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Theatre - Theatre Reviews - Review | by Costanza Meli in Theatre - Theatre Reviews on 30/11/2013 - Comments (0)
 
 
 
Crisalide 2013

Torniamo ancora una volta nell'antro di Crisalide, ancora una volta ne usciamo diversi; non riusciamo ad abituarci a nulla di ciò che viviamo lì dentro, poiché dal tessuto buio che compone quest'antro fino all'ultima molecola di spazio e di suono, fuoriescono barlumi, forme, immagini, sussurri e grida silenziose che ci incontrano brevemente nei territori della nostra esperienza, della memoria, del nostro sapere, ci colpiscono negli anfratti del nostro non detto, riempendoci di una presenza troppo evidente per lasciarla andare senza un singhiozzo.

 
 

Sì perchè, come dice Lorenzo Bazzocchi, «Crisalide non nasce per mostrare. Non vive per dichiarare la propria esistenza. 
Crisalide non è un’isola. Non è un rompighiaccio». La definizione chiave che può avvicinarci alla comprensione di ciò che viviamo con e dentro Crisalide è proprio quella di «luogo che ruota. Attorno ad un asse. Non baricentrico». Un asse che ci appartiene (lo sentiamo), e ci sfugge al tempo stesso, ci consente di avvicinarci abbastanza al fulcro di una percezione fulminea, ma ci riporta fuori contesto, ogni volta, per ricordarci come non sia possibile accomodarsi dentro una qualche forma permanente e consolatoria. Crisalide è un festival che ancora resiste, nonostante tutto. E anche qui, di consolatorio non c'è niente, se ancora oggi, alla sua ventesima edizione, un evento così importante e sperimentale ha visto una consistente riduzione dei finanziamenti (il taglio operato dalla Provincia di Forlì-Cesena a tutte le 15 realtà di produzione ed organizzazione romagnole è pari al 50% del contributo fissato dagli accordi della legge regionale L.R. 13/99). Non è l'unica realtà italiana a trovarsi in questa situazione, lo sappiamo bene noi che parliamo con le compagnie teatrali, con i giornalisti, con gli attori e gli artisti di cui si compone la triste scena della nostra cultura migliore. Ma non è qualcosa a cui possiamo abituarci, neanche questo, no. Lo diciamo e lo diremo, ogni volta che sarà possibile, cercando di rendere testimonianza di un mondo che incontriamo tutti i giorni e che potrebbe semplicemente non esserci, e basta; e chissà cosa cambierebbe. Chiediamoci allora cosa cambierebbe se Masque Teatro smettesse di lavorare, se le luci si spegnessero del tutto, se nessun oggetto, nessun volto, venisse più illuminato per emergere dal buio dell'Ex Filanda, se nessuna macchina fantastica si muovesse più su quel confine che separa ciò che esiste da ciò che può non essere. Sì perché uno spettacolo come quello che Masque ci ha presentato quest'anno, Il presente, con Eleonora Sedioli, è qualcosa che vediamo e sentiamo con il corpo e con la pelle, percependo quasi per la prima volta la sostanza del movimento e ciò che la distingue dalla direzione del gesto; scorgendo, come fossimo ancora sulla soglia della coscienza, l'espandersi della massa e del suono che si fanno corpo e respirano. Corpo e macchina: un legame ormai indissolubile, nella nostra dimensione postmoderna e post umana, ma qui mostrato in una luce primordiale che ha il sapore, mai ricordato, della nascita e la dolcezza innaturale del restare al mondo, nell'equilibrio impossibile del divenire. Contrasti eppure possibilità. La stessa apparente contraddizione vibra anche nella performances di Myriam Gourfink, figura di punta della ricerca coreografica e della danza in Francia. L'artista ci conduce senza pietà in uno stato meditativo fondato su una tensione assoluta, senza sosta alcuna, senza distrazione possibile, trasformando lo spazio della scena che credevamo vuota, in uno spazio denso dove, lentamente, ci muoviamo tutti, guidati dal suono del musicista Kasper T. Toeplitz. Una performance in cui il corpo non si stacca mai da terra, non tenta sublimazioni, non rinuncia al peso, non sfugge al dolore, sempre modificando la propria posizione in modo quasi impercettibile. Sentiamo il contatto con l'aria, anche qui, ma adesso vediamo anche il sudore della fatica, sentiamo il respiro cambiare, tremiamo anche noi nell'inquietudine dell'attesa di una trasformazione che non avviene mai. Il corpo resta corpo, l'aria lo sorregge, lo circonda, lo penetra, lo schiaccia. Myriam ci parla di tecniche yoga, del respiro, e della pratica della meditazione che si esprime nel movimento. In tutto ciò che ci racconta nell'intervista che segue la sua danza, c'è ricerca e attenzione, c'è la coincidenza tra tempo, spazio e azione, ma nel senso yogico della presenza e compresenza dei corpi energetici di cui siamo composti. Energia è ciò che resta nella sala del teatro quando le luci si spengono e la musica, gradualmente, ci abbandona; un campo energetico fortissimo e non per questo piacevole. Ci accorgiamo di