AUTOBEAT / QUASI TUTTO (EP) / COSABEAT PRODUZIONI
Se dovessi dare un titolo a questa recensione, questo sarebbe:
"Italia. Nazione di provincia"
Titolo brutto ma esplicativo. Perché? rockers da camposanto, musicisti della prima ora, arrivisti incoscienti e un pochino ambiziosi: ascoltate i vostri demo, quelli dei vostri conoscenti, ascoltate le bands nei locali, ascoltate la "musica italiana": io non ne posso più.
Vi rendete conto di cosa date alle stampe? Statemi bene a sentire: per comunicare ci vogliono le idee! Ragazzi, io non ne posso più di voi. Quando registrate le vostre canzonacce vi mettete mai a pensare-riflettere-ragionare su quello che state facendo, componendo, creando? Non vi chiedete mai se correte il rischio di annoiare innocenti e indaffarati ascoltatori con qualcosa di vecchio, provinciale, inutile? Più vado avanti e più mi capitano tra le mani demo e CD-r che riescono a dire nulla salvo che mi si stanno sbollendo e incatramando i cosiddetti? Vi posso dire come la penso? un demo brutto per me vale sempre più di un demo mediocre, rappresenta qualcosa, qualcosa di positivo - ok, purtroppo non tutti i dischi mi smuovono gli intestini con classe come sanno fare i Black Sabbath o i Wildhearts, ma meglio una bella palata di merda in faccia che 45 minuti di mediocrità, non trovate? Amen. La situazione è questa: mi vedo arrivare centinaia di demo tutti uguali, quasi fatti con lo stampino, siano questi espliciti plagi di Subsonica, Ligabue o dell'ultima sensazione pop Le Vibrazioni. Basta. Ragazzi, se a tutto c'è un limite, penso che sia arrivato il momento di limitarsi (limitatevi!).
Ma veniamo all'oggetto di tale infuriato monologo. Ascoltato il primo pezzo degli Autobeat ho subito pensato che i nostri nemmeno meritassero la stroncatura, dato che ciò che ascoltavo era proprio il grado zero del creare: girava sul mio lettore una versione più pacchiana e "do it yourself" de Le Vibrazioni, tra l'altro condita di partenza prog a-melodica assolutamente da dimenticare. Data la situazione, già mi limitavo a dare alcuni consigli a questi Autobeat in base alla loro possibile fascia di età:
dai 14 ai 20 : dovete crescere ancora molto (preferibilmente lontano dalle mie orecchie)
dai 20 ai 26 : pensateci su, provate a cambiare tutto, genere, canzoni, dieta, stile di vita
dai 26 in su : avete gravi problemi di udito
Fortuna vuole che il disco si riprenda con la frizzante seconda traccia, 4omini 4gatti, piccola cosa carina a metà tra subsonica e new wave schizzata, tutto assolutamente pop, ma con stile. Dopodiché... Soprassediamo sulla terza, non la vorrebbero neanche a Disneyland. Al quarto pezzo capisco che questi Autobeat volevano forse divertire, ma ahimè non rido più da 12 anni - cioè da quando ho visto The Blues Brothers. Poi il ritornello parte e un po' inizio a volergli bene a questi ragazzi. Figlioli belli, ce la mettono tutta. RESPONSO: il solito demo italico, ma con almeno una buona intuizione (il secondo pezzo), il che non è abbastanza per farmi evitare di scrivere che il loro CD lo trovo letteralmente inutile, e così inutile da sembrarmi repellente.
Mi spiace per questi Autobeat, che in qualche modo fanno da capro espiatorio a un fenomeno grasso, grosso e fastidioso. Tutto questo cinismo è di certo esagerato in relazione al loro demo - lo ammetto: sono stato cattivo, mi aspetto mails minatorie - ma non in relazione alle gravi condizioni in cui si trova il rock della nostra provincialissima nazione: ottusa, chiusa in se stessa, ottenebrata da cliché di "riuscita commerciale" e da paranoie quali "commerciale vs. alternativo", assolutamente priva di stimoli di qualsiasi sorta, assolutamente incapace di crearsi un qualsiasi stile proprio o semi-proprio. Ora che poi produrre (o auto-prodursi) un CD è diventato uno dei trends più popolari (vedi i calciatori e tra poco magari anche il presidente del Consiglio), da umile scrittore rock amatoriale mi sento definitivamente spacciato...
