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Art - Art Fairs & Festivals - Article | by Costanza Meli in Art - Art Fairs & Festivals on 03/12/2007 - Comments (0)
 
 
 
La Biennale di Venezia 2007 - II parte @ Venezia

L’arte al presente.
Come promesso, la seconda tappa del nostro approfondimento sulla Biennale di Venezia prende le mosse dal sottotitolo “L’arte al presente" che ha consentito a Robert Storr un’improvvisa virata di senso, rispetto al titolo, in direzione dell’attualità dei temi affrontati dalla quasi totalità degli artisti in mostra.

 
 

L’indicazione fornita dal curatore, infatti, risulta quasi un’ovvietà di fronte alla proliferazione, in questa esposizione, di immagini improntate alle più recenti questioni politiche: dalla guerra americana in Iraq, ai conflitti che dilaniano i molti Paesi rappresentati nel nuovo padiglione africano, all’analisi dei rapporti tra cultura e potere che hanno caratterizzato la storia degli Stati d’area balcanica e sovietica nella loro emancipazione dai regimi totalitari.

La considerazione sul presente, però, va spinta oltre questo livello immediato della fruizione: verso l’individuazione delle differenze tra quegli interventi che si sviluppano a partire da una reale critica della situazione politica contemporanea e le mistificazioni. Queste ultime sono spesso semplici rappresentazioni delle icone del conflitto riconoscibili dalle masse di pubblico create dal sistema mediatico. Ancora maggiore attenzione va riservata a quegli artisti che hanno incentrato il proprio lavoro proprio su quest’ultimo aspetto della “faccenda guerra”: la strategia della comunicazione politica, importantissima pedina nelle mani del potere.
Uno sguardo veloce a questa Biennale non consente distinzione alcuna: sono tanti gli artisti, poche le informazioni nel catalogo e solo un’attenta lettura dei testi proposti a commento di ogni opera può rivelare gli aspetti più interessanti di una mostra talmente corale.
Il primo elemento che differenzia questa edizione 2007 dalle precedenti dell’ultimo decennio, è sicuramente, la dominante della scrittura.
Il testo scritto, in guisa di spiegazione, commento o critica accompagna molte delle installazioni presenti all’arsenale e introduce lo spettatore in buona parte dei padiglioni nazionali ai giardini e nella città di Venezia.
Più che in passato, la parola costituisce, in ciascuno dei casi che citeremo, ma in generale nel complesso dell’esposizione, il mezzo espressivo che completa, dirige, articola il senso dell’arte contemporanea quando questa approccia l’immagine della contemporaneità.
Sì, perché l’aspetto stesso del quotidiano, quello che vediamo attraverso i monitor, sulle pagine del giornale, nel web, è, per l’appunto, immagine.
La domanda, allora, risulta ovvia: bastano le immagini a rappresentare ciò che accade nel mondo?
Più analiticamente: Ci accorgiamo tutti di come le immagini che ci sommergono corrispondano ad un linguaggio?
Gli artisti della Biennale ci mostrano le diverse potenzialità che questo linguaggio, a seconda del montaggio, delle tecniche di narrazione, delle tattiche di selezione e isolamento di un dettaglio rispetto al flusso delle informazioni, può sviluppare in mano a soggetti capaci di invertire il percorso della comunicazione.
Tale dimostrazione avviene, per contrasto, anche nei casi in cui, come accade all’americano Charles Gaines, tale acume porta l’artista a sfruttare in modo infantile la scena di un aereo che precipita sopra una città (abbozzata in plastico) determinando uno scenario di devastazione (Airplanecrash Clock, 1997/2007). Un teatrino che, sebbene preceda di molti anni la tragedia delle Torri Gemelle, non aggiunge alcuna riflessione all’evidenza banale di un giocattolo.
Procedendo oltre, l’attenzione all’utilizzo dei linguaggi si manifesta in diverse forme; proviamo ad osservare come alcune di esse si fondino sull’interazione tra la forza espressiva dell’immagine presentata e la possibilità che il testo ci offre di avvicinarci ad essa fuori dai pericoli del luogo comune.

