Zone della trasformazione e costruzione urbana
Intervista quadrupla a: Fondazione Teseco per l’Arte, promotrice del progetto; al curatore Marco Scotini; all'artista Francesco Jodice e ad una giovane artista che ha partecipato ad uno dei workshop organizzati a Pisa.
Dal novembre 2006 si è svolto nella città di Pisa un progetto promosso dalla Fondazione Teseco per l'Arte, con la collaborazione di enti pubblici e altre istituzioni, che verte sul tema della città, “ponendosi, alla base, il problema delle politiche culturali legate al territorio”. Nell’ambito di tale riflessione si inseriscono le iniziative curate da Marco Scotini: quattro workshop, dal titolo URBAN TOOLS, una rassegna di proiezioni video filmiche dal titolo EMPOWERMENT PROGRAM, una serie di attività da sviluppare in più tappe lungo la durata di un anno presso la COMMON HOUSE, spazio aperto al pubblico e all’arte negli stessi locali della Fondazione. La ricerca che sostanzia questo progetto riguarda “la costruzione della città pubblica, la costruzione della comunità, l’attivazione di politiche dal basso o forme di empowerment, la costruzione della comunicazione attraverso media tattici” e rappresenta un modello innovativo di interazione tra arte e territorio che si dichiara dal principio come una seria alternativa alle molteplici declinazioni stereotipate della mostra d’arte negli spazi pubblici. L’approccio laboratoriale induce, infatti, ciascun artista ad instaurare un rapporto duraturo e articolato con la città, a relazionare il luogo del proprio intervento e dell’attuale riflessione con i luoghi del proprio vissuto e della memoria individuale. L’articolo che abbiamo realizzato verte proprio su tale complessità di relazioni e tenta di mettere in luce le diverse prospettive che compongono l’insieme organico del progetto. Le interviste che pubblichiamo rendono l’idea di un dialogo con alcuni dei soggetti coinvolti: i promotori della manifestazione, il curatore, gli artisti.
Soltanto da un confronto a più voci può scaturire un’immagine esaustiva dei livelli socio economici che stanno alla base di un intervento culturale che voglia ripensare la città come un “lavoro collettivo”.
INTERVISTA ALLA FONDAZIONE TESECO PER L'ARTE
MARIA PAOLETTI MASINI
L’importanza di documentare l’azione della Fondazione nell’ambito del progetto Cities from Below è legata, a mio avviso, alla portata politica e sociale che operazioni come questa hanno rispetto all’identificazione del ruolo dell’arte contemporanea e dei suoi soggetti-attori.
SA: Nel ringraziarla per la disponibilità, le chiedo di presentare il suo ruolo all’interno del progetto Cities from Below per divulgare un’informazione su questo tipo di interventi nei contesti pubblici e in particolar modo cittadini. La Fondazione Teseco per l’Arte svolge un compito sostanziale nell’organizzazione e nel sostegno dell’intera iniziativa. Si tratta di un ruolo di sostenitore o anche di direzione? E di che tipo di direzione si tratta?
MPM: La Fondazione Teseco per l’Arte è il committente del progetto Cities from Below. Già da qualche anno, prima ancora che diventasse di moda parlare di Corporate Social Responsability il Gruppo Teseco ha dato il via ad una riflessione sulla responsabilità sociale dell’impresa e sul suo apporto nella riflessione sulla sostenibilità culturale, sul ruolo che l’impresa può svolgere nell’ambito della cultura contemporanea, non prescindendo da una riflessione sul territorio, sul rapporto centro-periferia, proponendo di volta in volta progetti di didattica dell’arte e del territorio volti alla costruzione di una consapevolezza e che hanno come fine ultimo la costruzione dell’identità dell’individuo. In questi progetti abbiamo coinvolto artisti, filosofi, operatori teatrali, economisti. Talvolta progettando direttamente talvolta collaborando con curatori esterni. Luca Cerizza ha realizzato per noi il progetto M2, biennale, di cui hanno fatto parte le mostre Insensatezza/Finsternis Finisterre (2000, in una parte curata da Sergio Risaliti) e Strategies Against Architecture (2001), in cui gli artisti si sono fatti portavoce di istanze di criticità nei confronti del rapporto centro-periferia e di una riflessione sull’adattabilità dell’uomo di fronte alle condizioni urbanistiche e sociali più critiche. Con Alì Hamadou, opera site specific di Sisley Xhafa e curata da Gail Cochrane, si è conclusa (2002) una riflessione durata un anno su temi della responsabilità sociale dell’impresa.