PS: pensateci 3000 volte prima di mandarmi le vostre disastrose cagate!
Alessio Budetta BakuniM
MASSIMO AIELLO / TRIBUTE TO BEEETHOVEN.DRUM IN THE SYMPHONY NO.9 / AZZURRA MUSIC
Massimo Aiello è nato a Napoli nel sessantasei. Studia batteria prevalentemente da autodidatta sin dall'età di dieci anni, ma ha pure frequentato vari corsi con importanti maestri di batteria (questo ci dice lui stesso anche se non specifica i nomi, ma noi ci fidiamo senz'altro). Dal 1987 porta in giro uno spettacolo solista da lui ideato e realizzato, che ha pure fruttato il disco questione, che ci informa venire apprezzato nei più svariati contesti: festival, chiese, piazze, teatri, istituti didattici. Alquanto eccentrico. Alquanto pretenzioso. Interessante il giusto. Riuscito mi pare. Tenetevi forte: ha aggiunto la batteria ai quattro movimenti della nona di Beethoven, Inno alla gioia compreso. Naturalmente ognuno potrà avere una propria idea sulla portata concettuale di tale gesto. Naturalmente già il consigliarlo ai fan di Beethoven potrebbe essere causa di presa per il culo alla mia persona se non al mio senso critico. Diciamo che il disco (realizzato in studio suonando la batteria dal vivo sopra una riproduzione dell'opera), e credo pure lo spettacolo, possano essere appannaggio preferenziale di coloro che studiano (o hanno un interesse smaccato per le possibilità del) lo strumento. Oppure per chi non ne ha avuto ancora abbastanza di queste operazioni (tanto care a certo progressive) che tendono ad avvicinare l'ambito del rock alla musica classica (tenete però ben presente che c'è modo e modo di farlo). La batteria è di certo strumento portante, cardinale, di qualsiasi forma di rock [nata come aggiunta di percussioni alte (posizioni più che frequenza credo) (i piatti??) alle percussioni basse (i tamburi???) in ambito che credo potremmo definire jazz ma sarebbe molto bello che qualcuno intervenisse con dotte pagine di storia degli strumenti] e non saremo certo noi a guardare di mal occhio qualcuno che ne sperimenti l'uso o lo studio fuori dal suo ambito. Quindi sotto con l'accompagnamento (e ogni tipo di stravolgimento) batteristico e percussionistico (acustico ma naturalmente pure elettronico), che si tratti di voce sola (pure vocoderizzata) o quartetto d'archi, di vento e pioggia come di alito del deserto, di fiati strafree o di orchestre di chitarre noise, pianoforti preparati o carpentieri il lunedì mattina, tagliaerbe o frequenze radio AM, forni a micronde o onde del mare, telefoni cellulari o furgoni cellulari, dischi technohouse o fields recordings dai mercati generali. Potete aggiungere pure una batteria a qualcuno che legge questo cazzo di scritto mentre una poetessa friulana adolescente lo recita tradotto in ugrofinnico col controcanto in falsetto a bocca chiusa di un omosessuale impiegato al dipartimento di Geografia all'università di Pisa. Però occhio al ridicolo come all'inutile. Segni dell'arte anche essi.
