Gor/Francesco Banchini & The Gitanos Of Pozzuoli, Her Self, Il Cane Celeste, Interpol, Jazzanova, Jelted Meat, Jenny Toomey, Leben, Mauro Repetto, Meshuggah, Neurosis, Noriko Tujiko, Otto’p’notri, Out Hud, Paper Chase, S.Talker Inc.
Gor/Francesco Banchini & The Gitanos Of Pozzuoli, Her Self, Il Cane Celeste, Interpol, Jazzanova, Jelted Meat, Jenny Toomey, Leben, Mauro Repetto, Meshuggah, Neurosis, Noriko Tujiko, Otto’p’notri, Out Hud, Paper Chase, S.Talker Inc.
GOR Francesco Banchini & the gitanos of Pozzuoli/Phlegraei/Prikosnovenie
Un altro capolavoro. Non ha più nulla da dimostrarci ma ancora moltissimo da mostrarci Francesco Banchini, percussionista degli Ataraxia, da tanto tempo gioia e gloria della penisola, bene, i GOR dopo due capolavori con il terzo entrano davvero nell’Olimpo del più raffinato dark (e poi non viene più da chiamarlo dark…) italiano, che comunque si pongono molto bene in Europa. Uscita per l’ormai sempre più clara etichetta di fate Prikosnovènie, Phlaegraei è un perfetto figlio del sound Priko- neo-folk e medievale onnipresenti, certo, come in Bellum Gnosticorum, unito ad un sapore italico, dal gusto romano, fine, solare, maestoso. Tutto l’album si erge alto verso il sole, il sapore è di gloria, e la tristezza che emerge è un’amara malinconia, che sa tanto di specie umana di specie umana di specie umana. Bellissima e forse la più orecchiabile Consolamentum, già inclusa nel sampler Prikosnovénie "L’Odysèe", Hymnarum Gnosticum, naturalmente Gnosticum, risuona la solita ossessione di quella guerra tra bene e male, è una sorta di saluto, di invocazione iniziale ed iniziatica, a mio avviso. Antrum Sibyllae è forse la più malinconica, la storia che narra è malinconica, e i colori per un attimo si fanno più scuri e limpidi per tornare poi subito al rosso all’arancio di questo disco del Sole (non solare, proprio del Sole…). Amo: Epiklesis in greco, la magistrale Transfiguratio e il coinvolgente ritualismo della bella Sulphuraraia. Ecco, è davvero musica ritualistica, se è questo quello che cercate, allora sì, 12 cerimonie, tutte per voi. Se non è questo quello che cercate, apprezzatene le percussioni, la polifonia, e tutto quello che hanno da dire e da insegnare Francesco Banchini e i suoi Gitani di Pozzuoli, con l’aiuto e l’ispirazione del più bel mondo che sia mai esistito e che ora, cari miei, non esiste più…
Miss Anita xXx
HERSELF/s/t/Autoprodotto
La "delicatezza" dei contenuti (INTENZIONI), una notevole qualità della scrittura (CAPACITA’) e l’eterogeneità stilistica (FORMA) delle proposte al suo interno (TRACCE), fanno di questo lavoro (SUPPORTO AUDIO) uno strabiliante esempio di come si possa creare in (e con) così poco tempo (11’e30’’) una sorta di "mini-rassegna" (QUATTRO TAPPE) del gusto musicale anglo-americano (e non solo) degli ultimi trent’anni. Creatura polimorfa ma paradossalmente "inesistente", HERSELF si muove su l’asse geografico/musicale che và da Chicago a New-York e ritorna in Europa,per stabilirsi a Tanworth-in-Arden (credo che in questo paesino vi abitasse un tizio di nome Nick Drake). L’assoluta noncuranza per il "genere unico" e la curiosità tipica di chi non vuole dimostrare niente a nessuno, conducono il "nostro" Joele Valenti (che suona e registra tutto ‘in proprio’ con un quattro piste) alla formulazione di piccole equazioni (post?) rock dal sapore molto intimista; la varietà di umori che pervade l’intero lavoro rende il suo ascolto ancora più avvincente e (ovviamente) gravido di piacevoli sorprese, che possono manifestarsi sotto forma di "gustose" Tortoise-rie (FIRST SELF SONG), nonché come rumori "alieni" e voci magistralmente manipolate (Wow !-traccia 3), oppure possono accarezzarti i timpani (e il cuore) con la malinconia acustica di SECOND SELF SONG (maturo esempio di scrittura ed interpretazione - bellissima!), per poi scaturire,alla fine, nel turbinio di chitarre (e voci) distorte e drum-machine che rende l’ultima traccia (THIRD SELF SONG) un riuscitissimo connubio tra Television e Suicide. Una cura particolare è riservata all’aspetto qualitativo del "risultato" audio; infatti,malgrado le attrezzature usate per la registrazione non siano delle più ricercate,la qualità sonora è da considerarsi (secondo me) al pari di quella di alcune fra le (eccessivamente blasonate?) migliori produzioni indipendenti d’oltreoceano. L’appuntamento, immancabile per Joele, è ora quello sulla lunga distanza (autoprodotta o meno). Delusione ? Non credo proprio………..anzi.
