Quando ci si accosta alle “sculture” di Giuseppe Penone si ha, d’impatto, una sensazione di smarrimento. Sensazione che poi può evolvere in curiosità e avvicinamento o in negazione assoluta come per paura di essere inghiottiti in una dimensione profondamente connaturata in noi ma, ahimé, oggi sepolta nella memoria da tonnellate di scorie sociali, e per così dire “civili”, ossia la dimensione della Natura.
Dal 25 settembre sino a giorno otto dicembre 2008, al MaMbo, Museo d’Arte Moderna di Bologna,
sarà possibile visitare la mostra, curata da Gianfranco Maraniello e dedicata ad uno dei protagonisti indiscussi dell’arte contemporanea italiana: Giuseppe Penone. Le opere scelte seguono le tappe più significative del percorso dell’artista di Garessio (provincia di Cuneo) e si estendono dal 1979, “Soffio” e “Soffio di creta” al 2008, “Scrigno”. Un modo per confrontarsi con un artista che è riuscito ad immergersi nel contesto naturale di boschi, montagne, tra fiumi, ruscelli e intrighi di rami, riportando alla luce immagini straordinarie e indimenticabili.
Quando ci si accosta alle “sculture” di Giuseppe Penone si ha, d’impatto, una sensazione di smarrimento. Sensazione che poi può evolvere in curiosità e avvicinamento o in negazione assoluta come per paura di essere inghiottiti in una dimensione profondamente connaturata in noi ma, ahimé, oggi sepolta nella memoria da tonnellate di scorie sociali, e per così dire “civili”, ossia la dimensione della Natura. Questa sensazione la provai da ragazzo, quando mi confrontai per la prima volta con un’imponente istallazione dell’artista presso il Centre National d’Art et Culture Gorge Pompidou a Parigi. Ricordo la geometrica massa di foglie d’alloro che ricopriva per intero le pareti, il calco in oro delle medesime foglie a formare il sistema respiratorio che splendeva nella poca luce, ma ciò che mi colpì maggiormente fu l’intenso odore sprigionato da quella parete verde nel suo grembo di fogliame. Oggi si ripete il “miracolo” e dinanzi alla maestosa opera “Scrigno” non posso non essere irretito e rapito dall’intensissimo profumo di resina che viene esalato dal cuore di questo tronco aperto, come un forziere di preziosi segreti, e deposto in alto al centro della grande pelle increspata di cuoio che lo completa. Venature, linfa, spine e masse, minuscoli segni che si addensano in corpi al tempo stesso essere umano e pianta. Forse si dovrebbe forgiare un binomio di termini quale organismi materico-spirituali per identificare queste opere di Penone, organismi che sono stati assistiti nel loro sforzo di germogliare dall’interno. Le opere sembrano sviluppare corpo più che prendere corpo, un po’ come affermava Joseph Beuys, ossia che la scultura deve “crescere” dal proprio interno proprio come le ossa del corpo umano. Il percorso diviene così nella creazione un continuo cercare l’origine e ripartire da questa verso un significato puro, assoluto. L’intero progetto espositivo supera l’idea di retrospettiva proponendo un ventaglio di sculture, disegni preparatori, schizzi, studi, fotografie e interventi, che accompagnano il pubblico nei percorsi e negli sviluppi creativi del maestro, dalla fine degli anni settanta sino ai nostri giorni.
Lo sguardo che quindi ha l’opportunità di contemplare realizzazioni così distanti nel tempo non potrà fare a meno di notare come due delle tematiche cardine di Penone siano: la memoria e il respiro. La memoria dell’artista solca la materia, la modifica, la lavora finemente, permette una mimesi che genera sensi altri e squarcia la visione consueta e statica del visitatore. Il respiro calibra il rapporto tra esterno ed interno, genera scambi diretti e osmotici, cristallizza il pensiero in forma, regge i tempi della creazione rendendoli visibili quindi fruibili. Ma non ci si può certo fermare solo a queste due componenti fondamentali del lavoro di Penone, infatti ogni singola realizzazione cerca un rapporto diretto e attivo con l’osservatore, un rapporto in cui tutti i sensi sono coinvolti, un rapporto che invita a muoversi e vivere l’opera non come piatta esecuzione da ammirare ma come esperienza vitale da incontrare e da cui farsi rapire. Gli enormi lavori con le spine d’acacia, ad esempio, sono visioni in continua mutazione rispetto al nostro movimento nello spazio e la profondità data dalla tridimensionalità delle spine nel lungo corridoio genera, come accade di frequente in natura, una continua metamorfosi dello spazio. Una simile percezione metamorfica si ha osservando le pelli di grafite, dove l’artificio grafico si trasforma in luminoso sfondamento dello spazio bidimensionale e, ancora una volta, mimesi assolutamente riuscita. Interessanti risultano in fine gli schizzi e i disegni preparatori che regalano al visitatore uno spazio più intimo e permettono di entrare in quel grembo creativo in cui le immagini prendono forma, in cui il segno della matita e talvolta della tecnica mista mostrano i percorsi che inevitabilmente portano alle realizzazioni tridimensionali. Anche nella grafica, difatti, l’attenzione e la resa dei soggetti resta ancorata allo sguardo dello scultore, che affronta il foglio non tanto per riempire lo spazio, quanto per indagarlo nella sua profondità, fatta di luci e sfumature, di dimensioni sondate dalle palpitazioni del bianco della carta stessa. Così la sfericità di una pietra incontra le suture che solcano il cranio umano, chiarendo una volta per tutte l’inscindibilità dell’essenza biologica e umana.
Old Admin control not available waiting new website
in the next days...
Please be patience.
It will be available as soon as possibile, thanks.
De Dieux /\ SuccoAcido