Giovanni Vernucci
BLACK DICE / BEACHES & CANYONS / FAT CAT
Chiacchierati e quotatissimi i Black Dice, mentre arriva per la Fat Cat la ristampa europea del loro "Beaches & Canyons". Chiacchierati perché, si dice, i loro primi concerti non duravano più di 15 minuti, complice la pazienza degli spettatori, che finivano per insultare i musicisti sul palco i quali, dal canto loro, non si facevano pregare per reagire. Ma queste sono cose già viste e già sentite, no? Quotatissimi perché c'è di mezzo la stima dei Sonic Youth - che li hanno voluti come supporto per alcuni spettacoli e li hanno convocati per l'All Tomorrows Parties del 2002 - e di altri nomi importanti come Kid 606 (hanno pubblicato un mini cd per la Tigerbeat6) e Godspeed You! Black Emperor. Si dice di live devastanti, con volumi ai limiti dell'udibile e capaci di sprigionare un'atmosfera quasi sciamanica. Ma ho solo un cd per le mani, e per di più in una veste spartana, una copia promo con solo i titoli in una copertina bianca. Ho solo la musica, da giudicare. Ciò che soprattutto stupisce è la capacità del quartetto (Eric Copeland - voce e percussioni elettroniche; Bjorn Copeland - chitarra; Aaron Warren - voce e tastiere; Hisham Bharoocha - batteria e voce) di confezionare un magma sonoro compatto e quasi orchestrale, pur operando in territori di improvvisazione. Le cinque lunghissime tracce di questo cd, per questo, sprigionano un certo fascino, grazie a un'originale mistura di psichedelia, noise di stampo giapponese e avant-rock. Tuttavia, nell'insieme, solo a tratti si resta coinvolti e, quel che è peggio, il disco non spaventa né scandalizza. E' un giudizio parziale - indubbiamente bisognerebbe guardare al progetto nel suo complesso - e un tantino severo, perché le premesse erano così altisonanti. Fatto sta che, almeno per ora, non mi è facile consigliare questo album.
Guido Silotto
BLACK NIELSON / THE SEAHORSE BOE / TRUCK
Al debutto due anni fa su Truck Records con "Still life hear me", rispuntano i Black Nielson con il loro pop-rock dal sapore tipicamente british ed anche questa seconda prova porta impresso il nome dell'etichetta di Oxford (non ancora distribuita qui da noi: vai al sito www.truckrecords.com). Missaggio affidato a Phil Vinnall (Placebo, Elastica...) per una manciata di canzoncine ben confezionate che si esauriscono nella loro effimera gradevolezza esprimendo le cose migliori quando emerge la vena chitarristica del gruppo ("The human strain", "Dead lucky"). I fans di Travis, Coldplay ed Elbow apprezzeranno molto, ma sia ben chiaro che i Black Nielson non hanno ancora l'impatto radiofonico dei Travis, né la capacità di scrittura dei Coldplay, né l'inquieta sensibilità degli Elbow.
Guido Gambacorta
CALIFONE / DECELERATION TWO / THRILL JOCHEY
Sembra che quest'anno i Califone abbiano finalmente pubblicato, sempre su Thril jockey, un'opera definitivamente convincente mettendo a punto, con maturitˆ, un'innovazione nel solco della tradizione. La loro e quella più generale nella quale si trovano immersi e a loro modo radicati. Il disco si intitola "Quicksand and Cradelsnakes" e lo trovate distribuito da Wide. Se vi interessa il country statunitense aggiornato all'era della produzione casalinga digitale e vi è piaciuto (come a me è piaciuto tantissimo tanto che lo misi nella playlist di fine anno) il disco dei Books dell'anno scorso, andatevelo a rimediare. Veniamo a noi, la Thrill jockey ristampa un disco della band di Tim Rutili che contiene una musica (una traccia, la prima: 5 minuti e cinquanta, tutta movimenti e parti che si rompono a vicenda sorpassandosi, dalla quale si evince che pure l'anno scorso il suono dei Califone stava davvero bene) per un film animato: "Francis" (scritto da Tim Rutili stesso), una colonna sonora improvvisata per un filmato intitolato: "Fireworks (no mail days are sad days)" e una sonorizzazione per una rappresentazione teatrale tratta dalla storia biblica di Salomè. Diciamo subito come prima cosa che la maggior parte del disco è occupata dalla sonorizzazione per lo spettacolo teatrale che è molto bellamente saporita di spezie orientaleggianti (avrete presente la figura di Salomè, quella di Erode e del Battista) e direi con fermezza: pregevolmente suggestiva al di lˆ della sua funzione di colonna sonora (She dances, la dodicesima traccia, ve la consiglio spassionatamente perchè rocca e rolla) la quale qui non possiamo criticare per il fatto che lo spettacolo non l'abbiamo visto manco riprodotto. Diciamo inoltre che le restanti tracce, le tre di Fireworks, sono molto più informali e caotiche e piene di suono anche inquietante liberamente tratto dagli strumenti e da flussi liberi direi elettroacustici che attraversano il tutto dandogli sostanza. Quanto ci sia di improvvisato e quanto di ricucito a posteriori non saprei davvero dirvelo. Comunque il tutto scorre in maniera impressionante che se fosse solo frutto di improvvisazione ci sarebbe da levarsi il cappello. Il disco era giˆ stampato dall'etichetta personale dei Califone. Ora la Thrill jockey gli darˆ una visibilitˆ di certo maggiore. I Califone qualche maggiore attenzione se la meritano. Sinceramente.