Nicola Giunta
IL CANE CELESTE/s/t/Autoprodotto
In preda ad una tempesta ormonale di creatività, la ghenga dei Comfort, già incontrata un paio di numeri orsono, si ripresenta con un nuovo cdr autoprodotto di musica improvvisata in studio intitolato "il cane celeste" (da una citazione cioraniana). Abbiamo così modo di osservare la perizia strumentale (ed estetica) di alcuni membri dei Comfort, slegata però dalle complesse geometrie compositive comfortiane (???). L'iniziale "ce qui ne peut parler" è addirittura entusiasmante, e direi meglio di qualsiasi cosa dei Comfort da me ascoltata, un "ambientale" che mi fa venire in mente le atmosfere della Francia che contava a metà anni '90 (Prohibition, Ulan Bator, Deity Guns). La seguente "l'arche" ribadisce l'amore incondizionato che i nostri nutrono per i Tortoise (potrebbe far tranquillamente parte di un TNT), mentre sono evitabili i quattro episodi di "ensemble du rien", dove mi sembra che si superi talvolta il limite tra improvvisazione e strumenti suonati a caso. Da segnalare anche il bel postrock di "le temps": già sentito, ma visto che ci era piaciuto perché non risentirlo? Insomma per essere una cosetta estemporanea non è proprio niente male. Naturalmente va ordinato per posta scrivendo a ilcaneceleste@mail.com
ONQ
THE WALKMEN/Everyone who pretended to like me is gone/Talitres
INTERPOL/Turn on the bright lights/Labels
Proprio in corrispondenza del momento più triste della sua storia – l’attacco dell’11 settembre alle torri gemelle – New York sembra vivere il suo rinascimento rock. Non so quanto questo fenomeno rifletta realmente la vitalità di una scena locale e quanto invece sia semplicemente alimentato dai media un po’ come capitò ai tempi del grunge, quando venivano mescolati nello stesso calderone definitorio gruppi tra loro molto diversi e quando per sfruttare l’improvvisa attenzione nei confronti di tutto ciò che proveniva da Seattle e dintorni i gruppi sorgevano lì come funghi ed i giornalisti urlavano in continuazione al miracolo discografico annunciando ogni mese i nuovi Pearl Jam o gli eredi dei Soundgarden per poi constatare, a distanza di soli sette/otto anni, che alla fine i gruppi di quella scena che hanno lasciato davvero un segno si contano sulle dita di una mano. E riguardo al cosiddetto grunge, a fare le spese di tanta cieca enfasi giornalistica sono stati gruppi che adesso riposano purtroppo nel completo oblio e che già all’epoca furono per qualche oscuro motivo colpevolmente ignorati pur essendo radicati a Seattle da anni e pur avendo realizzato dischi a dir poco ottimi (sarei curioso di sapere quanti, tra coloro che possiedono tutta la discografia di Alice In Chains e Nirvana, si ritrovano in casa almeno un disco dei Tad). Premesso tutto questo non può comunque essere ignorato il fatto che qualcosa di più o meno importante stia effettivamente succedendo dalle parti di New York, visto che nell’ultimo anno e mezzo si sono fatti un po’ ovunque i nomi di bands provenienti dalla Grande Mela quali Moldy Peaches, Liars, Interpol, The Walkmen, con i campioncini The Strokes a tirare ciclisticamente la volata a tutto il gruppo. SuccoAcido ha già detto la sua sugli Strokes (SuccoAcido n. 5), sui Moldy Peaches (SuccoAcido n. 4) e sui Liars (SuccoAcido n. 12) e quindi vado adesso ad occuparmi delle altre due bands che ho nominato. I Walkmen sono un quintetto costituito per tre/quinti da ex membri dei Jonathan Fire*Eater, le cui influenze musicali vanno