A proposito di scrittura e comunicazione, cominciamo dall’artista spagnolo Ignasi Aballí che alla Biennale presenta due opere: Llists, una selezione dei suoi pannelli fotografici, all’Arsenale, e l’installazione Inventory (Languages A-Z), presso il Padiglione Italia.
In entrambi casi l’immagine, stampata su grandi pannelli o su carta da parati, è costituita da un testo. La particolarità di Inventory, ad esempio, consiste nel fatto che ciò che viene offerto alla lettura è l’elenco completo delle lingue di tutto il Mondo, dalla A alla Z, come specifica il titolo. Aballí ama raccogliere ritagli di giornali, elenchi di cose, nomi, avvenimenti, che assumono un senso nel contesto dell’opera stessa agendo sul pubblico cui viene chiesto implicitamente di elaborare i frammenti di narrazioni incompiute.

Un altro esempio di riflessione sulle potenzialità della parola che si fa immagine, è il lavoro dell’artista algerino Adel Abdessemed: Exil. Si tratta di un intervento minimale basato sul gioco della sostituzione di una lettera all’interno o, come in questo caso, alla fine di una parola, al fine di deviarne il significato. Non solo: la parola stessa exil è sostituita ad exit anche in senso fisico, poiché compare nei punti di passaggio da una stanza o area espositiva all’altra, non indicando necessariamente l’uscita effettiva dall’edificio, ma agendo come elemento destabilizzante nel percorso fruitivo del pubblico.
Una parola disolocata è l’indice di un più ampio spaesamento, condizione alienante di popoli in costante peregrinazione, dimensione globale di un vivere sradicato che nega l'appartenenza culturale.
Nella provocatoria lettera a Fidel Castro pubblicata sul catalogo della Biennale, l’artista si definisce come un soggetto che ha “sempre tentato di indagare le zone sensibili, a cavallo tra legalità e illegalità...”
La porta, l’uscita o l’accesso, rappresentano più che mai, in un’era di conflitto, i simboli delle difficoltà che ancora oggi le culture affrontano nel loro incontrarsi.

Anche Dimitry Gutov e David Riff accompagnano i lavori esposti all’Arsenale con un testo scritto che ne palesi il significato e, anche nel loro caso, protagonista dell’opera è la parola, considerata nelle sue potenzialità politiche.
Le tele presentate dai due artisti – entrambi attivi in Russia – rappresentano alcune frasi tratte dalle conversazioni e dagli studi di un gruppo di intellettuali nel corso delle lezioni della Karl marx School of the English Language. La scuola, fondata a Mosca nel 2006, al fine di migliorare la comprensione della lingua inglese da parte dei suoi iscritti, ha dato vita ad una riflessione sul problema della traduzione dei testi classici del marxismo.
Cosa si perde delle idee di Marx ed Engels nel passaggio da una lingua all’altra?
Nella comparazione tra la versione originale tedesca e quelle inglesi e Russe, gli studenti della scuola, di cui, naturalmente, fanno parte gli artisti, individuano la possibilità di una lettura che reinterpreti l’ideologia sovietica, “filtrando marx attraverso due prismi: uno strorico, l’altro linguistico”. Un’ “archeologia verbale” in pittura, un confronto tra lingue e linguaggi e tecniche, al fine di entrare in contatto con l’essenza più intima della comunicazione culturale.

Tra gli interventi a sfondo politico, quello di Emily Jacir è uno dei più carichi dal punto di vista della storia che racconta, ma anche delle potenzialità di sviluppo narrativo e artistico che contiene.
Il lavoro dell’artista nata in Giordania e attiva tra USA e Palestina, è accompagnato da moltissimo testo che ne spiega le tappe e che impone una fruizione attenta e curiosa. Anche in questo caso, la caratteristica principale dell’opera è l’intreccio fitto di scrittura, materiale documentario e immagini. Si tratta della ricostruzione per frammenti e testimonianze, della vicenda di Wael Zuaiter, scrittore e membro di Al Fatha ucciso a Roma, da sicari israeliani, come vendetta per il sequestro e omicidio degli atleti israeliani durante le Olimpiadi di Monaco nel 1972. Il proposito dell’artista è la realizzazione di un film sulla scorta dei materiali raccolti: una retrospettiva che renda giustizia dell’accaduto e restituisca il profilo di un uomo che ha contribuito alla diffusione della cultura araba in Europa. Tra i progetti citati in questa installazione, c’è la traduzione de Le mille e una notte direttamente dall’arabo all’italiano.

