A che serve una mostra europea se non a connettere le esperienze e le competenze acquisite nelle più lontane propaggini di quella mappa mentale che è l’Europa? Per non considerare poi, che Manifesta è una mostra che dà spazio alla rappresentanza dell’arte mondiale (più di 180 artisti da tutto il mondo) e non soltanto occidentale.
Un’edizione tutta italiana della Biennale d'arte europea? No!
Per fortuna nessun nazionalismo contamina Manifesta7: il gruppo di curatori, gli artisti, la comunicazione degli eventi, sono spiccatamente esterofili. In questo potremmo rintracciare il requisito più interessante di una simile impresa organizzativa e mediatica, prima ancora che culturale.
La possibilità di uscire fuori dai recinti in cui molti vorrebbero chiudere manifestazioni simili, vedi Biennale di Venezia, e fuori dalle polemiche sulla mancata rappresentanza dei "nostri" artisti.
A che serve una mostra europea se non a connettere le esperienze e le competenze acquisite nelle più lontane propaggini di quella mappa mentale che è l’Europa? Per non considerare poi, che Manifesta è una mostra che dà spazio alla rappresentanza dell’arte mondiale (più di 180 artisti da tutto il mondo) e non soltanto occidentale.
A conferma di ciò citiamo le parole degli stessi organizzatori che hanno unito le loro forze per ... gettare un ponte fra l’arte contemporanea, il pubblico internazionale e la popolazione locale ... In occasione di una mostra che ... per la prima volta ricopre un intero territorio regionale e non soltanto una città ... E che ... ruota intorno alle dinamiche della differenza che costituiscono il cuore pulsante dell’Europa.
Bisogna, però, complimentarsi con la Fondazione e i curatori senza tralasciare una questione culturale di rilevante importanza: internazionalità o internazionalismo? O glocal? (terza via)
Pongo tale questione perché considero fondamentalmente politico il valore delle scelte curatoriali contemporanee. Una sincera attenzione alle dinamiche culturali che si realizzano in un continente che non esiste (l’Europa) se non come mappa politica e finanziaria deve tenere conto delle doppie e triple articolazioni dei linguaggi che si confrontano al suo interno.
Per comprendere il panorama artistico contemporaneo in Paesi diversi del Mondo, in un momento politico determinato, andrebbero scelte delle lenti di ingrandimento capaci di rivelare la specificità di realtà in conflitto o in trasformazione, reduci dal pensiero unico delle dittature o in via di sviluppo, foriere di valori di rinnovamento o custodi di antiche tradizioni, coinvolte nella ventata di fascismo che soffia sull’Europa, o rappresentanti di vetuste istituzioni culturali.
Torniamo allora al problema interpretativo cui accennavo pocanzi. Internazionalità: multiculturalità e cosmopolitismo si fondono in questo concetto così discusso e attualmente sottoposto ad un continuo processo di revisione. L’obiettivo di una critica culturale e di una prassi artistica consapevole non può che essere rivolto a questa tematica.
Non credo che la provenienza dei curatori - i tre teams curatoriali sono costituiti da Adam Budak (Cracovia/Graz); Ansel Franke (Anversa/Berlino) e Hila Peleg Berlino/Tel Aviv; Raqs Media Collective (Nuova Delhi) - rispecchi le loro scelte artistiche.
Non basta mettere insieme collettivi e intellettuali di differenti parti del globo per ottenere un’efficace risposta al problema posto dalla necessità di dar voce a culture che un tempo non godevano di rappresentanza nelle grandi mostre occidentali.
Il fatto è che non è più una questione di inviti: l’arte oggi si muove per il mondo ad una velocità mai raggiunta prima, per via della rete, della diffusione della comunicazione. Si moltiplicano le Biennali in tutto il pianeta, le fiere crescono, lievitano addirittura.
Il must del curatore sembra essere quello di seguire globalmente e frammentariamente le tendenze e gli sviluppi del pensiero e delle pratiche in posti lontanissimi che adesso dialogano tra loro, per questo non credo sia più il momento di presentare una Biennale d’arte contemporanea come l’occasione unica per far conoscere e conoscersi.