ricercate, secondo le note di accompagnamento presentate dall’etichetta, in Bruce Springsteen (dove?), negli Smiths (perché?), nei Cure (cosa?!) e in Björk (eh!?!). A me in realtà questi Walkmen fanno venire alla mente solo una versione svogliata degli Swell: in particolare il cantante Walter Martin sembra proprio un David Friel sguaiatamente scazzato o, nel peggiore dei casi, sembra un Bono pesantemente ubriaco (sì Bono degli U2! Ascoltate "French vacation"). Alcuni buoni episodi ("Wake up", la title-track, "That’s the punch line") non valgono da soli a risollevare le sorti di un disco che procede piuttosto stancamente. Discorso diverso per gli Interpol, i quali per la verità partono già avvantaggiati visto l’imponente battage promozionale che ha accompagnato l’uscita di "Turn on the bright lights". Gli Interpol dimostrano comunque di avere già buona personalità e di essere sufficientemente smaliziati per sapersela cavare in modo egregio con le proprie gambe: ecco quindi la dedica a New York rappresentata dall’elegia decadente di "NYC" (che in ogni caso pare fosse stata scritta prima dell’11 settembre…) ed ecco l’occhieggiare furbesco dalle parti degli Strokes in "Say hello to the angels". Ma la vera natura degli Interpol emerge quando i quattro, muovendosi tra i Television e la new wave inglese, vanno a stendere un manto nero su canzoni dotate di straordinaria incisività emotiva: "Untitled", "PDA", "Obstacle 2", Roland" e soprattutto "Stella was a diver and she was always down" sono pezzi che lasciano decisamente il segno! Mi resta addosso un dubbio irrisolto: gli Interpol sono la versione dark degli Strokes o la versione rock’n’roll dei Joy Division? E mentre alla fioca luce di una candela cullo il mio spirito più romantico con l’ascolto della ballata "Leif Erikson", si affaccia nel mio cervellino un’altra inquietante domanda: per ogni Interpol finito sulla copertina di qualche rivista musicale e per ogni The Walkmen recensito, quanti "Tad" stanno continuando a suonare nella semioscurità delle cantine newyorchesi?
Guido Gambacorta
JAZZANOVA/In between/JCR
Aprendo la splendida custodia del cd dei Jazzanova (da "sfogliare" come quei piccoli libri di favole per bambini con le pagine di cartone) ed arrivando al cuore di questo attesissimo disco di debutto, proprio lì dove c’è la scritta "In between", scopriamo un collettivo di djs berlinesi che ha dimestichezza tanto con il verbo breakbeat inglese ("The one-tet", "Mwela, Mwela") quanto con il jazz americano degli anni ’50 e ’60 ("L.o.v.e. and you & I", "Hanazono"). Gli strumentali "Another new day" e "Glow and glare" non corrono il rischio di essere semplice tappezzeria sonora per qualche club alla moda grazie a preziose ricercatezze ritmiche; Doug Hammond in "Dance the dance" lascia che la sua voce venga sfiorata da una miriade di coriandoli arancioni, mentre la poetessa Ursula Rucker (inconfondibile il suo stile recitativo in "Keep falling") e l’astro emergente Vikter Duplaix (chiamato di recente a firmare un volume della serie Dj Kicks e qui al microfono in "Soon" e "Wasted time") sono i due prestigiosi ospiti invitati dai Jazzanova a rappresentare la nuova scena soul di Philadelphia. Mettendo a frutto la loro esperienza di remixers, i Jazzanova prendono i suoni del presente e del passato ("Takes you back" ad esempio è solo l’ultima evoluzione dell’acid jazz) e tramite un minuzioso lavoro di sartoria tecnologica li vestono con l’abito nuovo dei giorni di festa.