Siamo consapevoli che progetti del genere acquistino pienezza di senso se ancorati a dati ed esperienze concrete, che non siano svincolate dal contesto più immediato in cui operiamo.
Cities from Below costituisce dunque un ulteriore passaggio per l’attività artistica che abbia un immediato risvolto sociale: un progetto che affonda le sue radici e necessita della partecipazione delle persone che insieme agli artisti, sono chiamate a rintracciare strumenti per la costruzione della città dal basso.
SA: Conosciamo la storia della Fondazione come una storia di integrazione nel tessuto cittadino con un ruolo propulsore nei confronti della cultura contemporanea. Che tipo di interazione è avvenuta in quest’occasione con l’amministrazione locale? MPM: Cities from Below si inserisce in un progetto provinciale per l’Arte contemporanea. XXL - Cantiere Provinciale per la Cultura Contemporanea è il titolo del progetto che la Provincia di Pisa ha sviluppato per il 2006 e che ha ottenuto il sostegno della Regione Toscana. Esso prevede lo sviluppo, da parte di una serie di Associazioni, Enti, Fondazioni che nella provincia di Pisa si occupano di arte contemporanea, di un progetto unitario che sottolinei l’impegno su alcune tematiche sociali e di arte contemporanea. La Provincia di Pisa e il Comune di Pisa hanno dato il loro contributo all’iniziativa sostenendola in qualità di partners. Ad essi si sono affiancate la Mediateca Regionale Toscana e il Cineclub Arsenale. Auspichiamo che altri soggetti si uniscano a noi nell’impresa, scegliendo di incoraggiare le iniziative, interne al progetto, che possono essere più vicine alla loro attività.
SA: Leggo nella presentazione del progetto che “lo spazio della Fondazione Teseco sarà trasformato in una sorta di laboratorio e in uno spazio di rappresentazione temporaneo pensato come piattaforma di auto-gestione o governo della città a venire”.
Mi sembra un coinvolgimento importante anche da un punto di vista logistico e strutturale oltre che organizzativo; in che senso uno spazio/contenitore può essere, di volta in volta, modificato per assumere connotati diversi? Facendo entrare la città al suo interno o aprendosi e mescolando i propri contenuti con il flusso della realtà esterna, come previsto nella sezione del progetto dal titolo Urban Tools?
MPM: Da un punto di vista fisico abbiamo sempre creduto che lo spazio del nostro Laboratorio per l’Arte Contemporanea, che si presenta come un vasto edificio industriale, dovesse essere flessibile a tal punto da accogliere le iniziative e gli allestimenti dei vari artisti.
Nel caso di Cities from Below si tratta di costruire di volta in volta degli spazi che accolgano varie attività, quelle sviluppate nel corso dei laboratori, e che insieme costruiscano una sorta di città ideale dei servizi, resi fisicamente dagli spazi pensati dagli artisti.
Ad esempio. Dmitri Vilensky degli Chto Delat? ha lavorato sulla costruzione di uno spazio che contenesse e manifestasse la dicotomia ingiustizia/dignità. In questo luogo hanno trovato posto tutti i lavori prodotti dai giovani che hanno partecipato alla settimana di workshop. Gunes Savas e Odge Acikkol (Oda Projesi) hanno lavorato in modo meno strutturato nei confronti dello spazio, segnando un ambiente con la presenza di pedane e cuscini per delimitare un ambiente che ha accolto i risultati del loro workshop con una classe quinta della scuola elementare di sant’Ermete.
