Scatole Sonore terza stagione, quarto atto: torna l’appuntamento mensile al Rialto per il contenitore impro che gioca d’azzardo con musiche, arti visive e performative non convenzionali.
Scatole Sonore @ Roma, 7/2/2008
Serata densissima come sempre, quella del 7 febbraio scorso: s’inizia puntuali (cosa molto rara per gli happening romani!) con il video di Eli McBett, S-KIPS 2007, che documenta una performance avvenuta a Dublino, nell’ex carcere di Kilmainham. In quel frangente gli spettatori diventavano, a detta dell’autrice, “testimoni di un’esecuzione”, ossia partecipavano alla distruzione di alcune opere della McBett. Un lavoro che sembra essere il contrario di una catarsi, un report carico di tensione emotiva, che ci fa conoscere un luogo inquietante che ha raccolto storie e speranze di tante persone.
Da ricordare anche la mostra fotografica, che in quest’occasione ha ospitato Tamara Scifoni, esperta in autoritratti e nell’indagine sul corpo, che in “Spazio Muto”, amplifica la propria ricerca, che inizia dallo specchio per giungere a sé. Incuriosisce e promette bene.
Segue la performance di Flavio Arcangeli: si tratta di uno studio di danza butoh, sebbene non sia propriamente ortodossa, ispirato a due esperienze molto importanti per l’autore. Una è il film di Pier Paolo Pasolini “Il Vangelo secondo Matteo”, l’altra un’escursione sull’Etna, scenario che ha ispirato in qualche modo questo suo lavoro.
In Scatole Sonore, tuttavia, la musica resta la parte centrale, quella di confronto totale e di approfondimento su ciò che è l’improvvisazione in Italia, oggi.
Nientemeno! Direte, eppure il progetto funziona: il set parte coi romani Vonneumann, già trattati su Succo Acido molto tempo fa, qui in un’inedita line-up a tre, senza batteria.
Ogni concerto dei vonneumann fa storia a sé, raramente si trovano riferimenti coi dischi usciti finora, perciò ogni volta è quasi un’altra musica. L’inizio mi ricorda i Gastr del Sol, poi gli intrecci delle chitarre, i drones creati dai laptop ed il basso percosso violentemente portano in altri territori: a tratti questo post rock cerebrale e rovente si fa entusiasmante, i brani sono canovacci su cui imbastire trame, ora ambient noise ora psichedeliche.
Il duo che ha il compito di proseguire il cammino sono i Camusi, vale a dire Madame P e Stefano Giust. Anche loro nomi già noti da queste parti, ma il connubio artistico è storia recente.
Il live è sfolgorante: i ritmi frammentati di Giust mutano con la naturalezza di un battito d’ali; è free jazz, è impro radicale, è addirittura trip hop, ogni pezzo porta la sua impronta, indelebile. Non è da meno la Madame per eccellenza: la sua voce trasuda passione e veemenza ad ogni passo, è un graffio, una carezza, uno schiaffo ed un urlo al contempo.
Tutto questo con l’ausilio di un microfono, un campionatore ed aggeggi vari, poche modifiche accorte che trascinano il suono dei Camusi nel baratro dell’anima, per poi risalire al cielo.
Il nome, a proposito, è un anagramma di “musica”, ed è forse scontato affermare che il duo è un gioco enigmistico da risolvere, con tutte le definizioni al posto giusto, una forma di improvvisazione che riesce nel miracolo di non apparire raffazzonata o capitata per caso. Da non perdere, se li avvistate in concerto.
Com’è tradizione, chiude l’incontro di Scatole la jam tra i partecipanti: ne esce qualcosa di, inaspettatamente, assai distante da entrambi. Un miscuglio jazz-rock fuori dagli schemi, forse perché suonare insieme porta a galla elementi che non si sospettavano di avere.
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De Dieux /\ SuccoAcido