Guido Gambacorta
JELTED MEAT/4 hole/autoproduzione
Nell’attesa che il dibattito sul conflitto d’interessi giunga ad una qualche conclusione continuo allegramente ed impunemente a recensire materiale di parenti, amici e semplici conoscenti. Quanto è influenzabile il mio giudizio in questi casi? Per rispondervi francamente debbo citare un onorevole deputato e compagno di merende del nostro premier: "In fin dei conti, sono cazzi miei". Passando dal faceto al serio quest’esordio degli abruzzesi Jelted Meat, realizzato sotto il caldo sole d’Agosto, presenta parecchi spunti interessanti e qualche inevitabile pecca, ma colpisce innanzi tutto per la netta impronta anglosassone impressa (si spera volontariamente) in fase d’incisione e mixaggio: buoni impasti melodici e poco spazio ai divismi ed ai virtuosismi dei singoli. Siamo sicuramente di fronte ad un album rock nell’anima e nella sostanza, musica che nasce da buoni ascolti e riproduce (più o meno volontariamente non è dato sapere) alcuni passaggi classici dei generi cui fa riferimento. "4 Hole", con la sua "desert intro" forse un po’ troppo diluita, lascia un retrogusto slintiano davvero gradevole, con le continue alternanze di ritmo ed un cantato quasi sussurrato che presto si trasforma in rabbiosa rivendicazione. Lo struggente ritornello di "Alex" deve secondo me molto al compianto Lain Stanley ed ai fantastici Alice in Chains, ed è di quelli che, dopo un paio d’ascolti, ti ritrovi a canticchiare senza quasi accorgertene: massima orecchiabilità ed ottimo impatto emotivo. "Places", con le sue ritmiche compatte e gli arpeggi di chitarra pronti ad aprirsi in riffs distorti, ricrea ambientazioni sonore ancora care alla Seattle dei primi anni novanta ed è forse il pezzo più equilibrato a livello di struttura compositiva, tanto da potersi permettere la fugace apparizione di una tastiera d’accompagnamento. "Blue" e "Hatred", pezzo di chiusura, riconciliano l’ascoltatore con sonorità più hard, basso chitarra e batteria monolitici, riffs pesanti ed essenziali alternati a classiche accelerazioni in sedicesimi, ed un supporto vocale finalmente incazzato: un vero e proprio stacco rispetto ai pezzi precedenti. Intuire da questo lavoro qual’è l’esatta direzione compositiva verso cui i Jelted Meat si stanno orientando non è cosa facile, ma se riuscissero a fondere le due anime che maggiormente sembrano averli ispirati, vale a dire il "vecchio" grunge rock ed il più recente cross over /nu metal, il risultato sarebbe indubbiamente interessante e, forse, ci troveremmo di fronte ad una (rara) rock-band emergente italiana da esportazione. Info: info@jeltedmeat.com
Roberto Baldi
JENNY TOOMEY/Temping/Sings The Songs Of Franklin Bruno/Misra
BETH GIBBONS & RUSTIN MAN/Out Of Season/Go Beat
Jenny Toomey è al suo secondo album solista, anche se definire questo "Temping" come album solista mi sa di riduttivo. Ad accompagnare l’ex Tsunami in questa seconda prova ci sono nomi come i Calexico Joey Burns e John Convertino, e soprattutto in veste d’autore (e musicista aggiunto) ritroviamo Frank Bruno (ex Nothing Painted Blue?) nei panni di sopraffino songwriter, in poche parole Jenny fa da interprete per le canzoni di Frank, e quello che ne viene fuori è un’elegantissima miscela di pop jazzato, memore tanto della lezione dei Cafè Bleu Stile Council-iani come degli Eden ipotizzati dagli Everything But The Girl. La componente Calexico è presente solo nell’iniziale calypso di "Your inarticolate Boyfriend", per il resto Jenny si traveste da Tracey Thorn ed anella una serie di raffinate pop song ("Unionbusting"), slow blues da manuale ("Cheat", con una lacerante armonica suonata dal collaboratore dei Calexico Craig Schumacher), e torch song anni ’40 (in "Tempting" e "Let’s Stay In" sembra come una Julie Garland intenta a canticchiare un motivetto di Dean Martin), un po’ di Chet Baker ("Pointless Triangle"), e tanto altro ancora. Il periodo di revival in atto di questi tempi consentirà a Temping di destare più che una sorpresa.
