Mikrofisch, Mui, Nlf3, Odd Nosdam, Passage, Populous, Pragma, Reynolds, Richard Hawley, Rio Mezzanino, Sintesi Archivio, Slim, Stati Di Angoscia, The Eyesores, The Orange, Them, Theoretical Girls, Tottemo Godzilla Riders, Why?, Wire, Yeah Yeah Yeahs, Zu.
Mikrofisch, Mui, Nlf3, Odd Nosdam, Passage, Populous, Pragma, Reynolds, Richard Hawley, Rio Mezzanino, Sintesi Archivio, Slim, Stati Di Angoscia, The Eyesores, The Orange, Them, Theoretical Girls, Tottemo Godzilla Riders, Why?, Wire, Yeah Yeah Yeahs, Zu.
MUI / S/t / Keplar
MIKROFISCH / Gleichstrom/Wechselstrom / Keplar
Sembra non arrestarsi più l’ondata creativa che dalla Germania consegna regolarmente ai nostri stereo produzioni di nu-jazz, di minimal techno, di indietronica e di sperimentazione post-rock tra le più interessanti attualmente in circolazione. Un’infinità di etichette, djs, collettivi musicali aperti e continui scambi artistici alimentano una scena che sembra godere di ottima salute. Dopo l’attento ascolto di questi due cd, da oggi io aggiungerò alla mia personale lista delle labels tedesche da tenere in considerazione anche la bavarese Keplar. Costituitasi nel 1999 con il primo nome di Kellerplaten, la Keplar è nata per dar voce ai vari progetti musicali che vedono coinvolti i membri fondatori (ad esempio i _Radio Magenta), ma anche con l’intento di offrire una possibilità artistica a nuovi talenti da scoprire in un’area tendenzialmente infinita che può essere vagamente circoscritta dai termini "indie rock" ed "electronica". Risale al dicembre del 2000 il primo 7" dal titolo "Keplar 101"; poi altre tre sole uscite fino ad arrivare a questo prolifico 2003, con i dischi di Mui e Mikrofisch presto seguiti dal secondo disco dei _Radio Magenta e dalle prove di Moon-patrol e Tigrics. E, potrei scommetterci, quest’annata potrà riservare alla Keplar importanti soddisfazioni…. Tanto per cominciare è a dir poco promettente il debutto dei Mui, duo composto (udite udite…) dagli italiani Stefano D’Incecco e Fabrizio Tropeano. Estetica ridotta all’osso (immagine minimale in copertina, solo qualche nota interna, canzoni senza titolo contrassegnate da numeri progressivi da 1 ad 11…) e musica strumentale fortemente evocativa. Ritmiche cerebrali scandiscono visioni aliene o vengono addolcite dall’umanità sognante della chitarra. Un senso di claustrofobica inquietudine scuote dal profondo la quinta traccia e si propaga fino all’ottavo pezzo, dove un basso incalzante tortura le nostre piccole certezze. Non c’è enfasi nella musica dei Mui, ma poesia: il lieve disincanto della track numero dieci e l’opacità autunnale dell’undicesima traccia chiudono splendidamente un disco intriso di lirismo. Unendo campionamenti e strumenti veri, registrazione analogica e registrazione digitale, il suono dei Mui sembra l’evoluzione in chiave ritmica di certe intuizioni guitar ambient degli Aerial M. Ma questo è solo un possibile lontano riferimento per cercare di descrivervi quella che fino al momento è la più bella sorpresa del mio 2003 in musica! Sono un duo, tedesco questa volta, pure i Mikrofisch: si chiamano Silvi Wersi e Mawe N. Klave e si circondano di basso, chitarra, melodica, organo, glockenspiel ed un campionario di loops assortiti per dar vita al loro multiforme electro-pop. C’è un pregevole equilibrio a reggere queste scansonate ballate low-fi inframmezzate da un paio di pezzi strumentali ("Mary", "Vermena cha cha cha")… equilibrio di fondo che i Mikrofisch si divertono a scompaginare nel finale del disco, abbandonandosi intenzionalmente ai vocalizzi schizoidi di "Tired riot" e "Little red go-kart". Il binomio tra le due voci si rivela sempre vincente (ascoltate in particolare "November"…): come distratta da qualcosa che non ci è dato sapere la voce di lui; volubile, ma non sdolcinata, la voce di lei. E ai due non fa difetto una sottile ironia espressiva: impagabile quel sorrisetto malizioso che fa capolino in "Streets"! "Gleichstrom/Wechselstrom" è un disco piacevolissimo, carico di umori positivi capaci di conferire il dolce sapore della domenica mattina anche al più pigro mercoledì pomeriggio: gustatevi "Everyday is like sunday" di Morrisey nella cover fatta dai Mikrofisch… magari il lunedì mattina, prima di iniziare l’ennesima settimana di studio o di lavoro….