L’opera di Kim Jones, all’Arsenale, si situa tra la performance e la cartografia.
Una scrittura dei luoghi di guerra, tradotta in immagine mediante il disegno e agita per mezzo del corpo dell’artista che mette in gioco la propria rappresentazione culturale dello spazio civile e militare. L’incrocio dei linguaggi si articola in una scultura vivente, composta di mappe tracciate su giacche o camicie che l’artista indossa per “portare i propri pensieri sulla schiena”. Le Mappe di guerra costituiscono una rete di simboli elaborata da Jones come un’intima lettura del mondo in cui i conflitti determinano la configurazione di nuovi paesaggi.
I terreni di scontro sono segnati da X e punti, mentre ampi spazi bianchi sono il risultato di cancellature in corrispondenza delle aree distrutte da bombardamenti. La forza comunicativa di questi disegni sta nella capacità di iscriversi in un territorio di confine, tra il pubblico e il privato; tra l’esterno dei luoghi e l’interno dello sguardo. L’artista fornisce, in una sorta di estroflessione dell’immaginario e della memoria, un quadro dentro il quale sia possibile orientarsi, dispiega la propria visione tra le vesti che lo ricoprono e lo nascondono, si rivela senza parlare e instaura un dialogo intimo con gli osservatori, un discorso sottile, silenzioso.

Tra le partecipazioni nazionali, certamente la Russia e i Paesi Nordici si distinguono per l’impatto scenico dei lavori proposti.
Curato da Olga Sviblova, il padiglione russo si caratterizza per la forte presenza della tecnologia utilizzata dai diversi artisti - AES+F GROUP, Andrei Bartenev, Arseny Mescheryakov, Julia Milner, Aleksander Ponomarev, Georgy Frangulyan – come meccanismo interpretativo della realtà contemporanea.
L’installazione di Julia Milner, sulla facciata del padiglione, è un gioco offerto al pubblico, basato sull’interazione. Un accumulatore di speranza.
Le parole che scorrono sullo schermo formano la proposizione I hope, in tutte le lingue del mondo. Un contatore consente di visualizzare in tempo reale il numero dei click su ciascuna scritta, che si ingrandisce e rimpicciolisce proporzionalmente al numero degli utenti che la selezionano con il mouse.
All’interno del padiglione veniamo colpiti dal lavoro di Arseny Mescheryakov: Shower, una doccia di immagini che scorrono lungo le pareti di un box - in cui poche persone decidono di entrare prima di assicurarsi che lo faccia qualcun’altro - e che inonda lo spettatore di frame televisivi. In tempo reale vengono trasmessi documentari su animali della savana, scene erotiche di canali per adulti, pubblicità di prodotti con un sonoro che stordisce nella sovrapposizione di migliaia di comunicazioni diverse che si annullano a vicenda.
Il venir meno della comunicazione è la cifra della riflessione proposta da Ponomarev nell’installazione successiva: Windshield Wipers, in cui i monitor televisivi sono stavolta tre e rivestono l’intera parete come finestre che non aprono la visione su di un paesaggio reale ma su immagini televisive. I tergicristalli di un’automobile intervengono a distogliere la nostra attenzione dall’immobilismo passivo indotto dalla tv, pulendo lo schermo e cancellando l’immagine.
Il video del gruppo AES+F è molto coinvolgente, ipnotico: con la sua lentezza ci trascina nell’atmosfera assurda di un’animazione in 3D in cui i personaggi si muovono a scatti e a rallenty in una paesaggio da cyberspazio. Si tratta di fanciulli che, sulla colonna sonora di Wagner, simulano un combattimneto in cui non si distinguono vittime o carnefici, ma soltanto si assiste alla danza della violenza, nel suo volto più inquietante: quello efebico dell’adolescenza.