Giovanni Vernucci
DUBUS SOUNDSYSTEM / CD-R, DUBTOWN TIJUANA
Conosciuti tre sere fa a Luzern, un duo dub di Tijuana Mexico in tour con i Tijuana no! a sostegno delle lotte nel Chiapas. Queste due coordinate umane. Musicalmente questo promo si muove nel dub elettronico quadrato, da mad professor in poi. Elementi noti (bassi rotondi, melodiche, batterie elettroniche) fanno da sfondo a voci registrate male e quindi caratterizzatissime. wow. Un altro mondo, uno diverso, uno che cannibalizza quello che riesce a recepire con le antenne spezzate sempre protese a nord. a nordovest. E' un peccato, forse, troppe chitarre elettriche nel terzo mondo. E' un diritto averle, ma non un dovere usarle. Comunque, attaccatevi a questa piccola zattera, ne potrebbero nascere delle belle. info: elninyo@minorthreat.com
Jacopo Andreini
DANIEL GIVENS / FREEDOM'S MYTH / AESTHETICS
Il nuovo lavoro di Givens dopo il pluriacclamato "Age" è un 12" che contiene quattro lunghi brani registrati in una session chicagoana con il solito manipolo di nomi che di qua dall'oceano fanno sbavare i ragazzini (indipendenti e carbonari). La musica si muove su loop abbastanza stretti, addizionati di strumenti che forniscono le propulsioni giuste per movimenti in crescendo, tra ritualità sciamanica e new age ritmata. Non so. C'è qualcosa che non mi convince alla fine dell'ascolto. Manca un ingrediente al centro di tutto questo, quello che polarizzi tutte queste appendici in una figura ancora astratta ma densa. Così le composizioni (o i brani, o le session) mi sembrano ancora un po' troppo improvvisazioni intorno a un loop, o a un paio di suoni, jam session dopolavoristiche di musicisti certo bravi ma ben poco visionari. Aspettiamo l'album (che già dal titolo "Dream Sequence" lascia immaginare ulteriori ricerche in queste ultime direzioni) e vediamo cos'ha da dirci l'uomo.
Jacopo Andreini
DAVID SYLVIAN / BLEMISH / SAMADHISOUND
Non so perché, ma da David Sylvian un album del genere me lo aspettavo. I suoi lavori sono sempre stati deliziosi coinvolgimenti tra avanguardia e post dandismo alla Brian Ferry/David Bowie, riuscendo spesso ad esaltare (vedi il primo parto solista Brillant Trees) e, nel peggiore dei casi, ad affascinare.
Esaltazione e fascino che trovano nel fresco Blemish nuova forma e incanto. Non mancano, come spesso ci ha abituato l'ex Japan, invitati speciali: ad accompagnarlo oggi troviamo la chitarra improvvisata del grande vecchio Derek Bailey, mentre, alle macchine, è il genio smisurato del canadese Cristian Fennesz a dettare tempi e tappeti alla maniera di un novello Brian Eno. Le premesse non mancano e già basterebbero a fare di Blemish un ascolto obbligato per ognuno, ma, per semplificare le idee, cerchiamo di fare un pò di chiarezza: Blemish è l'album più sentito di Sylvian da anni a questa parte, è il suo percorso che continua ad avere voglia di andare "oltre", è la sua arte che taglia l'ennesimo traguardo. Ad aprire le danze c'è la title track, un viaggio lungo 15 minuti fatti di scricchiolii e slanci emozionali , ballad da cantore post ambient, un gran pezzo. La mano (e le corde) di Bailey e la voce di Sylvian diventano, da mondi all'apparenza differenti, quasi inscindibili in "7". Toni crepuscolari attorniano "Latenight Shopping", mentre toni indefinibili rendono "A Fire In The Forest" la più bella delle ipotesi tra il Fennesz docile di Endless Summer e il Sylvian androgino che tutti conosciamo.