Guido Gambacorta
NLF3 / Viva! / Prohibited
Nlf 3 è un trio di musicisti francesi molto votati ad un improvvisazione freefusion che oltre ad avere creato insieme un’etichetta la Prohibited records, ha un’esperienza ormai decennale. Inoltre che ad avere associato i nostri inizialmente sia stata una ricerca musicale effettuata per sonorizzare film sperimentali in quel di Parigi può essere pure ricognizzabile dall’ascolto del loro nuovo disco. Certo quei film e relative colonne sonore andrebbero visionati per rendersi conto dell’effettivo valore, ma tant’è. Il nuovo lavoro oltre ad essere caratterizzato da quest’atmosfera filmica, cinematica, e da un approccio aperto nei confronti di strumenti e tecnologie, strutture e influenze, ha una produzione mediocre e un impatto leggerino. Comunque finché ha questo margine di libertà e di freschezza anche un po’ di fusion post rock che cerca di sfruttare al meglio varie tecnologie, varie strumentazioni e disparate influenze può andare bene. Soprattutto per estivi ascolti soffusi. Soprattutto in questi umidi crepuscoli d’inizio estate. Sudati a questa maniera si apprezza pure un filo di brezza o mezzo bicchiere d’acqua.
Giovanni Vernucci
THEM / S/T / Anticon
WHY? / Miss Ohio's Nameless / Anticon
ODD NOSDAM / Le Mix Tape Deluxe / Anticon
PASSAGE / B Side Suicide / Anticon
In casa Anticon è tempo di ristampe, alcune ufficiali, altre riservate al circuito degli aficionados del collettivo californiano. Spicca soprattutto Them, prima opera del duo Jel/Doseone, che in seguito cambierà ragione sociale in Themselves. Il materiale risale al 1997/98, e solo in parte lascia presagire le evoluzioni spiazzanti di quel capolavoro targato 2002 chiamato The No Music: si tratta di "art hip hop" colorato e sopra le righe, in parte ancora legato agli stilemi del genere, in parte già oltre. Il parallelo più efficace è forse proprio col primo album solista di Doseone, quell'Hemispheres lontano parente di Greenthink e Clouddead. Da ricordare che i due, all'epoca, operavano ancora in quel di Cincinnati, e l'approdo a San Francisco avverrà solo più tardi. In ogni caso una testimonianza imprescindibile per comprendere uno dei suoni più originali dei giorni nostri, senza contare che la ristampa contiene anche It's Them, vero e proprio brano-manifesto, contorta e minacciosa dichiarazione di intenti. Vecchi soci di Doseone, sin dai tempi di Cincinnati, sono Why? E Odd Nosdam (giusto per orientarsi: conosciuti anche come Reaching Quiet, oltre ad essere gli altri due terzi di Clouddead). Al solo Why? E' attribuito il mini Miss Ohio's Nameless, nonostante le basi siano fornite dall'infaticabile Odd. Il lavoro risale al 2001, e trabocca di quello spirito surreale che è un po' la cifra stilistica dei due compagni di strada: otto tracce calate tra Residents, Beach Boys periodo Smile, popedelia allucinata, e atroci sevizie sul corpo morto del post rock. 2nd String Mathmagician e Bloody Eyes i brani più completi, nonché i più riusciti, pervasi da una vena di stranita malinconia proiettata su un non meglio identificato pianeta dei freak. Per Odd Nosdam la novità consiste invece nell'ennesima raccolta di sample assemblati con fare grottesco e originale (mescolare Stockhausen, Gary Numan, Laurie Anderson, Flying Lizards, Philip Glass, Black Flag e Robert Fripp non è roba da tutti). Nosdam al campionatore è un piccolo genio, basti ascoltare il lavoro svolto con Clouddead e Reaching Quiet, ma quando si lascia prendere la mano, nei suoi progetti solisti, può risultare stancante e inconcludente. In ogni caso non si può non volergli bene, non fosse altro per il fatto che è proprio Odd il personaggio chiave dell'intero collettivo Anticon, nonostante la stampa lo releghi più nell'ombra rispetto alle "stelle" Doseone e Sole. Insieme a Why? Rappresenta l'anima più giocosa e al tempo stesso eversiva del collettivo californiano, e anche la più avanti e sperimentale. Attenzione perché i due stanno per uscire con altre prove soliste, e probabilmente in autunno li vedremo insieme in Italia. E rimediatevi subito quell'In The Shadow of The Living Room a nome Reaching Quiet, capolavoro assoluto del 2002 da poco passato, almeno a parere del sottoscritto. Un altro transfuga di Cincinnati (ma che succedeva in quella città?) è Passage, voce dei Restiform Bodies. La citazione è dovuta perché il suo cd autoprodotto B Side Suicide è stato finalmente ristampato dopo un periodo di irreperibilità: e diciamo subito che è un lavoro eccezionale, in assoluto tra le cose migliori provenienti dalla nebulosa Anticon. Chi ha già presente i Restiform Bodies, saprà della particolare passione per certo suono eighties che anima il personaggio. Quindi anche in questa prova solista è tutto un tripudio di synth d'annata, ritmiche electro, e scampoli wave che piovono da ogni dove. Ma è un suono comunque devastato, per niente ammiccante, allucinato ed espressionista, dal feeling fortemente oscuro eppure permeato da un sense of humor capace di alleggerire il tutto - humor che, per contrasto, conferisce ancora più drammaticità all'insieme. Con la consueta verve onnivora, Passage si permette azzardi di ogni tipo: incursioni soul, svolazzi d'archi, deliri noise, elettronica a volte gelida altre obliqua, ambient, industrial, senza contare una voce che non lascia scampo e un forsennato rapping "cantato" decisamente inclassificabile (è lui il vero rivale di Doseone). In tempi di paradossali e spesso discutibili ritorni al futuro, B Side Suicide è veramente una perla da cogliere al volo. Peccato che, come nel caso dei lavori a nome Why? E Odd Nosdam, la distribuzione sia limitata e il circuito quello "interno" ai fan più stretti dell'etichetta. Ma questo potrebbe anche essere un incentivo per approfondire la ricerca.