Altra chanteuse di gran classe è Beth Gibbons, che nel suo debutto da solista si fa aiutare dall’ex Talk Talk Paul Webb (che forse avrà visto qualcosa del "suo" Hollis in Beth). Anche per la voce dei Portishead si parla di "tradizione rivisitata", da sempre appassionata di jazz e di Nina Simone Beth ci regala dieci episodi dal sapore Jazzato ("Romance"), gospel dolcemente tinti di noir ("Tom The Model") e ballate acustiche in odor di Drake ("Resolve"), con un omaggio dichiarato a Drake stesso nella canzone intitolata proprio come l’indimenticato folletto di Tanworth In Arden ("Drake"), per il resto ci pensa come sempre la sua voce, sospesa tra lo straniante e l’intimo e capace di mettere a proprio agio come poche. Nell’attesa del nuovo album dei Portishead i fans si possono rifugiare "fuori stagione".
Gianni Avella
LEBEN/0#/Autoprodotto
Capita raramente di ascoltare un cd-r suonato e registrato cosi bene come questo dei bolognesi Leben, progetto facente capo a Claudio (chitarra, voce) e Paola (basso, chitarra, armonica), con l’aiuto di Adriano (batteria, vibrafono, arrangiamenti), ed Elena e Lana Dojcinovski (piano). Quattro canzoni di onesto e pulito post rock dove l’ombra lunga dei Tortoise (la più bella del lotto "3 A. M. Confession", dove chitarre, vibrafono e batteria s’intrecciano alla grande) si sposa con gli ultimi Joan Of Arc (il retrogusto malinconico di "Molly Has Been Cured"). A chiudere il cd c’è il reprise in veste acustica di "3 A. M. Confession" nella versione Summer Take. Considerando che l’unica cosa poco convincente (per me) è il cambio nella parte centrale di "Packed Under A Garden Seat We Gently Wait For Silente" (lo trovo un pochino stridente) il giudizio finale sui Leben non può che essere ottimo. Info:lebenband@hotmail.com
Gianni Avella
MAURO REPETTO/Zucchero Filato Nero
I lettori più avveduti si chiederanno: perché una recensione di un disco già uscito da un bel po'‚ e da un bel po'‚ finito nei cassettoni di plastica delle occasioni a prezzo stracciato negli ipermercati? La risposta è semplice, ci sono delle volte in cui un uomo sente il dovere morale impellente di mettere una pezza alle altrui malefatte, così come Nanni Moretti si vergogna di vivere in un paese guidato da un lestofante io mi vergogno di vivere in un paese che ha dimenticato, sfottuto, deriso in maniera snob e superficiale un disco come questo. Lo dico subito: raramente negli ultimi anni un disco mi aveva emozionato come questo "zucchero filato nero". Repetto nella memoria di noi trentenni del cazzo è semplicemente il biondino che si dimenava metronomico dietro alle spalle dell’esordiente Max Pezzali/883. Poi un giorno un amico attento ti masterizza il suo cd d’esordio solista e tu capisci subito di trovarti davanti ad una piccola, preziosa perla. E’ facile per me pensare a Truffaut, al suo continuo, disperato tentativo di raccontarsi, mistificarsi, nascondersi, esaltarsi attraverso il suo cinema, con malinconia e pudore. Si possono scrivere canzoni per provocare, punire, spingere alla rivolta ma raramente succede di imbattersi in un così commovente tentativo di mettersi autenticamente a nudo. Repetto avrebbe potuto facilmente scimmiottare Pezzali ed invece inanella una sequenza di 12 canzoni confuse, allucinate, che girano come vortici intorno alle proprie ossessioni, forse nella speranza di esorcizzarle o semplicemente di comunicarle. Figa, frustrazione, scazzo giovanile, genuine turbe psichiche. Chi avrà la bontà di procurarsi questo disco avrà l’occasione di commuoversi davanti alla dolcezza di Brandi’s Smile, una sorta di felliniano 8 e mezzo: un’occasione fallita, un film mai girato, un uomo inghiottito dalla sua avventura americana, un corpo sognato e mai stretto. Il mio attento amico mi aveva parlato di una versione barrettiana degli 883 e cazzo se aveva ragione! Ascoltate "Un grande si" o "Voglia di cosce e di sigarette", inni sbagliati, sbilenchi, ubriachi, un uomo solo con la sua chitarra incerta e ancora ossessioni: figa, figa, figa, corpi che sfuggono, amarezza, assoluta mancanza di misura e senso del pudore. Mauro Repetto è definitivamente l’uomo nero, una macchia di unto impossibile da lavare nella storia della discografia italiana degli anni 90. Un corpo troppo fragile per reggere il peso del successo. E’ come se i miti della gioventù, le troppe musiche digerite esplodessero e si disponessero su un tavolo: un cavolo di puzzle con un pezzo in meno. Nessuna ironia su questo disco, ti viene da ridere ma ti passa subito la voglia: Cronenberg al cinema, Mauro Repetto nello stereo di casa.