Una Biennale può essere il luogo che ospita il discorso di ciascun artista consentendogli di esprimersi al meglio, vedi Venezia, o scegliere un'impostazione curatoriale e progettuale come in questo caso, ma con le contraddizioni inevitabili in un contesto di quasi 200 artisti.
È soprattutto nella modalità che si sceglie per comunicare al pubblico le potenzialità e le specificità degli artisti o dei progetti, che risiede la possibilità di riuscita e il senso stesso di una manifestazione così articolata e imponente. Modalità che, come diremo alla fine, è stata espressa compiutamente soltanto nell’articolazione degli eventi paralleli alla mostra.
Più che l’esotica provenienza del gruppo Raqs Media Collective, (di cui sarebbe stato più interessante e istruttivo conoscere l’importante e innovativo lavoro sul campo) allora, ciò che conta davvero, in tal senso, è la formazione teorica della nuova generazione dei curatori di questi eventi. Se ci si diploma tutti al Goldsmiths, forse si risentirà di un certo, paradossale, linguaggio/pensiero unico e multiculturale.
Nella storia dell’arte non è la nazionalità di artisti e critici a determinare il loro discorso sull’arte e sulla società.
Andiamo alla mostra.
L’unica vera scelta comunicativa e coraggiosa che ho apprezzato sinceramente, aldilà della riuscita e della selezione attuata sui testi e sui nomi degli artisti è, sicuramente, Scenarios, il progetto collettivo che ha unito i tre teams di curatori nella sede del forte asburgico di Fortezza.
Un luogo può parlare attraverso le parole degli artisti, senza che questi si mettano in mostra. Il fortino militare è testimone di una storia, porta dentro di sé la propria condanna: la sua natura militare, violenta nonostante i reali trascorsi, segreta e ufficiale al tempo stesso, ma decisamente lontana dal messaggio culturale e pacifista dell’arte. Rivisitarne oggi la struttura attraverso l’intervento dell’arte contemporanea significa alleggerirla da tale fardello e contemporaneamente attribuirle un peso specifico nuovo, maggiore se vogliamo: quello della memoria e della cultura.
È stato pertanto chiesto a dieci autori di rispondere con un testo all’enigma della fortezza… romanzieri, filosofi, poeti, drammaturghi, musicisti e artisti hanno inviato i testi sotto forma di lettere, che interpretati da un regista teatrale, hanno poi riecheggiato tra le sorde mura dell’enorme edificio.
Qui la scelta dei curatori sembra davvero interpretare ciò che oggi può essere il compito dell’arte di fronte alla storia e alla crisi delle istituzioni: esprimersi senza urlare slogan, lasciando alle cose e ai luoghi costruiti dalla storia la possibilità di essere vissuti con la lentezza adeguata ad una lettura critica. Intendo la critica come l’esercizio attento che necessita della distanza e dell’ascolto.
L’ascolto è del resto un importante elemento che caratterizza le sperimentazioni di artisti e musicisti che oggi lavorano sul tema del paesaggio sonoro e delle sue ripercussioni sulla creazione artistica. Uno spazio della contemporaneità che viene esplorato nell’intento di connettere esperienze e linguaggi oltre le soglie fisiche della corporeità, in un nuovo approccio al corpo e alla sensorialità delle nostre esperienze.
Se Fortezza costituisce una pausa di riflessione e di concentrazione sulle presunte verità dell’arte e sulle potenzialità destrutturanti di tali verità che oggi ha acquisito la comunicazione, le esposizioni di Bolzano e Rovereto rimettono in moto il meccanismo dell’ostentazione e smantellano le possibilità di ascolto e di scelta critica.
Avrei voluto concedermi più percorsi dentro le opere o dentro i racconti che sono stati presentati all’ex Alumix e alla Manifattura tabacchi. Percorsi multipli consentono letture e ritorni, approfondimenti e riflessioni, dunque scelte e opinioni. Invece a Rovereto il curatore Adam Budak, con il progetto dal titolo Principio di speranza, ha realizzato un percorso unico, fatto di molti artisti e poche opere, ma tante notizie scritte in termini pomposi che richiedono inutili tempi di lettura senza agganciare l’attenzione del lettore/fruitore ad una comprensione legittima del lavoro proposto.