Valerio Mattioli
POPULOUS / Quipo / Morr Music
Se non fosse per quei frammenti vocali in italiano che galleggiano campionati nella prima traccia quasi a suggerire la provenienza geografica dell’artefice del disco, sarebbe veramente difficile immaginarsi che dietro il moniker Populous si cela un ragazzo salentino di ventitré anni che risponde al nome di Andrea Mangia. "Quipo" infatti non è il tipico prodotto italiano "ben fatto" che cerca fortuna all’estero dopo aver raccolto consensi in patria, ma rappresenta il caso ben più raro di un debutto "talmente ben fatto" da essere dotato geneticamente di spessore e credibilità a livello internazionale. E questo vuoi per il rinomato marchio di fabbrica che campeggia su "Quipo" — quello della berlinese Morr Music — vuoi per la disinvoltura con la quale Andrea Mangia ha dato forma digitale ai propri sogni avventurandosi in territori solitamente battuti da sperimentatori elettronici tedeschi, da djs nipponici o da manipolatori americani. Come un Dj Shadow sotto vuoto o come un Opiate che vaga nel traffico metropolitano, Populous percorre fisicamente uno spazio che è solo mentale facendo scorrere alle proprie spalle una pellicola impressionata da sbuffi hip hop e da bolle ambient destinate a svanire al calar della notte… E al mattino quello sguardo carico di stupore, quando aprendo la finestra della propria camera, a Sogliano Cavour, Andrea scorge Alexander Platz nella luce bianca dell’alba.
Guido Gambacorta
PRAGMA / Empleinair / Audioglobe
Che bello, che bello, infilo distratto nel mio lettore uno dei tanti cd che lo zio de dieux mi ha gentilmente inviato dopo mesi di astinenza, la prima traccia parte e penso "azzo suona bene sta band inglese" uno sguardo alle note della casa distributrice e… porca troia non ci credo, sto ascoltando una band italiana! L’orecchiabilità e l’immediatezza compositiva degli U2 della fine degli anni ottanta, l’essenza melodica e meno nichilista del grunge primi anni novanta, ritmiche e riff che richiamano il pop rock anni ’70 ed un cantato molto ispirato dalla scena cantautorale contemporanea d’oltre oceano, mescolati con intelligenza e riletti in una chiave moderna, che renda il suono attuale nonostante l’evidenza delle sue radici. Musica immediata, easy listening di ottima fattura dove una voce decisa accompagna tanto i pezzi più melodici (Consonance, Home), quanto quelli più incalzanti e tecnicamente elaborati (In the Moonshine, Anyway). Interessante la spavalda prova di sicurezza di Safe dove struttura del pezzo, stile del cantato e utilizzo del delay alla "The Edge" contraddistinguono un vero e proprio tributo agli U2 dal punto di vista compositivo. Se la audioglobe non ha organizzato un pesce d’Aprile in ritardo, ecco una band italiana su cui puntare e su cui investire un po’ dei nostri spicciolini, che altrimenti non ci si può più lamentare di gigi d’alessio e laura pausini.
Roberto Baldi
RICHARD HAWLEY / Lowedgesm /
Undici canzoni d’amore fatte di arpeggi di chitarra tiepida, batteria romantica che tiene il ritmo discreta e voce ebbra di sentimento, appunto patetico, per questo cantautore inglese che imbastisce arrangiamenti leggeri e canzoncine pure di più, per un suono complessivo definibile come caramelloso atmosfera che io proprio non lo so. Molto simili tra loro sono le canzoni e le soluzioni sulle quali queste poggiano o si sviluppano, come simili ad altri pezzi dello stesso autore che ho sentito in passato. Come simile è il mood. Indubbiamente ha la sua riconoscibilità lo stile dell’autore. Indubbiamente ha la sua compattezza di sasso il disco. Buon per loro. Allora: invocazioni di nomi di donna, rimpianti per storie finite, invocazioni d’amore, corse speranzose in moto, rimembranze di notti felici passate, financo squarci moralisticheggianti e tutto il resto della mercanzia tipica del settore accompagnata da relativa retorica eccetera eccetera fino allo sfondamento non delle palle ma di ben altro più emisferico, biemisferico diciamo. Ritornelli, strofe, cuore amore, archi come se tutto questo fosse la verità. E non: graffi nell’occhi e calci nei denti, musi lunghi e distruzioni a catena, insoddisfazioni a tutti i livelli, incomprensioni e incomunicabilità varie, ulteriori sentori dell’aleatorietà della libertà e un sacco di altre cosette fichette tipo…verranno in mente anche a voi. D'altronde ognuno cià i cazzi sua, spesso così simili a quegli dell’altri. Ma tornando a bomba. M’è parso un po’ rincoglionito a dire il vero, il tutto. Personalmente sento spesso il bisogno di strumenti dai timbri caldi, soprattutto acustici, ma mica per forza ci vuole la glassa. Anzi. Tutt’altro. Le corde di chitarra di tutto hanno bisogno fuorché della glassa. Cioè: magari di versarci sopra della glassa sì, ma in senso letterale non figurato.
