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Music - CD Reviews - Review | by SuccoAcido in Music - CD Reviews on 01/01/2003 - Comments (0)
 
 
 
Altro, Antipop Consortium, Beth Gibbons & Rustin Man, Blueprint, Byrne, Cftpa, Dälek, Death In Vegas, Deep End, Dj Shadow, Dominion Iii, Doves, Drexciya, Elle, Experimental Fragments, Gamila, Gaston, Gd Luxxe, Giddy Motors, Godspeed You! Black Emperor.

Altro, Antipop Consortium, Beth Gibbons & Rustin Man, Blueprint, Byrne, Cftpa, Dälek, Death In Vegas, Deep End, Dj Shadow, Dominion Iii, Doves, Drexciya, Elle, Experimental Fragments, Gamila, Gaston, Gd Luxxe, Giddy Motors, Godspeed You! Black Emperor.

 
 

ALTRO/Candore/Love Boat

Dal Piemonte, la Love Boat pubblica l'esordio degli Altro, band di indie-emo fugaziano capace di elevare il contagio di melodie malinconiche con rabbia inattesa. Voce pulita carica di urgenza espressiva, brani corti, storti, semplici e con una produzione scarna che non rende per niente l'impatto del gruppo. "Candore" non é un cd malvagio, riesce a catturare davvero ben poche volte ma quando ci riesce é contagioso ('documento1', 'ripresa', 'basta').Ai pezzi servono un paio di giri essenziali per farsi interessanti... ma purtroppo nulla più. Il resto scivola senza grandi entusiasmi dando l'impressione di una proposta riduttiva. Manca insomma la vera sostanza che permetta agli Altro di distinguersi tra la folla. Odio dire 'carini' di un gruppo, ma tant'é.

Francesco Imperato

ANTIPOP CONSORTIUM/Arithmia/Warp

Ciò che i Wilco fanno col folkrock gli Antipop consortium lo fanno con l’hip hop. Integrano elementi d’elettronica a livello strutturale, introducono un ulteriore rivolgimento in un genere che negli ultimi due anni è stato letteralmente stravolto. L’intro del disco ci dice: siamo a livello Newyorchese. Poi fra percussioni di sottofondo, ritmi senza centro e un riff ammaliante che sveglia e mette in guardia, vola via il primo pezzo: "Sincronicità: puoi colpire ciò che vedi". Adesso è una pallina da ping pong che rimbalza e rimbalza tra sbuffi di bolle blobbanti. Pare di sentire tra il rapping: "Is the return" , che ripetuto appare come "History turn". Molto affascinante come percezione. Poi c’è qualcosa di impazzito che rimbalza e non è più la pallina da ping pong ma una scheggia elettronica smussata il giusto. Pare un cursore animato e impazzito. Il verso di un piccolo cyberoditore mutante emerso dalle fogne della metropoli. Pare si sentano diversi "dead emotion". La quinta traccia si prepara sorniona, messa in moto, poi esplode nervosa e qualcuno sgomma e/o frena. Intermezzo vocale da teatro dell’opera mediorientale a rallentare. pplausi. Ripresa nervosa e incalzante. Barriti di pachidermi e voci dallo Z.C.L. arriva un siparietto grassamente simpatico, rapping d’alto livello, base essenziale, particele di suono improbabili svolazzano in sottofondo, grilli, refrain, svarioni vocali come se scaldarsi la voce sia un virtuosismo di sket. Cenni spaziali. Si riparte per pochi secondi di quelli che illuminano un futuro pronto a svanire in un niente, se arrivasse di seguito qualcosa come un continuo saremmo all’esaltazione. Ancora ritmi e scansioni nervose. Suoni sintetici propulsivi. Spunta sotto anche una cassa veloce tecnoide. Rapping corale che è un piacere, sapete quando la voce si sostituisce o si potrebbe sostituire tranquillamente alla musicalità della musica. Qualcuno compone un numero su una tastiera. Traccia nona: secchi risucchi digitali di sfondo, rapping virtuoso. Ritmo base ridotto allo schiocco di dita. Bassi digitali pieni. Riparte un altro pezzo, rapping nudo. Poi subentrano convulsi bassi striscianti. Alchimie ritmiche trasmutano la classica scansione ritmica dell’hip hop. Cani abbaiano rabbiosi. Continua il disco, troppo immerso e troppo fatto di ritmi impazziti e di suoni sintetici domati. Disorientante. Come abbandonarsi ad una girandola dove al posto delle frequenze dei colori ci sono le frazioni dei ritmi. Altro siparietto simpatico ambientato in studio radiofonico tra un dj e un figurante cibernetico. Anti pop consortium. "APC : all people channel". E riprendono a parlare, a raccontare storie d’ambientazione urbana, e ad imbastire una melodia per un breve refrain: "get your mind together /time is not for ever". Poi secondi di caos. La traccia finale sfila col passo di un classico.