Fanfarello
MESHUGGAH/Nothing/Nuclear Blast
Non ho parole, riescono ancora a stupirmi gli svedesi Meshuggah, il loro ritorno a quattro anni dal grandioso caosphere stupisce per originalità ed evoluzione nel sound. La copertina simboleggia il viaggio musicale di questa band nei meandri della follia umana: s’intuisce un metallico viso giallo, distorto e urlante: la distorsione continua ai lati del soggetto disgregandosi all’infinito verso l’oscurità, la disgregazione dell’io, il nulla più assoluto, come citato nello stesso titolo dell’album… Il suono del cd non ha tempo ne spazio, mi viene da paragonarlo a "Trout mask replica" dei mitici Captain Beefheart per la sua capacità di creare un buco nero che risucchia qualunque schema compositivo musicale conosciuto fino ad ora, un sound decisamente personale, mai superato fin’ora in originalità. Attivi sin dalla fine degli anni 80’, han saputo ritagliarsi una nicchia nel panorama metal, anche se purtroppo risultano essere una delle band più sottovalutate del pianeta… Il nuovo disco prosegue i precedenti lavori evolvendo ulteriormente il suono generale della band, affinando ancor di più la resa sonora fra ritmiche e voce nei particolari. Le song si accavallano l’una sull’altra, nervosamente, in un connubio di trash-metal ultra-evoluto, difficilissimi tempi dispari di batteria, voce acida e lacerante portatrice di un disagio incontenibile, riff di chitarre a 7 corde ultra-heavy e condite dai classici assoli in stile semi-fusion. Un disco che risulta avanti nei tempi per evoluzione storico-musicale di almeno 5-10 anni, un po’ come era già successo ai loro precedenti albums…un ciclo che continua da più di 12 anni; per certi versi si può addirittura definire un disco dalle forti influenze jazz e fusion! Si parte con il brano "STENGAH", i primi 15 secondi appartengono ad un solitario basso distorto, talmente saturato da sembrare scricchiolante, ed è questa la novità principale del MESHUGGAH-sound, un basso potente in evidenza con il resto della musica, che riesce a conferire ancora più potenza all’insieme. "RATIONAL GAZE" è (si fa per dire!) il nuovo singolo, che tesse con chitarre dilatate nuovi paesaggi sonori malati: isolazionismo e alienazione. La voce usata come uno strumento, viene vomitata facendo attenzione ai tempi dispari, ritagliandosi uno spazio fra le ritmiche delle due chitarre del basso. "GLINTS COLLIDE" è forse l’apice nella follia ritmica dei MESHUGGAH, un allucinante teatrino di note schizofreniche tra ritmiche sincopate e deliranti assoli di chitarra fusion. La traccia "SPASM", raggiunge livelli d’interpretazione vocale eccezionali: la voce febbrile, sussurrata e roca, vomita mentre una potente performance di batteria e chitarra stravolge la forma canzone. Chiude "Obsidian", un insolito brano strumentale, presagio di un imminente armaggedon della follia umana.