Giovanni Vernucci
RIO MEZZANINO / S/t / Autoprodotto
Si riaffacciano sulla scena fiorentina i Rio Mezzanino e lo fanno con un demo omonimo ed una formazione largamente rinnovata. Al microfono c’è sempre Antonio Bacchiddu, la cui voce così incredibilmente profonda, magnetica e venata di struggente poeticità sembra quella di un Mark Lanegan che ha preso lezioni di canto dal fantasma di Jim Morrison. Quattro nuove tracce a comporre un lavoro veramente ben riuscito: in "Moquette" screziature chitarristiche e lievi ritmi percussivi accarezzano le liriche in inglese; "Goldensun/Silvergun" è un blues fumoso con echi di Calexico; "Donkey" è una canzone post-grunge che capitalizza al massimo la lezione dei Mad Season e degli Alice In Chains acustici; "Fire" ci congeda nel miglior modo possibile con la sua calda melodia arricchita dalle note di un contrabbasso. Sarei molto curioso di sentire i Rio Mezzanino alle prese con qualche lungo pezzo strumentale: al di là dell’indiscutibile talento vocale di Antonio, mi sembra che il quintetto abbia tutte le doti per proporre cose interessanti anche travalicando la canonica forma canzone. Contatti: acasiglia@hotmail.com
Guido Gambacorta
SINTESI ARCHIVIO / Output 1 / Eletronix Network
Era l’anno 2002 quando, a Napoli, ebbe luogo la prima edizione del Sintesi Festival, due giorni (12 e 13 Aprile) di meltin pot digitale divisi tra il Ran Club e la chiesa di San Severo Al Pendino (luogo principale della manifestazione), quest’ultima, allestita alla perfezione per una mostra illustrata sui 120 anni di musica elettronica, istallazioni video (tra cui Oval), e cornice ideale per le performance di Alva Noto, Retina.It, Leafcutter. Output 1 vuole essere un fermo immagine utile a capire cosa sono stati quei due giorni, un ripasso per i tanti presenti, ed occasione, da non mancare, per chi quei giorni non c’era. Ad essere immortalate su Archivio 1 sono i live set di: John Leafcutter (performance che, partendo da un inizio quasi cacofonico, sfocia in un clamoroso crescendo dub), gli eroi locali Retina.It (esemplare session di improvvisazione) ed il dub stratificato di Terrae (il più "docile" dei tre). Nel cd, come incentivo, troverete anche una gustosissima traccia multimediale che non fa altro che rendere ormai spasmodica l’attesa della seconda edizione di Sintesi Festival, e relativo cd.
Gianni Avella
SLIM / Tonic / Eclectic Circus
Gli Slim, quartetto bolognese nato nell’inverno 1999-2000 e avente già alle spalle l’album di debutto Landing on venus, entusiasticamente accolto dalla stampa specializzata, rappresentano in Italia, insieme con Cut, Mirsie e Julie’s Harcuit gli alfieri del verbo blues’n’roll. Rispetto a questi gruppi, però, gli Slim si distinguono per un uso più marcato degli effetti elettronici e soprattutto perché occhieggiano al mondo della dance music. Il loro sound può essere considerato un mix dell’ultima Blues Explosion (per intenderci, quella da Acme in poi) e dei Primal Scream più danzerecci: un impasto funk-blues-rock con aperture pop e psichedeliche, il tutto immerso in una tipica atmosfera e sensibilità sixties (specie nell’uso della voce e nel suono della chitarra). Agli episodi più pacati e riflessivi (Kate e Funny time) seguono altri contrassegnati dal tipico groove à la Blues Explosion, come Places in passing, Only blues e First time. Non mancano i brani più dance-oriented, come Glassbox (un esempio di crossover del nuovo millennio), i nervosi assalti blues-punk’n’roll di Electro boys & cefalowaves o addirittura le divagazioni surf (come nella conclusiva Tonic). Con questo secondo album, licenziato dall’indie label milanese Eclectic Circus, gli Slim hanno dato vita ad un intrigante miscuglio di rock’n’roll, blues, garage, funk e dance music.
