Dissonanze @ Palazzo dei Congressi, Roma 9-10 Maggio
Report completo del festival, una due giorni consacrata alle tendenze, sia le nuove sia le reminiscenze storiche, della musica elettronica. Tra flash(back) e fast(i), momenti di gloria nella Capitale.
Nel corso degli anni Dissonanze è cresciuto, ha mutato pelle di pari passo con quell’oggetto non identificato che è l’elettronica, così ricca di sfumature da non poter essere considerata un genere unico e forse nemmeno un contenitore, bensì un’attitudine verso la materia sonora (tramite il remix, i loop, la commistione analogico/digitale, il senso del beat).
Questa è l’ottava edizione, la location principale è confermata, quel Palazzo dei Congressi all’Eur, in apparenza minaccioso ma capiente e solido, che ha visto alternarsi gli artisti fra tre palchi, o meglio tre zone di “confine”. Come negli ultimi anni è rimasta l’intenzione di convogliare l’avanguardia e le sonorità più sperimentali (perlopiù nell’Aula Magna) assieme a dj set e performance, una sorta di Trinità elettronica che ha molti adepti e non si cura delle barriere.
Difficile stabilire se il pubblico condivida in toto quest’impostazione, di certo la transumanza tra una sala e l’altra è stata solo parziale, tuttavia le contaminazioni sono sempre benvenute e contagiose, anche per chi è venuto solo a ballare la techno.
Il venerdì tutto inizia dalle oscillazioni di un bicchiere. Un sorso di cognac e via, Charlemagne Palestine è di nuovo fra noi mortali.
Il maestro del minimalismo ha preparato un set basato esclusivamente su laptop, qualche effetto e la sua voce. Ha ricordato il suo primo concerto a Roma nel 1972 e da lì è ripartito, con vocalizzi eterei, ipnotici, che fermano per un attimo lo scorrere del tempo.
E’ ancora presto ma è già evidente che, mancando d’ubiquità, si perderanno molti set. Al Salone della Cultura si è iniziato col dubstep di Pinch, per proseguire con Cobblestone Jazz, uno dei nomi più in vista quest’anno.
Non sembrano aver deluso le aspettative, fautori di un programma non solo electro ma anche funk, saranno però sorpassati da altri artisti a mio avviso più sorprendenti.
Ha fatto muovere molte gambe, e non solo, Prefuse 73, su in terrazza si è presentato con una band al completo, prefigurando quello che sembra essere il tema dell’edizione 2008: percussioni, ritmi a profusione, suono live versus drum machine.
Nel frattempo Ryoji Ikeda ha preso i comandi all’Aula Magna: tre quarti d’ora di rumorismo, frantumazione ritmica e frequenze minimali accompagnate da un video di un oscilloscopio in azione. Mi ha ricordato alcune cose dei Pan Sonic e, sebbene il giapponese sia un pioniere in questo genere di sonorità, il suo set non ha brillato per personalità, a mio parere. Qualcuno s’azzarda addirittura a ballarlo, cosa evidentemente impossibile vista l’assenza di un qualsivoglia ritmo “umano”.
Una delle cose più esaltanti è stato lo spazio dedicato all’italo & cosmic disco che ha visto avvicendarsi 4 dj. Rischiava d’essere il momento “revival”, invece ha dimostrato la straordinaria attualità di quelle intuizioni, trasportate qui dal mitico Daniele Baldelli e dal leggendario Alexander Robotnick. Facevano gli onori di casa Francisco e Rodion, a quanto sembra a loro agio con questi flashback ’80.
Da segnalare anche i visuals curati dagli Otolab, misurati ma efficaci, una volta tanto meglio dei soliti trucchetti che sembrano screensaver.
Per proseguire la notte di venerdì scelgo Stephen O’Malley (già qui un anno fa coi KTL), che insieme a John Wiese e Nico Vascellari ha portato il doom alle estreme conseguenze.
E’ una performance non priva di teatralità (grazie alla mise di Vascellari, bisognava esserci!) che mette al centro le chitarre dronate e drogate, una presenza aliena nel festival ma forse profetica, col senno di poi.