Parlare dei Neurosis per me equivale sempre a parlare di nuovi capolavori artistico-musicali: loro sono forse il più grande gruppo di questi ultimi anni, padrini assoluti del cosiddetto post-core o noise-core new school che comincia ad imperare in questi anni, inimitabili e copiati all’infinito, rimangono sempre i migliori. Partiti nella metà degli anni 80’ con un sound vicino all’hardcore metal che cominciava a svilupparsi in quegli anni, hanno saputo evolvere un sound influenzato da tantissime correnti musicali, in primis contengono nel loro D.N.A. i semi degli Swans più apocalittici, quella lentezza e quell’oscurità industriale tanto cara al gruppo New Yorkese di Michael Gira, i brutali screaming fra death metal e black metal, e il folk più crepuscolare dei cantautore americani. Questo bootleg, registrato in Francia nel 99’, (il primo speriamo una lunga serie), ci offre la violenza nichilista rallentata e ipnotica della band in tutta la sua apocalisse sonora, famosi per avere dal vivo una resa ancora maggiore che su disco ufficiale, grazie anche alle bellissime proiezioni video sul palco, (peccato non poterle vedere in questo cd); il cd si dipana attraverso le songs d’album come "Times of grace" e "Sovereign", con una puntata indietro di qualche anno con il brano "lost" tratto se non sbaglio dal disco ENEMY OF THE SUN. Posso confermare dopo che li vidi dal vivo a Milano, che mai un gruppo mi colpì violentemente come loro, si trattò del più bel concerto che abbia mai visto, e sembrò di assistere alla celebrazione dell’apocalisse di San Giovanni, più che un concerto, un rito; tutto questo a fine serata mi lasciò completamente svuotato da qualsiasi emozione, disperso fra le nebbie della città, provare per credere.
Andrea Giuliani
NORIKO TUJIKO/Make Me Hard/Mego
Se Takeshi Kitano si dichiara nostalgico del tempo dei samurai, cercando di rendere evidente nei suoi film il contrasto fra antichi valori e nuovi costumi di vita giapponesi, Noriko TujiKo può essere considerata la sua degna alter ego femminile in campo musicale. Immaginate una geisha che scopre l’uso di sinth e campionatori, le meraviglie della reiterazione cibernetica, la possibilità di riprodurre la schematicità degli antichi riti attraverso pattern ritmici costanti e regolari. Si sfiora lo stato ipnotico lasciandosi completamente trasportare e cullare dalla musicalità dell’idioma nipponico e dalle melodie oniriche, dal sapore molto cinematografico, che lo accompagnano: giardini con stagni e fiori di loto, piccole dimore di legno, il sakè tiepido sul tavolo, una bambina intenta nel ritagliare origami. Spesso suoni e voci multiple si sovrappongono in un caleidoscopio acustico: dalla pianola, alla drum machine, fino al vibrafono, qualsiasi strumento può entrare a far parte del gioco, senza che la voce narrante smetta di recitare il suo copione. Sembra quasi esistere un filo conduttore fra le tracce, forse un’antica favola giapponese. Nuriko è una elettro poetessa della quale, purtroppo, non siamo in grado di tradurre i testi ma che ci permette di colmare questo gap lessicale e culturale attraverso la creazione di scenari acustici che rendono immediata per il cervello, la creazione di immagini da associarvi.
Roberto Baldi
OTTO’P’NOTRI/Senza pelle/Stoutmusic
Gli Otto’P’Notri sono al secondo album in studio, prodotto e manipolato assieme a Massimo Fantoni, dall’infaticabile Paolo Benvegnù, (ex Scisma), che ha messo anche del suo in questo "Senza pelle". Il disco si presenta come un rock cantautorale italiano, vagamente influenzato da brevi effetti d’elettronica nei punti giusti. E’ un album suggestivo, a tratti struggente, ricco di emozioni che arrivano dritte al cuore, la prima traccia "Secondo la legge del caso", risulta il brano migliore: vagamente influenzata dai primi Bluvertigo, un’eccezionale ballata rock, che riesce ad esprimere grande un’epicità e forti emozioni. Particolare il risultato ottenuto dalla song ""Calma apparente", una canzone che parla dell’alienazione dell’uomo nei confronti dell’impossibilità di essere veramente liberi, il brano si muove tra attimi di rumore e momenti di malinconico rock cantautorale; difatti la malinconia e la voglia di essere e dire, è un leit motiv che percorre tutto il disco. E così il tutto si sussegue fino all’ultima traccia, drammatiche ballad, e una ricerca sperimentale nella canzone italiana d’autore, fatta di anni di sacrifici ed esplorazioni musicali, sperimentazioni sonore e di ricerca poetica per ottenere il massimo risultato nel rock italiano.