Gabriele Barone
STATI DI ANGOSCIA / Simple Instructions To Let Your Dead Bird Fly / Sda
Gli Stati di Angoscia adorano la sofferenza, si crogiolano nel dolore, bevono solo ed esclusivamente sangue di ragno avvelenato e sanificano i loro sporchi culoni con una musica in concreto bilanciamento indie-rocknroll-wave (come dicono loro) che chiama in causa intersecazioni uditive dalle configurazioni cromatiche più debordanti quali Gun Club, Rites Of Spring, Joy Division, Birthday Party e pure Black Flag dell’ultimo periodo nelle intricate trame chitarristiche. Il risultato è un suono dal maestoso incedere, vigoroso e passionale, che tasta sottilmente il polso anche all’attuale scena nuovaiorchese. Ma dopo tante epiche citazioni torniamo subdolamente a chiederci come si formatti la geografia ispirazionale di un combus che senza dubbio intriga non soltanto per il proprio "bluesaccio" acre ed iperbolico. Tanta grazia dietro il loro feeling incomparabilmente incatramato proviene dalla reiterata lettura di manualetti di fisica quantistica oppure dal sentirsi lunatici esploratori di stati di angoscia derivanti dal fatto di essere uomini (e donne) con un cuore di latex grande così? "Viviamo in un mondo dove la fantasia regna suprema, l’oscurità copre il cielo e nemmeno i records di Reinhold Messner non hanno più significato". Così parla Panda, vocalist-extraordinaire della band tridentina. E lo splendore plumbeo della loro musica testimonia egregiamente queste interposte parole, allestendo con notevole intensità un’ampia galleria di tempi e spazi dalla tensione accumulata, catturati attraverso gli sguardi interni dell’obiettivo messo a punto da cinque invasati alla riscossa, già di per sé autonomo e perfettamente in grado di parlare. Sembra infatti che il disco quasi si sciolga e si dispieghi come una vela al vento tanto è focosamente diretto, ma allo stesso tempo stilisticamente stratificato nel suo scoprire insenature nascoste. Non ci credete? Fidatevi almeno dei fuoriclasse: la lusinghiera recensione su Blow Up # 58 vi dovrebbe bastare. Contatti: statidiangoscia@hotmail.com
Carlo Andreis
THE EYESORES / Bent At Waist / Handsome
Finalmente ho per le mani questo album del gruppo più raffinato di Providence, Rhode Island. Dopo averli visti dal vivo nel 2000 con un set fisarmonica/violino/contrabbasso di rara classe e intensità aspettavo di avere questo disco con impazienza, e le attese non sono state deluse. Bent at Waist presenta le composizioni di Alec Redfearn eseguite da un gruppo allargato, nove elementi che sanno interpretare le canzoni sulla punta delle dita e coi muscoli quand il faut. Siamo dalle parti di un tango/folk/rock senza riferimenti particolari. I pezzi sono densi di idee musicali, armonie, dinamiche e di un lirismo sinceramente raro di là dall’oceano. Di qua farebbero il botto se qualcuno ci mettesse le mani sopra. (www.handsomerecords.com)
Jacopo Andreini
THE ORANGE / Carnival And Cosmos / Snowdonia
The Orange agganciano in abbraccio l’arte sonora postmoderna di prim’ordine e l’arrangiano in forme variegate e multiformi di puzzose canzoni spaziali. Lo fanno con attitudine rock brada e schietta. Dimostrandosi all’altezza di un talento che paiono avere e che molto ci interesserà in avvenire. Pretenziosi quanto le effettive possibilità. Gli occhi abbacinati dal monitor. Pare ci stiano dentro. E questa è una grande notizia in genere e una buona nuova da casa Snowdonia che sembra accorgersene e sfoderare la più bella copertina da un bel po’ di tempo a questa parte; loro che al progetto grafico che accompagna il loro fare underground stanno tanto attenti da dargli un'unitarietà visibilissima. The Orange sono artisti italiani naturalmente postmoderni e genuinamente provinciali che hanno realizzato un disco indirizzabilissimo ad un qualsiasi pubblico americano (e quindi credo pure europeo) che segue le etichette indy che in Italia abbiamo imparato (ci hanno insegnato) ad amare tanto. Gli hanno pure dato, al disco in questione, un titolo azzeccatissimo: dentro c’è il carnascialesco e diversi cosmi. Cosmi piuttosto caotici ma cosmi. Cosmi pulviscolari di miliardi di suoni sentiti, cercati, imbattuti. Cosmi frammentati d’intelligenza (la propria e l’altrui) che non ce la fa. Microcosmi da cameretta. Cosmi pulsanti di ritmo. Cosmi simpatici ma incerti fra noia e gioia. Cosmi alla deriva del T/tempo, della centralità, della psiche. Briciole di cosmi rinsecchiti e sfarinati a volte rimesse a bagno. Grumi di cosmi che è un piacere vedere come non ce la fanno a stare insieme ed è bello vedere che a volte ce la fanno a stare insieme. Come ogni grande esordio di gruppi con personalità e cose da dire, urgenze di comunicare e di dimostrare, il disco reca in sé (per questo