come tutto questo si sia generato a poco a poco, anche da noi e dal nostro respiro trattenuto, dai nostri muscoli in tensione, dal nostro aspettare qualcosa di cui non cogliamo il senso, pur partecipandovi già con tutti noi stessi. Ma se è di corpo che stiamo parlando, che corpo raccontare a proposito di Simona Bertozzi? BIRD’S EYE VIEW è il titolo della sua performance, «un gioco di apparizioni e prove di mimetismo», come leggiamo nella sua stessa presentazione. Infatti è ancora in gioco la nostra stessa configurazione corporea. Siamo cosa se non uccelli? Pensare il volo o starnazzare, non è forse già sperimentare le molteplici forme della nostra natura? Segni primordiali e gesti che il corpo conosce, sono queste le infinite possibilità della trasformazione che questa danza ci mostra. Qui il corpo non è solo presenza, non è fenomeno, né oggetto, ma è un campo di potenzialità. Liberamente ispirato al testo di Roger Caillois, I giochi e gli uomini, e in particolare alla sezione di Mimicry, questo lavoro di Simona Bertozzi affronta proprio il tema del gioco e delle diverse possibilità combinatorie che esso contempla. Quante facce abbiamo? Chiede la danzatrice, e lo chiede al pubblico delle sue coreografie, ponendolo di fronte ad una decostruzione e riconfigurazione continua delle sembianze. Sembianze di uccello e di aviatore, come indicherebbe il copricapo di cuoio, sembianze umane e femminili ancor di più, proprio nel senso in cui la femminilità è per sua stessa sostanza, trasformazione e produzione di altra vita ancora. Vita, cioè tutte le forme possibili. Ancora una donna e le sue performances: Francesca Proia con Voce Lattea e Dream theory in Malaya, ma in questo caso è la voce, in buona parte a veicolare il senso del lavoro. Una voce che è lettura - lo sappiamo già dal principio - e che ci trasporta in un terreno sconosciuto, dal qui e ora di una stanza in cui ci troviamo seduti, in silenzio, guardando la donna che non ci guarda, a mondi lontani in cui dobbiamo entrare con il pensiero e l'immaginazione, visualizzando. Un processo, quello della visualizzazione, che ha molto a che fare con le pratiche yoga, di cui l'artista impregna molta della sua ricerca, e che si attua per mezzo del filo di attenzione che la voce comincia ad intessere in nostra presenza. Voce Lattea, in particolare, è il nome di una «tecnica monastica in cui il parlare diviene letteralmente un balsamo che disfa i nodi del cuore» - come spiega Francesca Proia. Grazie a tale metodo è possibile stabilire un contatto profondo con l'ascoltatore che viene intercettato, anche fisicamente, da un sottile gioco di relazioni testuali e di stimoli visivi e sonori (come mantra e vibrazioni), di cui può anche non rendersi conto completamente, ma che sono studiati al fine di stabilire un ponte, un aggancio della concentrazione e delle sfere più profonde della coscienza. Il contatto che l'artista cerca può stabilirsi o meno, e lei stessa è consapevole che molta parte di questa relazione è dovuta alla sua capacità di innescarlo. La corporeità della performer è tutt'altro che superflua in una dimensione come questa, pur fondata sull'ascolto. Il suo travestimento, la sua presenza, la posizione assunta durante la lettura sono elementi essenziali che influenzano la percezione complessiva e l'esito della lettura. Ma fermiamoci un attimo e cerchiamo di capire se mai tutto questo apparire e sussurrare, questo vagare delle forme tra l'essere e il nulla, questa ricerca spasmodica di un punto d'appoggio su cui costruire per poi smontare tutto, lasciar crollare, per ricominciare ancora da zero, se tutto questo, in fondo, non sia inutile oggi, quando tutti siamo in crisi, o così ci obbligano a sentirci, quando il denaro acquista sempre più importanza nelle nostre vite, mentre proporzionalmente diminuisce nelle nostre tasche. Cosa significa per un festival esserci o meno, cosa comporta per noi tutti averlo visto e non vederlo più? Ecco perché abbiamo sorvolato al principio, qualcuno se ne sarà accorto, sulle pur solenni e durissime frasi scritte da Lorenzo Bazzocchi nel manifesto di Crisalide 2013, le frasi sostanziali, quelle che vorrebbero aprire un varco e un dibattito e che invece, in molti casi, fanno un salto nel buio, in attesa. «Crisalide giunge alla sua ventesima edizione con la forza di un fanciullo che ancora crede che per fare arte sia necessario condurre una spietata critica della violenza.
 Violenza di chi vorrebbe fosse messo sullo stesso piano l’atto di oppressione e la naturale ribellione ad esso, di chi vorrebbe far passare come una opinione, una fra le tante, il fatto di non accettare supinamente l’idea che solo dalla competitività e dal valore insindacabile della proprietà discenda il benessere dell’uomo, di chi parla al sociale teorizzando il consumo e il conseguente profitto non curandosi delle sperequazioni e dei conflitti che esso genera. 