Niente da dire, che si ama o si odia, David Sylvian (grazie anche alla sempre ottima scelta di collaboratori) continua a stupire.
Gianni Avella
DEERHOOF / APPLE O’ / KILL ROCK
Deerhoof dimostrano di avere ottime dosi di energie fresche condite da qualcosa di molto simile alla presa in giro ma mascherante qualche cosa di ben altro. Diciamo subito della vocina giapponese giocosa, cantilenante, quasi bambinesca ma seriamente seria. Che dire di canzoncine spesso brevi, piccole ma preziose, tutte costruite da chitarre suonate con una libertà impressionante e da una batteria piuttosto secca e pesante, disarticolata, quasi Drumbiana, che le accompagna con una energia multiforme ed intelligente? Prendiamo l’esplosivamente sbarazzino pezzo che ci introduce al disco intitolato Discards a hearth. Oppure la terza traccia Sealed with a kiss, apparentemente cacofonica e strambissima ed invece compiutissima coi suoi fiati in pompa e col suo degnissimo finale naufrago. Oppure la nenia di Flower dove il chitarrismo noise comincia a venir fuori senza troppi problemi. Chitarrismo protagonista assoluto nella seguente My diamond star car, là dove viene fuori acidulo e graffiante. In Apple bomb le sonorità si fanno più pacate e capiamo tutta l’effettiva bravura, in ogni senso, dei Deerhoof, che sono diversi. Cercatene la prova in The forbidden fruits oppure nella armonia killer di Lamour stories. Se vi stimola poi, oltretutto un pezzo paradada che si intitola Panda panda panda e vi intrigano delle improbabili vie emocore cominciate a farci un pensierino. Cominciate pure dalla finale Adam plus Eve connection che dopo un frullato di casino si distende acustica e vocale senza batter ciglio. Un disco (che dura mezz’ora) insomma di una sorprendente leziosità fuori di testa.
Giovanni Vernucci
DELICIOUS / I TEMPI DEL LICEO / AUDIOGLOBE
Album destinato ad un pubblico di teen ager, che si ispira senza mistero alla scena californiana dei vari NOFX, Lag Wagon, Penny Wise, ma che a mio parere, sarà forse per il cantato in italiano, non disdegna neppure l’esperienza dei nostrani Prozac +. Sulla struttura musicale poco da dire, il genere è ben noto ed i delicious lo interpretano con quel tanto di gusto e tecnica che non guastano mai. Testi freschi e relativamente disimpegnati, forse un tanto ripetitivi nelle tematiche di fondo (primi amori, vita scolastica, primi rimpianti giovanili, ecc..). Interessante proporre “La solitudine” (indimenticato capolavoro della Pausini) in versione punk core, dal vivo deve rendere una scena davvero spassosa.
Un esordio interessante, ma mi piacerebbe riascoltare i delicious alle prese con testi dal contenuto un po’ meno adolescenziale e possibilmente cantati in inglese: come al solito credo che il risultato migliorerebbe ulteriormente.
Roberto Baldi
DEMODE / L'INVASIONE DEGLI OVERHEAD / JAZZCORE INC.