SA: Qual è il contesto sociale cui fate maggiore riferimento nell’elaborazione di una politica culturale così attenta alla “costruzione della comunità? MPM: I partecipanti ai workshop sono “suggeriti” dagli artisti invitati da Scotini, nel senso che dipende da quella che è la caratteristica di lavoro. Essi possono essere di volta in volta studenti universitari, giovani creativi, architetti, mediatori culturali, insegnanti. La frequentazione è libera. Per il progetto delle Oda Projesi abbiamo invitato una scuola che si trova vicino allo Stabilimento, in una zona periferica della città. Oda Projesi volevano lavorare sul tema del quartiere e ci è sembrato interessante coinvolgere una scuola che si trova nella periferia urbana, abituata, tra l’altro, alla conduzione di progetti sperimentali.
I giovani che hanno partecipato al workshop condotto da Vilensky hanno prodotto una serie di lavori contattando Associazioni, comitati cittadini, altri creativi. All’inaugurazione dei lavori prodotti durante i primi due workshop erano presenti giovani, i genitori dei bambini, i nonni, persone che probabilmente non partecipano abitualmente a iniziative di arte contemporanea.
Una grande attenzione è rivolta ai dipendenti dell’azienda, a tutte quelle persone che quotidianamente vivono tra le opere della collezione, che incontrano gli artisti durante le loro permanenze, che partecipano in modo indiretto delle attività gestite dalla Fondazione.
SA: Qual è il valore economico di un’operazione simile in una piccola città? Riscontrate una crescita e uno sviluppo del tessuto economico attorno alla vostra attività di questi anni? MPM: Credo che il dato economico non sia il metro giusto per misurare iniziative di questo tipo. Almeno non in una città come Pisa che continua ad avere pochissimo mercato per l’arte contemporanea (in città sono presenti in tutto due gallerie e un’associazione che si occupano di arte dei nostri giorni).
Piuttosto sarebbe più opportuno spostare l’attenzione sul dato culturale e sociale. E di certo si tratta di un investimento a lungo termine.
SA: In che modo viene accolto dalla città l’intervento di una Fondazione come catalizzatore delle riflessioni e della sperimentazione artistica? Quali sono i soggetti culturali con i quali dialogate a livello locale? MPM: Pisa è una città non facile, con una grande eredità artistica e culturale che viene dal passato. Ci sono però istanze interessanti e potenzialità che potrebbero costituire un terreno fertile per un incontro sui temi della cultura del presente.
SA: Grazie per le sue cortesi risposte, saremo lieti di proseguire il dialogo sui temi trattati quando ci segnalerete le prossime iniziative.
INTERVISTA AL CURATORE MARCO SCOTINI
SA: Innanzitutto ti chiedo di precisare qual è il ruolo del curatore all’interno di un progetto come quello di cui ti stai occupando. Il dialogo tra committenti e artisti è filtrato da te in quanto mediatore, o piuttosto la tua direzione artistica si realizza indipendentemente da questo intreccio particolare di soggetti e competenze? MS: Credo che il ruolo dell’“esperto” come detentore di competenze e di soluzioni tecniche sia definitivamente in crisi. Anche in ambito artistico è la stessa cosa. Non penso che il compito del curatore sia quello di mediare tra istituzioni (committenza pubblica o privata) e società civile. E neppure credo che il ruolo dell’artista sia più lo stesso di prima. Se c’è una cosa che negli ultimi anni è emersa con forza e si è imposta con caratteri assolutamente inediti è proprio la fuoriuscita dal modello di interazione tra politica e società mediato e gestito dagli esperti. Se oggi l’artista più che un progettista o un produttore in senso classico è un attivatore o un catalizzatore il cui compito è di mobilitare le conoscenze e i desideri espressi dalla società, allo stesso modo il curatore si assume un impegno diretto nei confronti della realtà. Anche nel caso del progetto“Cities from below” le figure e i ruoli da porre in relazione sono molti di più che in un classico rapporto di committenza. In simili progetti l’imprevisto gioca un ruolo fondamentale. Si mettono all’opera una serie di concatenazioni possibili a differenti livelli di partecipazione, a differenti grandezze e varietà di misura che sfuggono ad ogni logica di pianificazione. Nel caso di “Cities from below” differenti contesti (sociali, culturali, economici) entrano in relazione attraverso rapporti tutti da definire e da sperimentare.
