiglione nazionale ad una mostra laterale che ha voluto utilizzare il linguaggio della Biennale per affermare provocatoriamente la serietà di un problema. The Garbage Patch State Venice, a Ca’ Foscari, è un finto padiglione nazionale di uno stato inesistente a livello politico, ma così vasto nella sua reale estensione da costituire una realtà geografica. Il continente della spazzatura, una piattaforma di rifiuti di plastica che confluiscono in zone precise degli oceani da ogni luogo del pianeta. Anche in questo caso, sono state le domande a generare un processo creativo e comunicativo che diviene didattico in una ricerca sostenuta anche in ambito universitario. L’artista ha scelto di intreprendere un intervento a lungo termine a partire da un quesito fondamentale: «Come si poteva pensare di cambiare qualcosa se nessuna delle persone a cui chiedevo conosceva esattamente il problema?» Nel testo che accompagna il suo lavoro torna ancora, come per il Giappone una meta-domanda: «Può l’arte dirci che siamo in pericolo?» La dimensione conoscitiva è stata un punto essenziale nella ricerca di molti artisti contemporanei che hanno scelto di contestualizzare il proprio linguaggio all’interno di modalità e pratiche quali il laboratorio, la propaganda, il blog, le piattaforme mediatiche e la collaborazione con programmi di ricerca.
In un evento collaterale della Biennale, This is not a Taiwan Pavilion, la domanda che si pone è relativa alla comunicazione dell’identità: «Quali sono i mezzi che è possibile sfruttare per una comprensione reciproca quando le nostre identità sociali e le nostre storie sono spesso inventate, costruite in modo fittizio ed espropriate?» Il tema che il progetto esprime è legato alla dialettica tra identità e alterità, anche nella scelta di un atto di negazione come quello presente nel titolo.
In un senso ancora più interno all’arte, si collocano le domande dell’artista Stefanos Tsivopoulos, rappresentante del padiglione della Grecia. Si tratta, ad una prima lettura di due quesiti indipendenti tra di loro, ma nel lavoro qui presentato le due domande camminano insieme e per questo inducono a soffermarsi ancora sulla dimensione attiva e creativa del punto interrogativo. Il primo: «In che modo noi produciamo immagini, e perché noi produciamo immagini?» Il secondo: «Cos’è la crisi, dove si è generata, esiste un modo per resistere adottando un punto di vista differente della crisi stessa?». Il lavoro esposto scaturisce dalla necessità che ciascuna domanda porta con sé e che conduce ad indagare le immagini della crisi e il concetto stesso di rappresentazione, o punto di vista. Al centro dei tre video è il tema del denaro e del suo valore relativo, come relativo è lo sguardo costruito dai media sulla realtà di un Paese colpito dalla recessione nel 2012. Il potere dell’immagine e quello del denaro sono svelati nella tripla raffigurazione di personaggi nella città di Atene: tutti e tre hanno a che fare con i rifiuti. Nella percezione del pubblico, assuefatto ad un racconto televisivo in cui tutti i cittadini greci condividono la medesima fisionomia, la scoperta che i tre individui sono in realtà così diversi, risulta spiazzante. Una collezionista d’arte realizza origami con le banconote in euro, circondata dagli oggetti accumulati nella propria casa museo; un immigrato africano raccoglie rottami nei cassonetti; un artista in cerca di ispirazione, vaga per la città. Il carrello della spesa, il denaro, sono immagini che si decontestualizzano poiché significano cose diverse in relazione alle tre differenti situazioni. L’artista non risponde alle due domande che ha posto, ma ci lascia ad interrogarci su ciò che abbiamo visto e saputo finora.
In un contesto diverso, quello del padiglione delle Maldive, una domanda forse simile, decisamente inquietante, si incarica di rappresentare un problema locale e globale al tempo stesso: la lenta e progressiva sparizione delle isole a causa dell’innalzamento del livello dei mari, determinato dal cambiamento climatico in atto sul pianeta. Non si tratta soltanto di interrogarsi sulle possibilità di salvezza della popolazione, ma, come ci suggeriscono gli artisti, di porsi ancora una volta la questione più ampia della condivisione dei quesiti e delle soluzioni. C’è di più: la mostra ci parla della necessità
di mettere in dubbio le formule che la scienza e i governi hanno fornito in risposta alle domande poste da organismi controllati. «Who should decide if the application of geoengineering technologies would be legitimate and suitable to save the nature of unique places for humanity and above all for their local populations?»
Cos’è la geo-ingegneria di cui parla Klaus Schafler? Perché dubitarne? Si affaccia qui il tema del “relativo”, ma stavolta non in relazione alle diversità dei popoli e delle culture “locali”: ciò che viene revocata in dubbio non è solo la neutralità del punto di vista, ma anche quella della domanda. Da quali e quanti soggetti viene formulata la domanda che indaga il nostro presente?
In quest’ultimo interrogativo, posto alla domanda stessa, è possibile scorgere un’occasione unica. Da questo si può avviare un processo a mio avviso irrinunciabile, che non consiste nel cedere al mondo reale, rinunciando all’indipendenza della critica ma, al contrario, nel seguire il proliferare (nel mondo e nell’arte), delle problematiche relative, individuandone i fattori di continuità e differenza. La potenzialità dell’arte sta forse proprio qui, non nell’ansia ermeneutica di cui parla Baratta, il presidente della Biennale, ma nell’assunzione del rischio di un cambio di rotta nel presente, sulla realtà in constante cambiamento. Non che Jung o Steiner non l’avessero indicato, al loro e al nostro presente, il cambio di rotta.
Rudolf Steiner, Various blackboard drawings, 1923, Chalk on black pape. Walter Pichler, Installation view, photo By Costanza Meli, Courtesy Edizioni De Dieux.
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