I Demode sono un gruppo romano che dal novantotto ha suonato con Zu, Ruins e Sabot. Basso chitarra e batteria, pare gli manchi un fiato ma non gli manca il fiato. Ne hanno anzi da vendere. E un fiato qualcuno glielo regalerˆ, non dovranno certo starlo a comprare. Jazzcore si . Che abbiano fatto un buon prodotto si vede dalla copertina, disegnata da Jason Christian (il quale firma anche il testo in inglese di un pezzo davvero autenticamente sentito che fa presa sulla condizione storica attuale, con quella concretezza letteraria sbrigativa americana), con un quid della grafica di Arrinton de Dyoniso ma meno mistico. La cosa più bella è che si sforzano di cantare in italiano testi finalmente decenti. Troppe volte si sentono cantare italiani in italiano (e ancora più spesso in inglese che fa anche più rabbia) senza che abbiano nulla da dire. Ma Demode un bel po' da dire lo hanno. Brani come "Il porco e la zappa", "Zio mela", "Economia" ci lasciano benissimo. "Caleidoscopio" e "Lemodè" (con dentro un amore supremo) sono ottimi pezzi. Hardrock punk-progressive jazzato a volte benissimo , ritmato e pieno di cambiamenti dalla capitale italiana. "Walkin' on the streets of Tampere" è molto molto convincente e piena di foga iniziale e dolcezza finale. "K.F.C" è ancora da lodare e da consigliarli di spingere più verso il noise. Vabbè è un' opinione mia legata al gusto mio... L'invasione degli overhead: disco appena sotto i quaranta minuti, dieci tracce che partono con un "Postumi di un pranzo di funghi" che parte dritta dritta con attacco punkenergico e si capisce tutto subito, dopodiché è tutto uno scartare e mille cambiare, un fermarsi e ripartire per una traccia che si ritrova allungata e con una coda lunga che anche se la provi a tagliare si rigenererˆ per tutto il disco come quella d'una lucertola. Non vorrei che fosse questo dilungarsi che mi fa ricordare un po' un concerto di Splatterpink al Prenestino (bravi e belli dal vivo si ...ma con queste dilungaggini). Allora dico che non vedo l'ora di veder dal vivo i Demode (pure di conoscerli magari) ma che sarebbe potentissimo concentrare l'energia che hanno di sicuro in pezzi più corti sul disco. Lasciando il piacere del suonare a jam anche fiumose per il live. Lasciando agli ascoltatori, sin dalla prossima volta, una cosa che potrebbe essere, credendo ancora nei testi e migliorando il cantato (forse solo la sua produzione), un capolavoro. Poi verrˆ anche il tempo di raffinare il suono, di perdere qualcosa di vecchio per (ri)trovare qualcosa di nuovo. E l“ si vedrˆ la loro effettiva portata storica, che è anche il margine di maturazione. Quanto si pu˜ ancora maturare restando ancora tanto giovani? Oggi lo stanno sapendo in tanti. L'arrivasse a sperimentare la politica (ricordiamo sempre quanto questi anni ci stanno preparando al caos anarchico), quella locale almeno, mica sto qui a delirare, sarebbe un altro passo verso un'eutopia.
Giovanni Vernucci
DNA 2 / ECTOPLASMI / LATLANTIDE
Band bolognese formatasi nel 1999 al suo esordio ufficiale con “Ectoplasmi”. Una strizzatina d’occhio ai Placebo, molto rock imbastardito da riff post punk taglienti e smorzate dark wave dall’impatto gradevole: arrangiamenti essenziali e fedeltà al quattro quarti senza scadere nella monotonia. Ottima l’open track “tutto ciò che serve”, degna di nota la ritmicità incalzante di “Il Male di Me”, “Troppo in Fretta” e “Dopo le Sei”, in cui la melodicità delle chitarre non suona melensa, molto carica e diretta “Domingo de Magnana”.
Solita notazione finale: per quanto i testi non siano banali ed il cantato non ecceda in inutili virtuosismi, questa è musica che richiede l’idioma anglosassone e non se ne scappa.