Uno dei live migliori è stato senza dubbio quello di Caribou, alias Daniel Snaith, che ha infuocato la platea grazie ad una peculiare interpretazione del termine “psichedelia”. Due batterie, molti pezzi inediti, molto intrippante il tutto, da seguire nelle prossime uscite.
Sempre al rock si torna, tanto da creare un effetto bizzarro, quasi una disconnessione dal resto, con gli americani No Age, duo chitarra e batteria che tenta un incrocio improbabile: si sente che sono cresciuti col garage ed il punk, ma gli piace anche lo shoegaze.
Tanto fracasso e molta potenza, ma purtroppo la resa live non è al massimo (causa qualche problema tecnico irrisolto). Forse non è l’orario adatto per loro, tuttavia raccolgono fan, pochi ma fedeli.
Sabato 10 maggio le distinzioni fra le sale sembrano più nette: al Salone tutta la techno e derivati (con in rilievo i nomi di Model 500 e Carl Craig, che chiuderanno il festival), in terrazza il lato più “black” con Kevin Martin (alias The Bug) che sintetizzava dub, industrial e hip-hop, e il grande evento di Dissonanze.
Si tratta di Brasilintime, progetto che coinvolge tre dj d’alta classe (Dj Nuts, J Rocc e Madlib) e li affianca a percussionisti come Ivan Mamao Conti, Joao Comanche Parayba e soprattutto Tony Allen, batterista di Fela Kuti.
E’ il funk che, assieme al samba, all’afrobeat e alla batucada raggiunge livelli stellari e fa decollare tutti i presenti.
Sempre di altitudini si parla altrove, ma in questo caso sono vortici spaziali quelli che avvolgono gli ascoltatori: è infatti il momento dei Cluster, duo tra i padri del krautrock.
Il loro set è più incline al rock cosmico in quest’occasione e, se si vuole, all’ambient: un viaggio, seppur breve, alle origini di ciò che è stato.
Il concerto “indie” per eccellenza è stato probabilmente quello dei Fujiya & Miyagi, nonostante le ascendenze kraute (anche loro!) e le voglie danzerecce, mantengono la rotta in direzione Madchester (chi si ricorda gli Happy Mondays?), tuttavia su disco sembravano migliori.
La sorpresa più spiazzante è stata per molti quella del duo Lucky Dragons: una performance collettiva più che un’esibizione. Infatti i due (che rispondono ai nomi di Luke Fischbeck e Sarah Rara) allestiscono il loro set con marchingegni autocostruiti e video piuttosto folli, spostandosi sopra e sotto il palco, invitando il pubblico a partecipare. Nello specifico, a Dissonanze distribuivano sassi(!) da accostare ad una specie di theremin che emetteva una frequenza che cambiava d’ampiezza secondo la distanza dal sasso. Così ognuno “suonava” il proprio pezzo: l’incredulità ha fatto presto posto alla curiosità e tutti si sono lasciati prendere dai giochi orchestrati dai Lucky Dragons. Un altro dei lunghissimi “brani” prevedeva che si tenesse in mano un cavo e stavolta il suono cambiava semplicemente tastando la propria mano (come una cassa di risonanza), insomma una follia da descrivere.
Ottimo il consenso riscosso da questi folli freak, non ampio però quanto quello dei nostrani Zu, i quali hanno aperto voragini laddove erano pertugi post-qualcosa. Non solo jazzcore il loro sound, ma una mefistofelica mistura indigesta, che però più la provi e più ti aggrada. Le scorie metal sembrano aver preso il sopravvento, o almeno così sembra stanotte, il terzetto non lascia spiragli melodici né si abbandona alla stasi: è un tirare la corda nella speranza che prima o poi si spezzi. Adeguate le proiezioni di Scarful, un alternarsi dei film di Kenneth Anger e di “Haxan”.
L’ottava edizione si chiude con un bilancio complessivamente positivo, ad occhio con una minore affluenza di pubblico, mentre ad un programma ricco e fluido non sempre è corrisposta una buona prestazione degli artisti. Ma è un rischio di tutti i festival, e a Dissonanze il coraggio delle scelte non manca. Resta una domanda: a chi è dedicato lo slogan “One day you’ll understand”?
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