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Art - Arts - Article | by luiza samanda turrin in Art - Arts on 12/06/2009 - Comments (0)
 
 
 
Andrea Paganini - The unspeakable.

Paganini uses bitumen, ash, linen-oil, kaolin, rust, fire. The matter at its primary state, superimposed, scratched, mixed in a range of half organic half aleatory colours and impressions.

 
 

In the contemporary universe there exist very closed forms of art. This unavailability to comprehension often doesn’t hide anything, apart from a mannerist void. Fortunately, the syndrome of vacuity is recognizable by instinct, thanks to the bad feelings which leaves.
Irritation first of all.
But sometimes, the difficulty of decryption of a work of art’s code hides something mysterious.
And in that case it attracts us, it speaks in an unknown language, it circulates around us like an electric fluid. It defies and captivate us, and we must to understand. That’s the same mechanism which creates for an object of love, or during a treasure hunt in riddles. Because objects of love are contradictory, and puzzles proceed by paradoxes.
The first paradox of Andrea Paganini is style: one would expect a clean, linear, figurative art from a professional graphic designer. But for Paganini this is the exception, the way in which he portrays only his son Dario, in a delicate three-quarter.
His rule is rather the chaos, the mucking-up, the absence of structure.
The shapelessness.
Paganini uses bitumen, ash, linen-oil, kaolin, rust, fire. The matter at its primary state, superimposed, scratched, mixed in a range of half organic half aleatory colours and impressions.
A tyre becomes the halo of a Madonna which seems a votive bust of 10.000 years ago, or maybe the False Maria, the she-robot created by the mad doctor of Metropolis. A dairy cloth transforms in a net which separates us from a red embossed circle. It could be the sun, the nucleus of a cell, or the abstract idea of god.
Paganini’s last series is characterized by the use of white. Often juxtaposed to or mingled with black, in thick and grained strokes. Curdled by pokes in the shape of a skull. Or in big bitten canvases, literally made up from under the artist’s feet, from the tarpaulin used to keep the floor clean. This work in particular (Untitled, 2009), seems to come out from the outside, it could be a panel which has been exposed to bad weather for years.
The works of Paganini often give this impression, to be not produced by the hand of a man, but by the intervention of chance and by the course of events. They are emblem of time, which spoils, makes forget, covers with sand. Time changes everything, and memory is the only shield against this devastating action.
The one which fixes recollections of an African summer, and of a boat which becomes a big insect-shaped animal in a wood made of black flows, surrounded by the white splendour of heat.
Or funny memories of black cats, so much recidivous in the kleptomania of someone else’s food to deserve a painting.
The memory of La Bête by Borowczyk, a traumatic vision at the thresholds of adolescence, to be exorcised by employing the VHS tape as support, painted with the black of disappointment, crowned with a white squirting.
Paganini ciphers his memories with an economy of expressive elements which becomes an armoured cryptogram, impregnable without his intervention. He communicates with a primitive, bare, obscure sign.
Recurring symbols appear in the amorphous matter.
The vertical stroke, often brown, as a gore, as dry blood. A laceration, often with suture stitches. A sore which becomes a door to go to another side.
Then a shape with rounded lines, curled up, biologic. A bean, or maybe a foetus. Or also a stylized head. Sometimes featureless, sometimes in the act of screaming. More or less sharp.
The sharpest of all is the one in 4717. The visitation of a dead of the same blood, a ghost inside a dream.
Who returns, speaks, and makes little presents.
And then turns into the picture of a frogman.
Someone who goes deep below the surface, in a silent, dark world, in the search of something which few people would be able to search.
Something beyond appearances, beyond passing-by forms, beyond clear-cut divisions.
Something unspeakable.

 
Andrea Paganini - L'indicibile

Paganini usa bitume, cenere, olio di lino, caolino, ruggine, fuoco. La materia allo stato primario, sovrapposta, graffiata, miscelata in una gamma di colori ed impressioni fra l’organico e l’aleatorio.