SA: Puoi chiarire qual è il punto di partenza di questo progetto? In che modo si inserisce nella riflessione sulla città che gli artisti e gli urbanisti hanno elaborato in questi decenni? Si può davvero reinventare la città? Fai riferimento più ad esperienze antiche come la psicogeografia o agli ancora attuali progetti sociali di Nouveaux Commanditaires? MS: L ’urbanistica modernista senza pensare la crisi delle forme di conoscenza del modello illuminista, di cui ho parlato prima rispetto alla figura dell’esperto. Il rapporto tra attori sociali, soggetti e conoscenza esperienziale si è trasformato fino al punto di pensare ad un progetto urbano sempre più fuori del piano e ad una città autogestita, flessibile, fondata su istituzioni sociali informali e costruita in tempo reale.
Le figure che chiama in causa il programma della Fondation de France all’interno del progetto Nouveaux Commanditaires sono il cittadino committente, il mediatore culturale e l’artista chiamato a progettare. Il cittadino diventa sì committente ma dentro un progetto statalista e centralista, non a caso di matrice francese. Prima ho dimenticato di dire che anche il pubblico in questi anni è mutato e non solo la figura del tecnico e dell’artista. Le richieste della società civile esprimono una forte progettualità ma non si chiedono soluzioni tecniche, non si chiede ad altri di fornire risposte ma gli attori sociali locali dei quartieri fanno da soli. Allo stesso modo molti artisti contemporanei dicono di “insegnare alla gente a pescare”, dando voce alle minoranze ma non parlando al loro posto.
SA: Ho letto che Il progetto vuole concentrarsi nella realtà territoriale della città di Pisa. Cosa distingue, secondo la tua esperienza, l’azione dell’artista all’interno di una comunità ben definita di abitanti con esigenze specifiche, dalla partecipazione ad una mostra? Si può affermare che si tratta di un tipo di intervento che trasforma il rapporto degli artisti con il proprio lavoro? MS: Sicuramente si tratta di una trasformazione sostanziale. L’artista lavora fuori da una realtà separata e caratterizzata dall’unità di tempo, spazio e narrazione. L’artista oggi lavora di fronte ad una molteplicità di pubblici, con differenti realtà poste in campo. La relazione con i contesti comunitari ha valenze ogni volta diverse e segue strategie differenti. Ma come ho detto tante volte non deve essere visto come un lavoro di “arte applicata” ma quello che è in causa è proprio il confine tra pratiche artistiche, sfera comunicativa, ambito politico, etc.
SA: A proposito di rapporto dell’arte con i contesti pubblici, si è parlato tanto di funzione sociale dell’artista. E’ corretto ri-attribuire, oggi, dall’alto di una direzione artistica, un ruolo a questa figura? Si rischia di chiamare in causa categorie etiche e politiche che vincolano la libertà creativa? In sintesi: che bisogni esprime, o quali carenze politiche, il ricorso all’arte contemporanea da parte delle amministrazioni in collaborazione con le imprese private? Mi sembra un nodo cruciale di tutte le esperienze legate alla ridefinizione degli spazi pubblici. MS: Questo è ancora una versione dei fatti legata ad un sistema decisionale di produzione della città e dello spazio pubblico “dall’alto in basso”, o “top-down” come si dice.