pur essendo così naif, così mancante di produzione professionale, così pieno di strutture incoerenti a se stesse che sembrano sfaldarsi e staccarsi per ricomporsi immediatamente, è un disco che mantiene un’unitarietà e financo, non vorrei esagerare fino allo sbaglio, frastornato dagli ascolti ripetuti, un filo fatto di sostanza che lo lega da cima a fondo) quella voglia di dire tutto in una volta, di mettere in atto una summa capace di esprimere tutto ciò che si è. Allora ecco il primo trittico: allora ecco echi di frontiere desertiche in levare brioso carnascialescomessianico, con drammatica ironia nei suoni a condire, eppoi il ritorno della calma e il sentore di viaggi spaziali. Poi si continua con la canzone a seguire. Piedi per terra, il cerchio d’una piazza in festa per la sagra: il vino, il sudore avvinazzato e i sogni di salcicce e un grugnire di porco (ricordate il suino cinese del capitano) per una melodia barrettiana e una chitarra festosa con un'altra allegra ed alticcia e un verso bellissimo in chiusura: cheering to our cheery time again. Poi viene una canzone del cazzo , Song of the cock ,che è estasi estiva e attrazione sessuale inebriata, è un blues canicolare in pieno temporale estivo. Fine del trittico carnevalesco. Intermezzo The incredibile phantasmagoria of Hernando de Soto, che ci mostra tra lo psichedelico e il delirio visionario amoroso femminile alcune chitarre arpeggiate, alcune leggermente straziate e suoni notturni, e spari a condire. Questo è l’esempio della differenza che farebbe l’avvento d’un produttore. Movies ci offre una tirata distruttiva ed arrabbiata che parte con basso in slap; inveisce contro la cinematografia industriale che produce stelle, divi e modelli comportamentali. Poi viene Head e i ritmi e i toni sono ancora sostenuti. Telephone song chiude l’intermezzo. Il pezzo sarebbe anche bello peccato in certi passaggi le voci siano un po’ seppellite sotto il missaggio. Adesso comincia il tri(p)[ttico] cosmico e si è capito da un bel po’ che questi ragazzi della provincia novarese hanno fatto sul serio. Ci introduce qualcosa di distensivo che non si sa come convive con un pizzico di inquietante, sarà per mantenere viva l’attenzione, si chiama The hearth seen from the moon, è solo strumentale ed è delizioso. Mars in a mouse è fatto di grovigli di suoni e stratificazione di confusione sgusciante, ammiccamenti al digitalelettronico e silenzi. Qualcosa proveniente da un Twin infinitives molto più gentile, molto più arioso, molto meno drogato, molto meno pesante, un po’ più lucente, concentrato in 4 minuti e mezzo. Red planet si raddrizza e si pensa che se ci fosse stato un batterista vero coi controcazzi e sulla lunghezza d’onda degli altri due Orange si sarebbe sfiorata la fusione ridimensionata dei doppi storici Beefheart+Minutemen+Royal trux. Detto questo, aspetto trepidante cosa diranno i grandi critici italiani over cinquanta formatisi prepunk. C’è da aspettarsi un giudizio sincero? Perché no? Prima della fine c’è un'altra accozzaglia in disfacimento: Chicken soup with Barley. Alla fine si canta sotto la pioggia un idiota ritornello bagnato che suona bene. About the rain. Due minuti e quaranta di lavacro rock classicissimo che vanno a sciogliersi in men che non si dica. Poi il pezzo si ripiglia, venti secondi di ritornello e va a rituffarsi in ciò che prima si era sciolto. E’ il rock e chissà cos’altro in disfacimento. Musica,alla fine. Questo disco è un’ opera cosmicomica. Un’epidemia biochimicomeccanicodigitalbatteriologica nel codice genetico di tutto il rock italiano a venire, Carnival and cosmos è la/una risposta italiana al disco rock postmoderno di primi duemila, ora che si comincia a capire cosa saranno questi anni. Per i White stripes un elefante radicato. Qua un porco libero per lo spazio.
Giovanni Vernucci
THEORETICAL GIRLS / 1978/1981 / Acute
Disco elettrico dell’anno (quale anno?!) per tutti gli affiliati alla famiglia della gioventù sonica. Ascoltando queste datate registrazioni par di capire che Theoretical girls siano ciò che di più è stato decisivo per la teoria e la prassi artistica nonché per il destino dei Sonic Youth insieme ad I wanna be your dog degli Stooges e al concetto di distruzione/creazione. Sono della esaltante partita il loro storico fonico nonché collaboratore e il loro maestro Glen Branca, nell’orchestra di cento chitarre elettriche del quale si sono conosciuti, ci narra la leggenda, il buonvecchio Lee e il caro Thurston. Sessanta minuti e una ventina di pezzi per capire e godere emozionandosi. Per capire che groove is in the hart, noise is in the brain e electricity comes from another planet. Chitarre newyorkesi della bella epoca no wave. Una garanzia. Roba da leccarsi le orecchie.