 
 

Nell’universo contemporaneo esistono forme d’arte di grande chiusura. Spesso questa indisponibilità alla comprensione è voluta, e non racchiude nulla, se non un vuoto di maniera. Fortunatamente la sindrome della vacuità è riconoscibile a pelle, grazie alle brutte sensazioni che lascia.
Prima fra tutte l’irritazione.
Altre volte però, la difficoltà di decrittazione del codice di un’opera d’arte nasconde qualcosa di misterioso.
E allora ci attira, ci parla in una lingua sconosciuta, ci gira intorno come un fluido elettrico. Ci sfida e ci affascina, e noi dobbiamo capire. È lo stesso identico meccanismo che si instaura nei confronti di un oggetto d’amore, o durante una caccia al tesoro per enigmi. Perché gli oggetti d’amore sono contraddittori, e gli indovinelli procedono per paradossi.
Il primo paradosso di Andrea Paganini è lo stile: da un grafico di professione ci si aspetterebbe un’arte pulita, lineare e figurativa. Ma per Paganini questa è l’eccezione, con cui ritrae unicamente il figlio Dario in un delicato tre quarti.
La sua regola è piuttosto il caos, la sporcatura, l’assenza di struttura. L’informe.
Paganini usa bitume, cenere, olio di lino, caolino, ruggine, fuoco. La materia allo stato primario, sovrapposta, graffiata, miscelata in una gamma di colori ed impressioni fra l’organico e l’aleatorio.
Un copertone diventa l’aureola di una Madonna che sembra un busto votivo di 10.000 anni fa, o forse la Falsa Maria, il robot-femmina creato dal mad doctor di Metropolis.
Una tela da casaro si trasforma nella rete che ci separa da un cerchio rosso in rilievo, che potrebbe essere il sole, il nucleo di una cellula, oppure l’idea astratta di dio.
L’ultima serie di Paganini si distingue per l’impiego del bianco. Spesso accostato o mischiato col nero, in campiture dense e zigrinate. Raggrumato a ditate in forma di teschio.
Oppure in grandi tele graffite, recuperate letteralmente da sotto i piedi dell’artista, dai teloni per non sporcare a terra. Questo frammento in particolare (Senza titolo, 2009), sembra provenire da un esterno, potrebbe essere un pannello esposto alle intemperie per anni. Spesso le opere di Paganini danno quest’impressione, di non essere create dalla mano dell’uomo, ma dall’intervento del caso e dal corso degli eventi. Sono emblema del tempo, che rovina, fa dimenticare, insabbia. Il tempo cambia ogni cosa, e contro quest’azione devastatrice l’unico scudo è la memoria.
Quella che fissa ricordi di estati africane, in cui una barca a remi diventa un grosso animale insettiforme dentro un bosco di colate nere, con intorno lo splendore bianco della calura.
Oppure ricordi buffi di gatti neri, talmente recidivi nella cleptomania della pappa altrui da meritarsi un quadro.
Il ricordo di La bestia di Borowczyk, visione traumatica sulle soglie dell’adolescenza, da esorcizzare impiegando il nastro del vhs come supporto per dipingere il nero del disappunto, coronato da schizzate di bianco.
Paganini cifra le sue memorie con un’economia di elementi che diventa crittogramma blindato, inespugnabile senza il suo intervento. Comunica con un segno primitivo, spoglio, oscuro.
Fra la materia amorfa affiorano simboli ricorrenti.
Il segno verticale, spesso bruno, come sangue secco. Una lacerazione, quindi, a volte con punti di sutura. Una ferita che si trasforma in una porta per andare da un’altra parte.
Poi una forma dalle linee tonde, raccolte, biologiche. Un fagiolino, oppure un feto. O anche una testa stilizzata. A volte priva di lineamenti, a volte nell’atto di urlare. Più o meno netta.
La più netta di tutte è quella di 4717, un fantasma dentro ad un sogno, la visitazione di un morto del proprio sangue. Che ritorna, parla, e fa piccoli regali.
E poi si trasforma nella fotografia di un sommozzatore.
Ovvero di chi va molto al di sotto della superficie, in un mondo silenzioso, scuro, alla ricerca di qualcosa che pochi possono avere la capacità di cercare.
Qualcosa al di là delle apparenze, delle forme transeunti, delle nette separazioni.
Qualcosa di indicibile.

 


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Bibliography, links, notes:

Pen: Luiza Samanda Turrini
English Version: Rachele Cinarelli

 
 
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