Per la serie “grandi ritorni”: il power trio più amato dagli americani (beh, almeno da alcuni!), ma del tutto made in Italy. Post tutto, resta solo la musica.
Uno dei tratti distintivi dei Three Second Kiss è la poca prolificità: appena quattro dischi in un decennio, includendo l’ep Focal Point, tratto che si accompagna ad una decisa rifinitura dei suoni, ad ogni tappa più alleggeriti e scarni.
Ciascuno dei loro album ha fotografato dei TSK nuovi, diversi da prima eppure riconoscibili.
Questo avviene anche nel nuovo lavoro, Long Distance, il quinto (sarà forse a questo che si riferisce la song “V Season”?) della band ed il primo ad uscire per la Africantape, etichetta gestita da due musicisti, Julien Fernandez e Mitch Cheney.
I TSK sono stati definiti post-rock, math, noise e chi più ne ha più ne metta, in realtà sin dagli esordi hanno saputo interpretare certe “correnti” che stavano emergendo in ambito underground ed hanno saputo fare proprie alcune strutture, influenze e residui di ascolti adolescenziali.
Ne esce una musica matura, capace di stemperare la furia del noise rock in un regime caotico controllato e dai saliscendi mai forzati (“You are the music”, “Dead horse swimming”).
Lo stile è sempre quello, triangolazioni chitarra-basso-batteria, riff taglienti come lame di rasoio, ritmi caracollanti, echi di Shellac e June Of 44 in egual misura ma di varia consistenza, con l’accento sull’impatto delle songs.
Si può parlare d’affinità con altre band più che altro dal punto di vista attitudinale, ad esempio Shellac, per via della presenza di Steve Albini al mixer, oppure Uzeda (come loro più noti negli Usa che qui), sebbene quelli abbiano virato verso la decostruzione della forma canzone, mentre il terzetto ha scelto di deformarla a piacimento.
Ulteriore collegamento è il nuovo batterista, Sacha Tilotta, figlio di Agostino (chitarra negli Uzeda), che ha portato nel gruppo un sound più irruente senza tuttavia scombussolare gli equilibri interni.
Tutti questi elementi fanno di Long Distance un disco che si ricorda, pur recando in sé tracce di un passato ingombrante (i ’90, un drumming frammentato, gli stacchi fugaziani), è musica proiettata costantemente verso il futuro, che non vuole saperne di arrendersi, come fuoco sotto la cenere.
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