Molta parte dell’arte contemporanea però non si caratterizza più per un lavoro che è situato nello spazio pubblico (penso ai progetti site-specific), né per un lavoro che assume come proprio oggetto la sfera pubblica (come nei progetti community-based), ma per un lavoro che è intrinsecamente pubblico.
SA: Infine ti chiedo di partecipare al gioco linguistico: verbi pubblici
Con questo gioco si cerca di proporre, di volta in volta, a curatori e artisti una modalità critica e una chiave di lettura del loro lavoro nella società. I risultati raccolti verranno pubblicati al termine del ciclo di interviste sull’arte pubblica e daranno vita ad ulteriori sviluppi e approfondimenti.
Organizzare, determinare, stimolare, modificare, riempire, riattivare, attraversare, scoprire, apprendere: ciascuno di questi verbi transitivi indica un’azione che può essere svolta dall’artista contemporaneo. Ad ognuno di essi potremmo far seguire l’oggetto /la vita della gente/ e costituire, in tal modo, differenti opzioni di interazione: gli stessi di cui il soggetto creativo dispone quando si pone a confronto con un contesto pubblico.
Scegli tra queste opzioni o aggiungine un’altra. MS: Toglierei sicuramente il “ri”. Dunque “Attivare la vita della gente”.
SA: Grazie per le tue cortesi risposte, saremo lieti di proseguire il dialogo sui temi trattati quando ci segnalerete le prossime iniziative.
INTERVISTA A FRANCESCO JODICE
Il quadro relativo al progetto Cities from below comincia a delinearsi attraverso le voci e le testimonianze delle varie parti che lo compongono. Se finora ci siamo addentrati negli aspetti organizzativi, gestionali e curatoriali della manifestazione pisana, è arrivato il momento di dialogare con chi in questo progetto occupa la parte più esposta e soggetta allo sguardo e al giudizio del pubblico: gli artisti. In tal senso abbiamo individuato in Jodice la figura dell’artista che parte da un’esperienza collaudata nell’ambito delle pratiche artistiche legate al site specific e alla riflessione sugli spazi pubblici come contesto del proprio intervento e in Giuditta Nelli quella di una giovane artista che si misura con un progetto articolato e con il proprio fare creativo attraverso la formula del workshop.
Evitando di cadere negli stereotipi, cercheremo di affrontare con entrambi un dialogo che restituisca parzialmente tale differenza di prospettiva iniziale, ma che sia in grado di rendere la cifra individuale e unica del loro intervento indicando la direzione da essi seguita, in tempi diversi, nel realizzarlo.
INTERVISTA A FRANCESCO JODICE
SA: Partiamo intanto dal tuo intervento nell’ambito del progetto Cities from Below: qual è il tuo punto di contatto personale con l’idea stessa della manifestazione? FJ: Diversi elementi, la sua natura di progetto “site specific”, la sua matrice urbana ma soprattutto l’attitudine di osservazione dal “basso” che mi è particolarmente familiare sia nelle mie esperienze con MULTIPLICITY sia nelle mie ricerche quali What We Want.
SA: Empowerment program è il titolo della rassegna di film e video all’interno della quale è stato presentato a Pisa, in prima italiana, il tuo film São Paulo_Citytellers, realizzato in occasione della XXVII Biennale di San Paolo (ottobre 2006).
La tua riflessione sulla città contemporanea caratterizza ogni tuo lavoro, così come la tua ricerca, da molti anni. Come risultato di tale approfondimento il film vuole farsi indice di una dimensione globale? Cos’è che consente, nel tuo modo di raccontare i comportamenti umani e i loro segni sul mondo, la lettura di contesti diversi e lontani tra loro? FJ: Al contrario. Citytellers è un dispositivo visivo che si declina in modo differente adattandosi alla “superficie” dei diversi territori sociali. Come un setaccio raccoglie informazioni “vernacolari” proprie di un contesto socio-urbano specifico.
