Lo spettatore, che si immerge in questa interessante “retrospettiva” dell’artista americano viene subito accolto da un piccolo dipinto, che idealmente preannuncia la magia del percorso artistico di Maidoff, il cui titolo è “Go and catch a falling star (Prendi la stella cadente)”, ed infatti l’intera mostra ha per titolo la frase ellittica “Arte come totem”.
Jules Maidoff – Arte come Totem
Museo MARINO MARINI, Firenze
Il museo Marino Marini di Firenze ospita dal 12 settembre al 25 ottobre i lavori dell’artista statunitense “fiorentino” Jules Maidoff. Le opere, riunite per l’occasione, percorrono un lasso di tempo che dagli anni ottanta giunge sino al 2008, anche se la tensione e la ricerca del maestro rimangono sempre di fortissimo impatto e di profonda intensità. Per lo più si tratta di opere pittoriche, eccezion fatta per alcuni “oggetti scultorico-pittorici” di notevole interesse.
Lo spettatore, che si immerge in questa interessante “retrospettiva” dell’artista americano viene subito accolto da un piccolo dipinto, che idealmente preannuncia la magia del percorso artistico di Maidoff, il cui titolo è “Go and catch a falling star (Prendi la stella cadente)”, ed infatti l’intera mostra ha per titolo la frase ellittica “Arte come totem”.
Il totem, definizione estrapolata dal dizionario etimologico Zanichelli, è un “oggetto materiale, corpo celeste, animale o pianta che nelle credenze di molte tribù primitive, ha dato origine al gruppo, con la conseguenza di un rapporto di discendenza e parentela”; così queste opere eseguite da Maidoff sembrano provenire da un centro di irradiamento centrifugo, un po’ come se un fusto di quercia generasse i suoi rami in rotazione dal centro, emanandoli in piena luminescenza a causa del movimento stesso. I dipinti così si susseguono come misteriosi incontri di energie e presenze.
Gli esempi di questo germogliare fantasmagorico si notano in tele quali “Il calvario di Gillian”, dove un letto di luce partorisce agglomerati biomorfi, mentre la zona “buia” dell’opera emette vibrazioni cromatiche di bruni e bluastri di provenienze sospette.
Ma il medesima riflessione vale per “Bloom a Night Town”, opera fortemente gestuale che erutta fisionomie da incubo, alla Fűssli, attraverso spatolate furibonde, che generano campi energetici in un’implosione di cieli plumbei e gialli arancio vivacissimi.
La religione sembra sempre permeare il percorso dell’artista, religione cristiana, ortodossa, panteista, religione della pittura, tripudio del colore che rimane affannosa ricerca della scintilla, processo duplice dal terreno al cielo e viceversa, come eclatante, si evince dalla grande opera “Cercando la fede” i cui personaggi sembrano, implodere nella - essere partoriti dalla testa di un sanguinolento corpo, che ricorda certe affermazioni del maestro irlandese Francis Bacon, che era solito affermare del corpo umano: “…il corpo…forse intende dire il sacco di carne.”
E sicuramente tra i tanti riferimenti di Maidoff, Bacon resta il più evidente, soprattutto in dipinti quali “La bestia e la donna”, in cui una figura femminile sprofonda in una massa-ombra nera in un ambiente che ricorda tanto certi paesaggi marini con tanto di ombrello stilizzato, oppure “Autoritratto come uno scimpanzè” dove l’artista si fonde con l’animale per dare vita ad un vibrante uomo nero, una crisalide oscura nella quale si possono scorgere i timidi avvisi di mutazione nelle pennellate rosso vermiglio e bianco che punteggiano la sommità della creatura.
Ma Maidoff riesce a macinare finemente i suoi riferimenti, le sue passioni, opera una metamorfosi lenta di corpi e ambientazioni lasciando che l’immagine finale sia una sorta di bolo della memoria, una schermaglia di colori e interventi tesi a liberare presenze inquiete. Tutto ciò succede sia in opere del tutto legate all’immaginario dell’artista, sia nelle opere in cui i riferimenti si fanno concreti e diretti; un caso eclatante su tutti è la grande tela “La zattera della medusa”, che ingoia l’opera di Théodore Géricault, popolandola di apparizioni che mescolano idealmente il sommo Goya con certi personaggi del regista David Lynch.
Opere quindi che sfuggono alla narrazione, queste di Maidoff, nonostante siano molto spesso popolate da più personaggi, da più protagonisti. Il tutto avviene grazie ad uno spostamento del senso complessivo, ad uno sviscerare lo spazio da rituali facilmente individuabili, rendendo i rapporti tra le figure non logici ma ana-logici. Le figure possono così danzare tra i colori, sui colori, dentro i colori, sfaldandosi, rigenerandosi, oppure si possono duplicare, frammentare, sviluppando nuovi arti, occhi triplici, oppure ancora emanare idoli, frammenti di corpi altri, barlumi di luce, scintille e schegge. Una mobilità assoluta che, nell’uso del colore ricorda le opere di Chagall, e nella presenza fisica certi dipinti di Kokoschka, una pittura che rende l’incubo inquieto ma anche l’ironia più sottile. Mirabile, in tal senso, “Romeo e Gulietta”, tela del 2007, che stigmatizza la serrata stretta tra un sensuale nudo di donna e una minacciosa ombra-nuvola di fuliggine che di umano ha ben poco, quasi a richiamare il dramma in un funereo messaggio meteorologico.
Spiazza la varietà di temi e soluzioni che Maidoff trova nel suo infinito mondo interiore, dal sacro al profano, dal quotidiano all’assoluto, masticando con le sue passioni e i suoi sguardi sulla storia della pittura i suoi stessi protagonisti; mi riferisco qui alla poderosa tela “Gauguin a Tahiti”, vera esplosione di colori che vengono pompati dalla testa del maestro ritratto proprio al centro dell’opera, come se si trattasse di un sole incendiario emanato dalla “fornace” alle sue spalle, probabilmente la fornace dell’arte.
La mostra “Arte come Totem” non smette di stupire; lo stile di Maidoff sempre in piena ricerca non si perde mai nel gesto ma ne utilizza la potenza per aggrumare visioni intime e allo stesso tempo spettacolari, così come le immagini ultimate sembrano sempre attendere che lo sguardo dello spettatore le completi dandogli un ulteriore segno di vita, un varco oltre l’immaginario, un ponte per il sogno lucido in cui restano intrappolate spesso figure e divinità dell’ignoto.
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