L’artista è Flavio Favelli: fiorentino di nascita, vive e lavora a Savigno, in provincia di Bologna e da anni lavora sulla memoria, sul concetto di tempo e sullo spiazzamento.
Il primo approccio con l’opera di Savelli all’interno del Centro Commerciale Cinecittà 2 è con l’enorme stendardo che campeggia sopra le scale mobili e di fianco all’ascensore che porta ai piani superiori.
Nonostante le dimensioni non tutti lo notano (così distratti dalle vetrine e dai cartellini dei prezzi) e, ancor meno, si prendono la briga di arrivare fino al quarto piano: la frequenza, nei giorni feriali, è di una trentina di persone al giorno. Eppure, per i più intraprendenti, si prospetta un’esperienza insolita.
La prima cosa che colpisce, rispetto all’ambientazione dei piani sottostanti, è il silenzio, l’assenza di persone e di colori. Attraversata la porta a vetri, che divide la galleria da una sorta di roof garden, ci si trova poi immersi in uno spazio immaginario, con al centro un piano rialzato con sopra mobili di vario genere disposti uno di fianco all’altro. Sono pezzi d’arredo anni ’50 e ’60, o forse ancora più vecchi, spesso segati e ricomposti, a volte inutilizzabili (come un comò con i cassetti “cementificati”).
Il visitatore si aggira incuriosito e perplesso, ancor più quando scopre nell’altra ala della galleria - che ha, grosso modo, una forma ad elle – un’altra camera identica, con gli stessi mobili e gli stessi arredi. La terza camera, che dà il titolo alla mostra, è dunque quella immaginaria, quella che non c’è? Forse sì, forse è la stanza della memoria anche se, leggendo il cataloghino (venduto a soli 3 euro), si scopre che per terza camera si intende la stanza poco usata che i genitori dell’artista, nella loro casa sugli Appennini, tenevano pulita e ordinata, a metà tra un museo, un negozio di rigattiere e uno sgabuzzino sui generis.
Flavio Favelli, tassidermista degli oggetti (come è stato definito da Pratesi nel testo in catalogo) e novello Proust nel tentativo di rievocare a se stesso, e a noi, antichi ricordi, mette in mostra una sensazione o, più precisamente, una suggestione. È probabilmente inutile cercare un senso o, forse, tutte le ipotesi sono plausibili.
Gli oggetti si danno come apparizioni oniriche, restando fluttuanti nella nostra mente…
A parte tutto, nonostante il lavoro di Favelli possa essere considerato più o meno interessante, resta però da chiedersi, dal momento che viene presentata come site specific, come l’istallazione interagisca con l’edificio che lo ospita e, ancor di più, con il quartiere circostante.
Già gli interventi all’interno dei centri commerciali (divenuti assai di moda negli ultimi tempi) pongono un dilemma difficilmente risolvibile: è quantomeno sconveniente portare l’arte all’interno dei luoghi dell’iperconsumo mettendola rischiosamente sullo stesso piano di qualsiasi altra merce o, invece, è opportuno “riqualificare” questi luoghi tramite gli interventi artistici, portando l’arte nella vita quotidiana (anche quella legata al consumo alienato), lontana dalla cerchia protettiva degli addetti ai lavori?
E’ ormai stato sfatato il mito del centro commerciale come semplice non-luogo: questi spazi sono diventati qualcosa d’altro e, comunque, realtà assai complesse.
Ma è proprio questa complessità che meriterebbe di essere indagata attraverso la pratica artistica. Gli interventi all’interno dei centri commerciali dovrebbero avere il coraggio di sabotare le normali dinamiche e rivalutare il ruolo attivo dell’uomo ridotto a puro consumatore. Ancora più stimolante sarebbe lavorare con le persone che vivono nei quartieri che circondano i centri commerciali, spesso isole sfavillanti circondate da palazzoni alti e grigi.
Nel lavoro di Favelli di tutte queste problematiche non c’è traccia; il merito più grande sembra quello di aver portato una porzione di sogno, di silenzio, di riflessione all’interno del flusso continuo e frenetico dello shopping natalizio. Ma, forse, non è poco.
Da apprezzare, comunque, l’iniziativa dei commercianti di Cinecittà 2 che hanno deciso di dar vita ad uno spazio dedicato all’arte con interventi slegati da pratiche commerciali. Resta poi agli artisti e ai curatori, di volta in volta incaricati di presentare un progetto, la capacità di usare questi spazi e i mezzi forniti in maniera critica.
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