L’identità in mutazione
Per concludere questo percorso all’interno della Biennale di Venezia 2007 ho scelto di individuare un filo rosso tra gli interventi degli artisti che hanno rappresentato, in un contesto di riflessione sulla società contemporanea e su una situazione globale di incertezza e cambiamento, il tema dell’identità in costante mutazione.
In che modo l’arte ci mostra le potenzialità e le conseguenze delle trasformazioni in atto nella donna e nell’uomo contemporanei?
Che attenzione dedicano gli artisti alle distinzioni di genere, alle rappresentazioni del corpo, agli status sociali, all’appartenenza culturale e di razza?
Ciò che, in questa edizione della Biennale, è apparso a tutti chiaro è la presa di posizione unanime da parte degli artisti nei confronti di una situazione politica globale dominata dal conflitto e dall’orrore che la crisi di una democrazia, esportata con la violenza della colonizzazione, ha generato nei cittadini di tutto il Mondo.
Il fulcro della maggior parte delle opere in mostra, quest’anno, è, dunque, la devastazione provocata dalle guerre: terrorismo, o servizi segreti, grandi potenze e genocidi, lotte civili.
Ma ciò che in diversi casi sembra venir fuori è un nuovo dubbio circa la possibilità di una definizione identitaria.
Si può oggi ridiscutere la fisionomia dell’individuo in una fase storica di sconvolgimento e di continui tentativi di riassestamento degli equilibri politici?
Cosa è accaduto alle riflessioni dei body artisti degli anni 80 e 90?
In che modo i flussi migratori e le nuove povertà generate dai nuovi equilibri di potere post guerra fredda hanno influito sulla possibilità di costruire o difendere le identità?
Un esempio - lo abbiamo osservato nella seconda parte di questo speciale sulla Biennale, dedicata al sottotitolo L’arte al presente - è quello di Yto Barrada che affronta la questione del cambiamento da un punto di vista molto interessante: gli uomini come le piante, i fiori di Tangeri che non crescono più e lo spaesamento di una città che non rispecchia più la cultura dei propri abitanti.
Lo sguardo al paesaggio come indice di una trasformazione socio-culturale è foriero di molte implicazioni sia estetiche, nell’attenzione ormai sempre più diffusa nel mondo dell’arte al territorio e al paesaggio antropico, che politiche, considerando il ruolo dei governi e delle leggi sull’urbanistica e l’ambiente nei confronti della vita delle città e dei loro abitanti.
Un diverso approccio al tema dell’identità viene proposto dall’artista che rappresenta le repubbliche Checa, e Slovacca, Irena Jůzová.
Il padiglione è stato trasformato in un atelier di alta moda, in cui vetrine e mobili bianchi e asettici – come spesso vuole apparire la merce – mettono in mostra, al posto degli abiti, i calchi in lucoprene del corpo dell’artista.
Un intervento che ricorda i lavori di Janine Antoni e molte riflessioni sul corpo femminile e le sue implicazioni culturali, ma ciò che scrive l’artista in un suo studio su Michel Foucault e Gilles Deleuze è significativo della sua personale ricerca: “Noi continuiamo a produrre noi stessi come soggetto basandoci su modi vecchi che non corrispondono ai nostri problemi”.
Risulta chiaro come l’artista si impegni nella ridefinizione di una rappresentazione corporea attraverso la riflessione sui modelli sociali che vengono imposti dalle esigenze del mercato e della produzione in serie.
Un approccio critico alla forma/corpo che non viene celato nelle maglie di un’elaborazione metaforica, ma, al contrario, svelato nella facile ricostruzione di un contesto significante: quello di una boutique.
La visualizzazione è l’espediente discorsivo di questa installazione: lo notiamo nella chiarezza espositiva che ci consente di operare un riconoscimento e, al tempo stesso di maturare un distacco dalla merce esposta, così finta e così concreta, tanto assurda che non possiamo assimilarla alle esperienze quotidiane dei nostri acquisti. Eppure, nella discrezione di quest’opera, che non ci turba, non ci violenta ma ci da il tempo di riflettere, c’è una forza implicita, un elemento che ci accoglie da subito ma si rivela in un secondo momento. L’assenza.
Il vuoto che caratterizza ogni calco è il fulcro del messaggio che Irena Jůzová ci lascia nell’impronta della sua pelle. L’artista non è lì con la sua carne, non ci presenta la passione fisica del corpo sottomesso alle leggi dell’industria dell’immagine, non ci mostra una sofferenza militante, ma si sottrae, sguscia fuori, è altrove.
Alla perdita/affermazione dell’identità, tanto agite e discusse dalla body art di Orlan, Antoni, Schneemann, … l’artista contrappone la possibilità di una via parallela.
Oggi il discorso viene riarticolato: la donna artista è vittima come tutti di un sistema, di un programma iconografico di regime, ma è pur sempre, contemporaneamente, altrove, pensa e gioca con l’impronta che il mondo imprime sulla sua superficie. Propone ed espone tale esteriorità fisica come un involucro che non può intrappolare davvero l’individuo.
Molto diverso è il discorso portato avanti da Aernout Mik, il quale riempie lo spazio del padiglione Olanda con una serie di video dal titolo esplicito: Citizens and Subjects.
L’artista mette in scena una situazione di “addestramento” in cui gli attori simulano un’azione di controllo repressivo della polizia nei confronti di un gruppo di immigrati.
Il video gioca sull’ambiguità generata dall’accostamento di immagini costruite e immagini tratte da documenti filmati di effettive esercitazioni.
La rappresentazione della violenza contro chi cerca asilo è articolata in una complessa installazione multicanale che, a sua volta, è inserita in un’architettura site specific che ingloba le proiezioni al livello del pavimento.
La modalità in cui si attua la fruizione è un elemento fondamentale in questo intervento: il pubblico osserva le proiezioni in piedi o seduto sui materassini disposti a terra di fronte i video. La percezione dello spazio è condizionata dalla moltiplicazione dei punti di vista su ciò che accade e dalle inquadrature diverse che mostrano la stessa scena in panoramica o zoomata tanto da consentire l’immersione in un singolo contesto.
Si è circondati da immagini grandi che si aprono come finestre su una realtà scomoda, su scene fastidiose che abitualmente ci vengono omesse.
Allora il gioco tra finzione e realtà coinvolge anche il senso di questo lavoro: la riflessione sull’identità del soggetto che di per sé è solo “una persona sottoposta all’autorità di un sovrano, di uno Stato o di un potere governante”, a differenza del cittadino che “gode dei diritti e al quale spettano i privilegi derivanti dall’appartenenza ad uno Stato o ad un popolo.”
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