Tre progetti per 70 minuti di musica. Procediamo con ordine…Tottemo Godzilla Riders: Nicola e Tae disquisiscono di geografie e culture attraverso una musica chiamata poesia e un’attitudine chiamata amore, le distanze vengono abbattute dalla melanconia minimale di Shiba-Inu, i ponti gettati dalla soave e leggiadra Momiji, ovvero Nino Rota che si innamora della Penguin Cafè Orchestra, o di Serge Gainsbourg. Pausa di riflessione. Si tratta di pop? o semplicemente di musica d’autore? Se Britney è pop i Tottemo sono qualcosa d’altro, certo, provenienti da un altrove da collocarsi sempre nella landa desolata della nostra epoca massificata e popolare, ibrida-a-tutti-i-costi, ovvero in quel luogo in cui il mutare della tradizione in avvenirismo si condensa e si carica di un’umanità assoluta. In questo senso Britney e i Tottemo sono colleghi e, forse, si caricano dello stesso significato attraverso opposti significanti. Già perché disquisizioni etiche e culturali sulla peculiarità umana e musicale dei Tottemo sono inutili e assurde, quando il cuore si apre e il culo si muove e gli occhi ruotano quasi automaticamente cercando quel cubetto di cielo che sbuca dalla finestra. Tom Waits suona un piano mentre un tenero gattino asiatico sussurra la sua Soldier’s Things, "Più". Le Cibo Matto poi stanno proprio dietro l’angolo, e sbucano all’improvviso con "ka kirai" (che significa, tradotto, "non mi piacciono le zanzare"). Dimenticavo, c’è un pezzo di piano condito da scorrere d’acqua, soffici gemiti e un piano alla Daniel Johnston, il suo titolo è "Onaka Ga Suita" e vuol dire "Ho Fame". Districandosi tra pop-dance, easy listening, musica d’autore, tradizione giapponese e musica da film italiana, i Tottemo sono forse la band più vera del 2003, e anche e sicuramente la più naif. Amateli se e solo se avete visto qualche volta Godzilla in pizzeria, Holli e Benji al fungo peyote, Kitano con la chitarra in mano — beh, le avete visti di certo, ragazzi, siamo nel 2003. Soundish: progetto solitario di Nicola che da sfogo al suo ego, classicheggiante, leggiadro, bozzettistico, ancora divertente (Ciccio e Franco nel Far West, con scatolone di gelato Sammontana a mo di batteria e un saluto a questi due grandi grandissimi eroi), bellissime idee e grande ispirazione, anche se la materia sonora risulta un po’ meno affascinante di quella creata in compagnia di Tae — forse si fa sentire la mancanza di un cantato? o mancano solo i miagolii di "Più"? Klippa Kloppa: stavolta Nicola sta nei Klippa Kloppa assieme a Marco di Gennaro, Sisto Fuso e Giangiacomo Diglio. La consistenza elettronica predomina e si fa sentire un’insistente arsura estiva, la stessa narrataci tempo addietro da Fausto Balbo. Se il finale di un disco è il suo tramonto — e il tramonto non sempre è un tramonto - le nuvole dei Klippa Kloppa sono bianche, arancioni, post-moderne: tanta elettronica ora vicino al chill-out (certi Mouse on Mars non sono troppo distanti) ora vicino a certo…. Boh? a certo qualcos’altro che non conosco troppo bene in quanto musicalmente sono ignorante come un mulo… grandi pezzi, solo questo è vero, elettroniche calde, eclettroniche del cuore (colpa di quel basso avvolgente? In "mia cara tecnologia" per esempio). Pezzo migliore: Yellow Train, chiara summa dell’arte da sound-track di videogame commodore 64 ma anche cavalcata post-krauta, i Neu! davanti all’Atari? Ma anche quel canticchiare di The Chiller Man Song sa rimanere in testa districandosi tra balletti neo-folk in technicolor. Bene così, ho detto tutto: ascoltate e inebriatevi di questi sogni cyber-classici tra il sushi e la mozzarella di bufala, e ditemi se non è questo il disco italiano del 2003.
BakuniM
WIRE / Send / Pinkflag
Davvero un bel disco di rock ha confezionato questa band inglese. Rock veloce, suonato con chitarre, basse e batteria, un rock convinto che si sente essere stato, ed essere tuttora, ragione di vita. Qualcosa definibile old school e si sa che la scuola ha sempre da insegnare quando sono i maestri (evidentemente ben aggiornati, non ci sbagliamo) a salire in cattedra. Purtroppo del rock ‘n roll è rimasto solo il rock ma di certo non possiamo andare a chiedere il roll (ma forse qualcuno queste cose aveva cominciato a chiamarle punk ‘n roll o non avevo capito bene qualche sofistica sfumatura?) a questi signori che sono stati postpunk della primissima ora, praticamente postpunk al tempo del punk, quello storico settantasettino e nello specifico inglese. Eroi della new wave. Quindi giù con le chitarre dall’elettricità satura qui, compressa là, distorta sempre, con l’elettricità dispensata a tutta randa lambendo a volte il noise, un noise contenuto, un noise imbrigliato nel controllo. E giù con le melodie vocali che fanno presa e con la voce che è specchio d’una coscienza arrabbiata e altera. Giù a rotta di collo con la batteria diretta e portante, ben amalgamata col resto del suono potente, giù con questa ritmica dritta che non si concede rullate e che si fa tutt’una compatta col basso e che condita da bordate chitarristiche senza fronzoli farà pogare schiere di giovani e meno giovani. Giù con l’esperienza, il mestiere, l’urgenza espressiva mantenuta sempre alta, la sveltezza dell’esecuzione e la tecnica strumentale migliorata come del resto pure la capacità produttiva in studio. Via con l’attitudine che sta nel sangue e non certo nelle pose o nelle mire estetiche .Giù con tutto quello che dispensa l’età matura. E la voglia di fare che s’è così ben concretizzata in un suono maschio hardpunk’n roll per tutti. Ecco, ora mi viene quasi da ridere…smettiamola qua.