Mi sono trovata spiazzata dal foglio di carta attaccato ad un metro di altezza dal suolo che va letto in posizione carpiata e interpretato attingendo a tutte le proprie conoscenze ma volendo pur riuscire a conoscere l’artista che è stato selezionato. Già, conoscere! Perché l’arte potrebbe anche parlare da sola, senza foglio da tradurre, senza l’ossessiva ripetizione di una presunta riflessione sul vernacolare, che ne annulla automaticamente le potenzialità comunicative.
Ho cercato di conoscere gli artisti, ma ho trovato piccoli oggetti (o immagini) disseminati qui e lì in spazi enormi, oggetti che non parlavano affatto perché, nell’era postmediale, probabilmente non possono più articolare la loro parola grazie la specificità del mezzo o della forma, né contestandoli perché galleggiano a metà strada tra la sfera enunciazionale e il discorso già in atto lì nel testo di una traduzione impossibile.
Non resta in questo caso che cercare il racconto. Ho cercato il racconto vagando dalle istruzioni per l’uso al silenzio dell’opera adagiata sul pavimento della manifattura tabacchi, ma ho perso regolarmente il segnale che stavo seguendo o che avevo a stento rintracciato. Le poche frasi del curatore si frapponevano tra me e l’artista, non svelavano il suo mondo, né il territorio che voleva rappresentare, né il perché. A questa difficoltà sarebbe facile rispondere con le parole di Adam Budak e per onestà le riporto: Presentandosi come uno studio della politica della narrazione, in cui un luogo stratificato viene considerato come palinsesto e come storia intesa quale serbatoio di possibilità, la mostra è un esercizio del noi, come unico attore veramente efficace, e una prova della sua costituzione in un momento precario di spiazzamenti interiori.
Resta appunto in sospeso il dubbio che l’attenzione sia stata spostata dal fuoco artisti e discorsi degli artisti, al meta discorso in atto nella fruizione, ma il "noi" cui si fa riferimento non è realistico, questo noi non esiste affatto.
Gli eventi collaterali e special projects:
L’intera durata di Manifesta7 è costellata di appuntamenti paralleli alla mostra. In questa complessa organizzazione risiede la maggiore ricchezza di tutta la manifestazione culturale. Infatti possiamo davvero intendere l’approccio al pubblico scelto dal comitato organizzativo per questi eventi come una proposta interessante e sperimentale. A cominciare da tabula Rasa, special project a cura di Denis Isaia, presso la sede dell’ex Alumix, che prosegue dall’apertura per 111 giorni ed “ha luogo su un lungo tavolo sgombro, una “lastra pulita”, nello spazio vuoto della Stanza 124: attorno a questi due elementi si articolano una serie di eventi che rappresentano diverse modalità di incontro, sviluppando l’idea del dialogo, della condivisione, e della dimensione collettiva del creare e interpretare.
Inoltre una rete di gallerie d’arte e associazioni locali articolano eventi, mostre e dibattiti in tutto il territorio come nel caso di Lungomare, a Bolzano, o l’Associazione Incontri Internazionali di Rovereto, presso i cui spazi si incontreranno artisti, antropologi, associazioni non profit per l’arte contemporanea e molti protagonisti del modo della cultura per tutta la durata di Manifesta.
Tutto comincia negli anni precedenti la mostra d’arte, un tempo lunghissimo in cui si prepara il programma della Biennale attraverso incontri, seminari e laboratori organizzati dalla International Foundation Manifesta, in diverse città europee e nella stessa sede che ospiterà l’esposizione vera e propria. Un percorso che prosegue come dicevamo nelle attività satelliti che costituiscono la linfa vitale su cui si regge il turismo dell’intera zona, ben 4 città, e il confronto culturale di cui si sente più il bisogno in tempo di Biennale. Il dipartimento didattico, poi, è costituito da più di quaranta giovani e contribuisce a trasmettere gli elementi costruttivi e dialettici di una mentalità nuova legata all’ideazione e gestione territoriale degli eventi artistici.
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