SA: Vorrei considerare la tua presenza proprio nel contesto in cui è stata inserita, la città di Pisa, e leggere ciò che hai realizzato attraverso la realtà specifica in cui è stato calato.
In che modo vivi il momento della comunicazione con il pubblico? Si è verificato, in quest’occasione, uno scambio d’opinione o un impatto che ritieni significativo? FJ: Si, devo dire che dopo la proiezione c’è stato uno scambio di informazioni molto interessante, è interessante perché di solito pensiamo al video come una forma d’arte scarsamente “interattiva”, a Pisa direi che è andata diversamente.
SA: Nella storia del tuo rapporto con il tema della città ti sei tante volte confrontato con progetti caratterizzati da modalità site specific o da approcci al tema della gestione degli spazi pubblici da parte della collettività ma anche dell’arte contemporanea.
Cosa deve contraddistinguere, alla luce della tua esperienza, un intervento realmente costruttivo in questo senso? Io vedo nella progettualità stessa un punto focale di ogni tentativo di interazione con l’ambiente-territorio, ma di che tipo di progettualità parleresti? FJ: È difficile proporre dei paradigmi validi in più contesti e nel tempo, credo sia piuttosto necessario trovare gli strumenti e le metodologie in loco. Il più delle volte nel mio lavoro è proprio dal paesaggio sociale che deduco o imito i processi. È anche vero però che cerco di portarmi sempre dietro dei miei modelli comportamentali di osservazione, come i pedinamenti ad esempio. Questo perché applicare in più metropoli la stessa strategia di osservazione mi permette di comparare fenomeni simili in distinte parti della terra. In fondo l’aspetto più importante nel mio lavoro non è la rilevanza di un fenomeno ma le sue similitudini e differenze verso fenomeni consonanti che accadono altrove.
INTERVISTA A GIUDITTA NELLI
SA: Vorrei chiederti di raccontare la tua esperienza d’artista nell’ambito di un progetto articolato e di lunga durata come Cities from below.
In quale fase di questa iniziativa si colloca la tua presenza a Pisa? GN: Sono entrata nel progetto a partire dalla sua primissima fase; posso dire di avere vissuto lo start di questa ricca macchina di osservazione della città e delle sue dinamiche.
Ho, infatti, preso parte ad uno dei due workshop che, nel mese di novembre, hanno aperto il ciclo di laboratori “Urban Tools”, occupato per primi lo spazio della “Common House” e ufficialmente aperto il discorso sulle città dal basso.
SA: Non sempre si chiede ai partecipanti ad un workshop di esplicitare ciò che hanno tratto dall’incontro con altri artisti più o meno conosciuti precedentemente. Mi interessa invece questo tuo apporto per capire in che modo si realizza la fase laboratoriale di questo progetto e com’è stata vissuta da chi concretamente l’ha sviluppata. GN: Personalmente ritengo che il workshop sia un magnifico strumento di crescita personale e professionale; grazie all’incontro con artisti di rilevanza internazionale, chiunque partecipi in qualità di allievo, si trova ad arricchirsi di metodologie ed esperienza, in maniera piacevole e appassionante. La dimensione di collaboratività che difficilmente caratterizza il lavoro dei giovani artisti, diventa, grazie alle naturali dinamiche del laboratorio, fulcro e forza per la produzione di opere nuove.
Nel caso specifico del workshop con Dmitry Vilensky, nonostante la differenza di cultura e di lingua, è stato fin da subito facile e possibile aprire un dialogo attorno al come agire sulla città, per giungere ad una lettura che fosse profondamente dedicata alla società, all’osservazione dei fenomeni in atto, all’abitante. Tutto questo, incontrando la metodologia di intervento, articolata e severa di Chto Delat?, gruppo di artisti e intellettuali russi di cui Dimitry fa parte. Insomma, un’ottima occasione di evoluzione per il lavoro di ognuno di noi.
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