Roberto Baldi
D’O.N.C. / E.P. DAYS/ VURT RECORDZ
Ai D’O.N.C. piace giocare coi generi, mischiare le carte in tavola e tirar fuori gli assi quando meno te l’aspetti. Otto sono i pezzi contenuti nel loro esordio e otto sono le interpretazioni di una sorta di elettrorock postmoderno: a me sono venuti in mente gli Enon ( “D’o.n.c. worry baby”) ma anche dei Kraftwerk più “leggeri”, mentre lo spirito dei Trans Am aleggia un po’ su tutto il disco. Ognuno di questi riferimenti però è ben assimilato e digerito, senza dare mai l’impressione della bella copia, cosa rara considerando che stanno uscendo un sacco di dischi del genere. L’ascolto è consigliato anche a chi non segue i nomi sopra citati: ci sono infatti un improbabile blues ( “Where the fuck is Ct”), una cavalcata noise psichedelica e uno strumentale che sembra deep ambient a confonderci le idee. La stranezza è che questo patchwork tiene bene anche dopo ripetuti ascolti: teniamoli d’occhio! Contatti: www.donc.it karmek@hotmail.com
Italo Rizzo
EKKEHARD EHLERS / POLITIK BRAUCHT KEINEN FEIND / STAUBGOLD
Qui invece siamo sul concettuoso andante. Manipolazioni prima di solo clarinetto basso, poi di violino, stratificati, affettati, filtrati, sovrapposti, sottratti, risuonati. Belloccio anche se risaputo, gradevole anche se assolutamente ostico, mi ci sono addormentato volentieri durante gli interminabili viaggi in furgone durante l'ultima tournée nordeuropea. Funziona, e lo dico in senso buono. Per appassionati un colpo sicuro. Però, voglio dire, sto ascoltando qui di sfuggita un vecchissimo brano di Bob James e sorpassa da tutte e quattro le dimensioni la musica che oggi spacciano ancora per avanguardia. E poi, posso dire anche questa? Mi son rotto i coglioni delle torri gemelle. Anche qui, che due coglioni, ma leccatemi la fava, vai.
Jacopo Andreini
ENCODE / SINGING THROUGH THE TELESCOPE / GHOST RECORDS
Ecco un altro album made in Italy di cui andare fieri, ecco un’altra band italiana di sicuro talento e con le idee già abbastanza chiare. Musica vivace ed attuale, che riunisce nelle dodici tracce sia una componente più intimista, tipica di certo post rock e new prog contemporanei (“an addition to the family”, “fading here”, “unsubstantial love”), sia le frenetiche sonorità del noise newyorkese di matrice Sonic Youth e dell’elettro pop rock di scuola Flaming Lips (“daylight delight”, “baretta”, “bifore”).
Musica che non dimentica di lasciar trasparire le sue radici più antiche, come testimonia la cover di “white rabbit” dei Jefferson Airplane, riletta ed arricchita di venature psico-rock.
La bella voce di Elena Ceci, un misto, per stile e qualità canore, fra Patty Smith, Chan Marshall e Dolores O’Riordan Burton, non fa altro che aggiungere un sapore pop cantautorale tutto femminile ed impreziosire un pavimento ritmico/melodico di ottima fattura, dove nulla sembra lasciato al caso eppure ogni pezzo suona fluente ed orecchiabile, scevro da geometriche spigolature preconfezionate.
Davvero azzeccati e non forzati, infine, gli interventi di violino, piano sinth e tastiere elettroniche in alcuni pezzi (“mother make me pray”, “delight daylight”, “abatement”, in particolare), episodi che contribuiscono ulteriormente a sottolineare l’ottima vena compositiva che caratterizza questo esordio degli Encode.
Roberto Baldi
ENON / IN THIS CITY/ TOUCH AND GO
Il singolo in questione è contenuto in “High society”, uscito un paio d’anni fa, ma stranamente questo cd è uscito poco prima del nuovo album, “Hocus Pocus”, il terzo della band. Apparentemente c’è solo roba per completisti: un soap mix della title-track molto simile all’originale, un mix strumentale di “Murder sounds” (che però sta sul nuovo cd!), un inedito (“inches”) un po’ insipido e un bel remix di Deadverse su “In this city”, che la trasforma in una soffusa ballata. L’aspetto più interessante è che nel cd sono contenuti tre videoclip: “In this city” è il più conosciuto, coloratissimo e sgargiante omaggio a Blade Runner, nelle ambientazioni metropolitane, e al robot Goldrake, che è un po’ il simbolo del clip. “Carbonation” è la televisione americana secondo gli Enon, immagini di spot e programmi visti da un’ottica pop art che contraddistingue anche il sito del gruppo, www.enon.tv. Infine il terzo clip, “Pleasure and Privilege”, nient’altro che il loro tributo al punk, girato in sala prove. Niente di imprescindibile dunque, ma la prova che si può lavorare con le immagini con la stessa disinvoltura dei suoni; gli Enon si distinguono così dai loro contemporanei, in fini dei conti anche questo è pop!