Nel padiglione dei Paesi nordiciFinlandia, Norvegia, Svezia – curato da René Block, facciamo la scoperta destabilizzante di un artista iracheno che vive ad Helsinki, Abdel Abidin, il quale ha realizzato la parodia grottesca di un’agenzia di viaggi, la Abidin Travels, in cui la voce suadente di una hostess ci invita a trascorrere una vacanza a Baghdad. C’è anche un monitor con un sito interattivo, realizzato sull’impronta dei portali delle compagnie aeree, nel quale possiamo leggere le istruzioni e i consigli per il viaggio, selezionare le opzioni relative.
Nella seconda stanza il sarcasmo è sostituito dalla crudezza delle immagini di guerra che vanno in loop sul monitor di un televisore. Diverse dalle solite cui i nostri telegiornali ci hanno assuefatto, più cruente e più vere, sono le scene che altri occhi, non europei, non americani, guardano ogni giorno. Sono le notizie non filtrate, non selezionate, non ripulite, ma, anche ad esse, possiamo abituarci. Basta ricordarsi che si tratta di un’installazione a nostro consumo, che siamo capaci di volgere altrove il nostro sguardo. Basta guardare, appunto, senza farsi impressionare. Infondo usciremo dalla stanza.
Di un altro tipo di interazione possiamo parlare a proposito dell’installazione dell’artista Jacob Dahlgren: I, the world, Things, life. Un muro di bersagli si staglia di fronte a noi, centinaia di freccette sono disponibili in casse di legno poggiate sul pavimento del padiglione vuoto. Il resto è azione, movimento, gioco: colpire i bersagli è semplice quando ce ne sono così tanti, così vicini l’uno all’altro. Ci si accanisce in una performance che si rivela presto vana, data la moltiplicazione insensata degli obiettivi da raggiungere.
Marketta Seppälä, commissario del padiglione nordico, sottolinea un aspetto che accomuna gli interventi di artisti che non si erano mai conosciuti prima della Biennale: "la società nordica del benessere si è deteriorata negli ultimi decenni, generalmente sotto il vessilllo della società globale". Agli immigrati che puliscono la finestra all’esterno del padiglione – installazione degli artisti Toril Gokøyr e Camilla Martens – non è concesso di andare dall’altra parte e partecipare al popolare gioco ricreativo.

Laddove gli artisti non intervengono direttamente sulla scrittura, possiamo riscontrare una notevole attenzione nei confronti della lettura. Oltre il facile gioco di parole, è vero che pochi rinunciano al testo, anche quando questo si riduce soltanto al concept attraverso il quale riusciamo a leggere, per l’appunto dentro l’opera, o quando si manifesta in una semiotizzazione di elementi del reale che l’arte adopera come un linguaggio.

Ecco che le immagini di Yto Barrada, di origine francese, ma attiva in Marocco, ci presentano due diverse parole, da leggere, all’interno di un contesto discorsivo omogeneo.
Il progetto Iris Tingitana, ad esempio, è dedicato ad un fiore, una specie di Iris tipica del Marocco che sta scomparendo per via della trasformazione urbana in atto nella città di Tangeri. L’immagine del fiore, catalogato come simbolo di un’identità che si sta modificando, al pari di quella culturale, riveste qui il ruolo di una parola che, isolata dal contesto, è in grado di evidenziare le contraddizioni di una società. Il richiamo ad un’autenticità perduta è, per Yto Barrada, il motivo ispiratore di un’arte che sappia agire politicamente, ma attraverso la poesia, affidando il messaggio di denuncia e l’analisi della realtà (dal paesaggio naturale a quello antropico) alla bellezza di un’immagine. Nel testo scritto che spiega l’opera troviamo una chiave interpretativa, ma risulta evidente che l’intento del progetto, è proprio quello di spostare la nostra attenzione su elementi narrativi che si nascondono all’osservazione generica di un luogo.
La sequenza fotografica Sleeper, Tangier, ritrae le persone addormentate nei parchi di Tangeri: non si vede il volto, coperto dalla giacca, da una sciarpa o dal colletto; i personaggi hanno un aspetto inquietante, quasi si trattasse di uomini senza identità, scomparsi o defunti. In realtà è proprio tale ambiguità a conferire alle immagini la forza comunicativa di una frase incompleta.
L’approccio quasi documentaristico induce ad avvicinarsi per accogliere il senso di un racconto, mentre ciò che osserviamo ci destabilizza: scopriamo una presenza, lì nella foto, che parla di dislocamento e migrazione, del progresso di una città e delle sue vittime inermi. Il paesaggio come testo da spulciare, come indice di ogni mutazione, dei cambiamenti antropologici e naturali che fanno la storia dei luoghi.

 


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Pen: Costanza Meli
Foto: Costanza Meli

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La Biennale di Venezia 2007 - III parte @ Venezia

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