Andrea Giuliani
OUT HUD/S.T.R.E.E.T. D.A.D./Kranky
Ecco un altro disco inzuppato negli anni ottanta più di un cornetto nel caffellatte. Quanta musica abbiamo sentito, in questi ultimi tempi, che ha pagato pegno a quel controverso decennio? Cito – alla rinfusa – l’immersione post-punk dei Liars, il grazie ai Joy Division degli Interpol e la catarsi supertrash dei Trans AM. E c’è da preoccuparsi se poi proprio queste sono state tra le cose più eccitanti dell’anno? L’ennesimo capitolo arriva dalla Kranky, che fin qui ci aveva abituato a suoni assai meditativi e invece questi 38 minuti sono tutti danzerecci. Out Hud è il nome della band di stanza a Brooklyn, formata da Nic Offer (basso), Phyllis Forbes (batteria e tastiere), Tyler Pope (chitarra e tastiere), Molly Schnick (violoncello) e Justin Vandervoigen (mix). "S.T.R.E.E.T. D.A.D." è l’esordio sulla lunga distanza, dopo una manciata di singoli e la partecipazione a una compilazione. Che dire? Il primo impatto, poi confermato dai successivi ascolti, ci consegna un lavoro riuscito, divertente, a tratti esaltante, ma non c’è un suono di questi sei brani strumentali che non sembri ripescato dal lato B di un qualsiasi dodici pollici di una band indie dell’Inghilterra di metà eighties, quando i remix più ganzi li faceva Adrian Sherwood. Il dato saliente è il continuo battibecco tra una chitarra e un basso funky con sintetizzatori d’annata, il tutto sostenuto da un drumming decisamente energetico e impreziosito da un mucchio di trucchetti sapientemente dosati che danno una gran varietà all’intero impianto sonoro. Ci sono dentro reminiscenze di Gang Of Four e Pop Group (quante volte ho citato questi due gruppi nelle ultime recensioni che ho fatto?!), un po’ di "Rock It", un po’ di Sheffield, persino echi di acid house. Pezzi migliori? Forse la lunga e strutturata "The L Train Is A Swell Train…" e la conclusiva "My Two Nads", che, con esiti vittoriosi, sfida chiunque a restare seduto.
Guido Siliotto
PAPER CHASE/Hide the kitchen knives/Southern
I Paper Chase sono il frutto di un corto circuito, il prodotto di un accavallamento di dimensioni spazio-temporali. Un "Prometeo moderno" composto da elementi dissepolti da trenta e più anni di musica pop: glam, new wave, post-punk, heavy metal… Il loro ultimo album è incontenibile, fuori da ogni catalogazione pur nella facile identificazione dei rimandi e delle fonti da cui hanno tratto linfa, schizzato e strabordante, stracarico di tutto. Orror vacui tradotto in note, praticamente. La voce di John Congleton è quella di un Robert Smith malato di mente o di un Roger Waters isterico o, meglio ancora, di tutti e due. E’ la sua voce a condurre nervosamente l’intero lavoro, al punto che spesso gli strumenti sembrano correrle dietro, adattandosi alle sue brusche impennate e ai suoi improvvisi bisbigli. I did a terrible thing, è il Bowie polvere di stelle che flirta con i Fugazi e il rock matematico. A nice family dinner… si regge su un andamento che rimanda addirittura agli Slayer. Le voci da speaker Cbs dei brevi e cacofonici intermezzi, sembrano quelli di un qualsiasi disco dei Public Enemy, mentre su tutto si allunga l’ombra di un glam rock deviato, tra Roxy Music e Rocky Horror Picture show (ma suonato dai June of ’44). Totalmente sopra le righe, a suo modo geniale. A suo modo un piccolo capolavoro.
Alessio Bosco
S.TALKER INC./Subminimal/Autoprodotto
Il trio romano che si ispira a Tarkovskij presenta cinque pezzi piuttosto omogenei di elettronica minimale, ma anche subliminale, come suggerisce sapientemente il gioco di parole del titolo… Si tratta infatti di ambientazioni fredde ma non glaciali, come se ci fosse una sottile aspirazione alla melodia in questi brani in apparenza lievi. A un certo punto sembra avvicinarsi al trip-hop (in"Waco", grazie a un sample d’archi) ma è solo uno sfiorarsi, senza afferrare mai. Una buona prova, sebbene sarebbe curioso ascoltarli sulla lunga distanza. E-mail: s_talker_inc@hotmail.com
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De Dieux /\ SuccoAcido