Italo Rizzo
FU MANCHU / GO FOR IT… LIVE! / SPV
Quella stronza, la adoro! Quando mi guarda con quegli occhi da impunita, morirei per lei. Quando litighiamo perché io sono un cazzone e lei piange, oh mio dio, piange e le si sfa il trucco e io sbatto la porta, poi torno e ci baciamo, mi maledico e piango anch’io. E’ questo l’amore? Lasciarsi andare, perdere le tracce di se stessi per rincorrerne altre, in definitiva, non capire più un cazzo? Finisce quest’anno scolastico, poi l’università per lei e chissà cosa per me. Immagina: ingrano con la band, faccio un disco, soldi, casa, macchina, piscina… e lei con me, al mio fianco, diventiamo come gli Osbournes, no no, mio dio, la moglie di Ozzy è una chiavica, meglio le donne di Mick Jagger, senz’altro. Intanto quest’estate auto a manetta e via verso la Spagna, voglio andare a Barcellona, dice che ci si diverte un casino, ci sono un sacco di negozi di dischi, musica, mare, sole. E lei con me, coi capelli scarmigliati, sorride, mi dà un bacio e facciamo l’amore quando ci pare, senza rotture di coglioni. C’è altro? Che ne so, non per ora almeno, non adesso.
La vado a prendere a scuola, esame finito, non ci si pensa più. L’autoradio è al massimo, scuoto la testa e spacco tutto, picchio sul volante e sul cambio. Nel lettore: “Go for it… live!”, il nuovo doppio dal vivo dei Fu Manchu. Eccola, saluta le amiche, mi vede, fa un cenno di mano, sorride. Adoro questa vita!
Guido Siliotto
GOODMORNINGBOY / SONG = EPITAPH: OUTTAKES /URTOVOX
All’inizio dell’anno gli Elle ci hanno regalato quello che a mio parere è destinato a rimanere uno dei migliori album prodotti in Italia nel 2003.
Marco Iacampo (alias Goodmorning Boy), voce e chitarra degli Elle, ci offre ora un minicd che raccoglie alcune outtakes del suo album d’esordio come solista ed alcune new songs. Un album suonato in punta di voce ma che allo stesso tempo ha la forza e la personalità di un’opera di cantautorato non seduta sugli italici cliché del genere.
Deliziosa “The Soldier Bleeds” solo voce e chitarra acustica arpeggiata, mentre “Snowfall” e “Hannover” cantate a due voci ricordano molto i primi Flaiming Lips, ancora attaccati alla tradizione country pop americana.
Un cd da ascoltare nei momenti di relax, un musicista ed una band (gli Elle) da seguire con attenzione nelle loro prossime uscite.
Roberto Baldi
HAT MELTER (HESS /KLATT / MUELLER/TURNER) / UNKNOWN ALBUM / CROUTON
Il nome di questo gruppo temporaneo è quasi letteralmente quello formato dai nomi dei musicisti. quasi ma non del tutto. Il nome di questo album va dritto al cuore del suo contenuto musicale. Cosa stanno facendo? Che roba è? Due violoncelli e due set di percussioni? roba sconosciuta. Io almeno non lo so. Le parti dei violoncelli, Matt Turner è uno dei più importanti violoncellisti impro della scena mondiale (tutte le registrazioni di partenza sono originarie di set suonati dal vivo), sembrano fare il lavoro delle percussioni, mentre i percussionisti (entrambi i suonatori di percussioni sono dell'area di Chicago, voi sapete che musicisti post arrivino da quelle parti...) sembrano fare le veci di armonie e melodie. Strano ma in realtà poi ci sono riusciti... Solo due tracce. Solo 35 minuti. Ma che suono sperimentale! Un disco vibrante con suoni caricati e arricchiti dalle trame degli archi e dalle stranezze delle percussioni. E' strano, e alla stessa maniera è il disco. Un disco non per moltissimi. Da scoprire ma con cautela rispetto ad emozioni non usuali. Questo è un altro esempio di come oggi (e in futuro sempre più) le libere e caotiche cose fatte dall'anima, dalla psiche, dal cervello, dalla cultura, dall'esperienza degli uomini e dai loro strumenti e mezzi, siano riarrangiati con l'aiuto dell'uso di intelligenze artificiali che stanno provando a ordinarle per darle un senso.
Giovanni Vernucci