Opporsi alla violenza significa mettere in scena una visione del mondo che si opponga alla dilagante necessità di consenso, al bisogno incessante di ordine, alla patologica ammirazione per la confezione.» Violenza e oppressione, sperequazioni e conflitti, tutto in relazione al profitto. E che profitto può mai dare una performance in più o in meno, oggi, in Italia? Non sarà questo, forse il punto su cui siamo ancora una volta qui chiamati a riflettere? No, la riflessione non smette, non può fermarsi se solo le si lascia lo spazio di un respiro, ma ciò che ancora adesso non è chiaro a tutti è che la riflessione non può essere un orpello, un trastullo o un ombrello. La riflessione di cui parla Crisalide è un gesto, e un'azione. Un movimento continuo, che se non viene camminato può fermarsi eccome, anche se il pensiero è interessante, anche se la forma che si è scelta per esprimerlo è bella, non basta, deve camminare. Se Crisalide ha messo in campo l'esperimento di un festival che ospita al suo interno una sezione-seminario di filosofia, il suo obiettivo principale è quello di moltiplicare il movimento, consentendo al pensiero di mostrarsi in luogo pubblico, non per far sfoggio di sé, ma per rispondere alla domanda sull'inutilità del camminare, per porre domande diverse da questa, per agevolare un confronto tra visioni e ipotesi di intervento. Un laboratorio di filosofia che viene immaginato come l'anima stessa di un festival ha una funzione difficile, ma importantissima: quella di dialogare con il festival, con l'arte e gli artisti, con le voci e le immagini di cui esso si compone, per aiutarci a capire se sia il caso di farne a meno, oggi, domani e ancora dopo. Un laboratorio non può esimersi a nostro avviso dal cercare questa risposta, perché da più parti si avverte la tentazione forte di arrendersi all'evidenza che ci viene proposta già bella e impacchettata dai media tutti i giorni. L'evidenza della legge di necessità. Cosa è necessario veramente? Al centro di questo seminario era la creatività con le sue accezioni e i suoi pericoli interni, con la sua potenzialità e la sua negoziabilità. Ancora però questo non basta, non bastano i bellissimi interventi, le letture di testi scientifici che tentano di affrontare da più parti la questione; forse serve ancora più incontro, più scambio, più opinione, perché davvero il pensiero cammini con gli artisti e con le persone. Forse servono più competenze, serve mescolarle per affrontare il problema di una violenza condivisa e di una necessità che pretende di cancellare gli spazi di libertà e di creazione. Paolo Vignola mette in guardia dalla creatività come attributo non solo di chi produce profitti, ma addirittura del prodotto stesso, e della merce per di più. A quale violenza, allora, è necessario opporsi e con quali strumenti? Se decidiamo di rinunciare alla dimensione collettiva, alle masse, al popolo, quali soggetti di una possibile inversione di tendenza dovremo prendere in considerazione, prima o poi, che quella massa siamo, sempre di più, noi. Noi con la nostra assenza di risposte, con la nostra tentazione di rinunciare, con la nostra incapacità di fronteggiare la chiusura dei teatri, la sparizione dei festival, la distruzione dei musei e del patrimonio artistico, figuriamoci del gesto artistico. Se non sapessimo più dire a cosa serve questo gesto, se non trovassimo più argomenti per fermare questo processo? Se iniziassimo a collaborare con la violenza che ci pervade? Forse è questo ciò che Masque vuole evitare invitandoci ancora nell'antro a condividere pensiero ed energia, instabili, certo, ma potenti. Noi ci torniamo, ancora ci torniamo.

 


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Bibliography, links, notes:

pen: Giovanna Costanza Meli

link:
http://www.crisalidefestival.eu/
http://www.masque.it/

 
 
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Eleonora Sedioli - Il presente - performance
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Myriam Gourfink - Abois - danza
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Simona Bertozzi / Nexus - Bird’s Eye View - danza
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Francesca Proia - Voce lattea - lettura performance*
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Giacomo Piermatti - Solo - concerto
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Laboratorio filosofico: Critica della ragion creativa, sessione a porte chiuse.
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Enrico Fedrigoli | mostra fotografica
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Laboratorio filosofico: Critica della ragion creativa, incontro pubblico intervento di Paolo Vignola.
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Florinda Cambria - Gesto e gestazione del pensare - filosofia
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