Giovanni Vernucci
YEAH YEAH YEAHS / Fever To Tell / Interscope
Dopo l’ep d’esordio accettato benissimo da più parti, eccoci all’atteso album di lunga durata del gruppo newyorkese (che non c’entra nulla con la New York di minimalismo storico, Velvet Underground, Suicide, Talkin heads, Television, CBGB, No wave, Ramones, Tzadik, Knitting Factory, Sonic youth, Beastie boys e Oneida). Il nome della band inquadra subito autoironicamente la casella dove il trio giovane vuole essere inquadrato. Sapete quel folto stuolo di band che recuperano ed aggiornano l’estetica e una parvenza di suono del rock (n roll?) un alone plastic garage, ed anche un po’ di rigurgito d’estetica punk intesa come recupero della centralità della voce, della tecnica strumentale non approcciata maniacalmente, band caratterizzate da una certa velocità ed elettricità delle chitarre, da una ritmica diretta e senza fronzoli, il ritrovato divertimento allegro della ballabilità congiunta ad ammiccamenti sessuali e sboccati, l’abbandono della celebralità e della freddezza emotiva, un recupero delle radici, insomma, quelle cose lì; in soldini il ritorno al pre dopo il post. Vabbè, farà parte della strategia mercantile, così come lo sfornare un ottimo (sotto molti punti di vista) ed intenso ep prima di presentare il CD. In effetti per far colpo, partendo da sconosciuti è meglio puntare tutto su pochi pezzi che creino un’ ottima voce in giro, il levarsi del tam tam fra i fans della prima ora; scommettere sulla confezione di poche canzoni che diano adito ad una decente ricezione critica, che mettano curiosità, che prendano in corsa il giusto treno del vincitore del momento. Tanto per preparare la strada senza bruciarsi subito con l’esordio lungo (ed io di sfruttare al meglio e in modi nuovi il formato ep lo vado dicendo da parecchio) . Che ricordiamo essere un biglietto da visita fondamentale nella storia , nella carriera d’un gruppo, un passo impegnativo dove a giocare sono mille varianti. E su tutti quello della novità . Quindi sì, l’ep era meglio. Da questo disco ci si aspettava di più, però. Però dovrebbe vendere bene ed essere bene accettato (coll’ascia), perché quello che dovevano fare l’hanno fatto bene, insomma il disco c’è ed ha, diciamo, un alone di compiutezza. La freschezza (e ora sto partendo per una tangente ben più generale) è tiepidina e un po’ di ‘sta roba scotta si apprezza giusto se è made in italy (che chiaramente arriviamo dopo) o giusto in Italy,e se poi a passarcela son gli inglesi allora anche meglio. Qui non è più questione di corsi e ricorsi o di improgressivamento, di smussamento del suono per essere più orecchiabile o cose così. Qui ad essersi improgressivito è nientemeno che il concetto e la prassi. E la cartina tornasole è che si è improgressivita la struttura del mercato. Che si sa essere divinità demiurgica e onnipotente. Altro che i soldi. Il dio è il mercato. I soldi sono solo schiavi. Figuriamoci la merce. Non parliamo poi di chi la fa questa merce. Non passiamo dal riso al pianto così di schianto. Non crediate però a sto (micro)punto adimensionale che vi dica che il rock è morto. Forse quello lì così come lo conoscevamo , che comunque funziona ancora. Le ristampe e l’ascolto dei classici funzionano sempre, tutt’ora, anche sui giovani che a quelle cose son nuovi, anche sui vecchi che a quelle cose son incalliti, abituati, assuefatti. Il rock è adesso nell’età matura. Si capisce da un sacco di cose. E l’anima non si improgressivisce. Può vendersi. Ma non si improgressivisce. E non muore. E se non vedete il presente dell’avvenire che ci state a fare a sto mondo?
Giovanni Vernucci
ZU / Live In Helsinki / Tang Plastik
Registrato al Semifinal di Helsinki il 2 maggio del 2002, questo disco live suggella un lungo tour europeo durato tre mesi. Dati statistici della serata annotati dagli Zu nel retro del digipack: 1234 spettatori paganti e 666 birre bevute. Scaletta: "The elusive character of victory", "Solar anus", "Testa di cane", "Asmodeo", "La grande madre delle bestie", "Erotomane", "Arbol de la esperanza mantente firme", "Eli, eli, elu", "Epidurale", "Untitled samba for kat ex", "Muro torto". 11 pezzi quindi — 5 estratti da "Bromio" e 6 da "Igneo" — e pochissime le pause: stacchi improvvisi, ripartenze furiose, le note del sax baritono scheggiate dal basso, le convulsioni della batteria… Vedere all’azione Massimo Pupillo, Lorenzo Mai e Jacopo Battaglia è altra cosa, ma "Live in Helsinki" diventerà sicuramente un gradito souvenir-ricordo per quanti seguono fedelmente il gruppo dal vivo e potrà rappresentare pure un buon antipasto per quanti invece fossero completamente a digiuno della musica degli Zu.
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De Dieux /\ SuccoAcido