Giovanni Vernucci

JENNY TOOMEY/Temping/Sings The Songs Of Franklin Bruno/Misra

BETH GIBBONS & RUSTIN MAN/Out Of Season/Go Beat

Jenny Toomey è al suo secondo album solista, anche se definire questo "Temping" come album solista mi sa di riduttivo. Ad accompagnare l’ex Tsunami in questa seconda prova ci sono nomi come i Calexico Joey Burns e John Convertino, e soprattutto in veste d’autore (e musicista aggiunto) ritroviamo Frank Bruno (ex Nothing Painted Blue?) nei panni di sopraffino songwriter, in poche parole Jenny fa da interprete per le canzoni di Frank, e quello che ne viene fuori è un’elegantissima miscela di pop jazzato, memore tanto della lezione dei Cafè Bleu Stile Council-iani come degli Eden ipotizzati dagli Everything But The Girl. La componente Calexico è presente solo nell’iniziale calypso di "Your inarticolate Boyfriend", per il resto Jenny si traveste da Tracey Thorn ed anella una serie di raffinate pop song ("Unionbusting"), slow blues da manuale ("Cheat", con una lacerante armonica suonata dal collaboratore dei Calexico Craig Schumacher), e torch song anni ’40 (in "Tempting" e "Let’s Stay In" sembra come una Julie Garland intenta a canticchiare un motivetto di Dean Martin), un po’ di Chet Baker ("Pointless Triangle"), e tanto altro ancora. Il periodo di revival in atto di questi tempi consentirà a Temping di destare più che una sorpresa.

Altra chanteuse di gran classe è Beth Gibbons, che nel suo debutto da solista si fa aiutare dall’ex Talk Talk Paul Webb (che forse avrà visto qualcosa del "suo" Hollis in Beth). Anche per la voce dei Portishead si parla di "tradizione rivisitata", da sempre appassionata di jazz e di Nina Simone Beth ci regala dieci episodi dal sapore Jazzato ("Romance"), gospel dolcemente tinti di noir ("Tom The Model") e ballate acustiche in odor di Drake ("Resolve"), con un omaggio dichiarato a Drake stesso nella canzone intitolata proprio come l’indimenticato folletto di Tanworth In Arden ("Drake"), per il resto ci pensa come sempre la sua voce, sospesa tra lo straniante e l’intimo e capace di mettere a proprio agio come poche. Nell’attesa del nuovo album dei Portishead i fans si possono rifugiare "fuori stagione".

Gianni Avella

BYRNE/Slowly and Gloriously/Rocketgirl

Il rock è la Fenice. E' Prometeo divorato all'infinito. E' Cristo, e che lo si voglia in croce. E spesso ha lo stesso significato ormonale di una sega. Ogni tanto si ricicla con stile. Questo è il caso dei Byrne. Vengo colpito dalla levità e freschezza di materiali che in mano ad altri epigoni di varia estrazione diverrebbe paccottiglia Blockbusteriana... Attenzione, gli elementi di derivazionismo ci sono tutti, però ben denunciati... ed ecco quindi sfilare i Primal Scream di Vanishing Point, i Radiohead di OK Computer, Beatlesiane bucoliche ballads, Bluriane cadute di stile e sapidi inglesismi, alla Belle And Sebastian, di quelli che ti fanno innamorare. Però scorre bene, è ben suonato e interpretato con credibilità, che è l'unico attributo, congiunto a cenni di personalità, che mi sento di chiedere al genere. In fondo sapere rifunzionalizzare materiali archetipici è la forma più nobile della semantica europea. Esiste qualcosa di meglio del dire sempre la cosa giusta?

Joele Valenti

BLUEPRINT/Bela lugosi/Alice

Torino città rumorosa, fucina di meraviglie industriali e malesseri urbani. Città squadrata come le geometrie degli Slint, estemporanea come i pensieri di Emidio Clementi e tagliente come i riff di Guy Picciotto e compagni. I Blueprint hanno il merito di descrivere il proprio spazio confrontandosi con la difficile sfida di coniugare l'italiano con un sound che ci siamo abituati a ricevere ed amare dall'altra faccia dell'America, quella buona della controcultura dal cuore dell'Impero (Washington DC). Piace o da' fastidio, perché oltre le illusioni non ci sono prati verdi, biciclette abbandonate e noi distesi a fare l'amore, ma piccole realtà che crescono come fiori (Alice). Info: www.lovelyalice.com

Andrea Pintus

CASIOTONE FOR THE PAINFULLY ALONE/Answering Machine Music/ Tomlab

salve po3i pr-esentarmi come nuovo recenzore/colla-boratore....ma m'annòia.anche perchè non l'hommài fatto e non mi ci sento. mario:"e pichchì? timidezza ?" jè:"no,incompetenza!." mario:" 'nc'allura?" jè:"...e che c'è esperienza sull'ascolto sonoro,eallura.....sai comè?ma unsài cuant'è! 'ù capisti?" mario:"....... mmh?.....vabbè!comu rici vossìa. ....(ma è minchia o pasta cula sarsa?)" v'indico che lamè modalità recensiva attingerà solo da propri ideogrammi,da mie suscit'azioni,NON darò teoremi nè solite ricette farmaceutiche sull'ass.colto.piuttosto vi scombussolerò,forse portandovi a non accuistare mai il formato recens|zito…. ma comuncue ,eccomi:

l'ascolto in auto .(s.s. che da Giacalone porta a Partinico) mimì_ra a delle settoriali immagini: un gatto morto (logica?).il verde montano(artifizio?). oggi l'accomuno molto al suono degli "orizzonti perduti" -->sarà l'80 sonoro insito preponderante. VEDO anche un ballerino bloccato da una paralisi indegna - il vocalist è seduto(ne sono certo) ed usa anche un casio-keyb. [uguale al nostro ( parlo con Piero).] è interessante la solvenza tra il certo UOMO-MECCANICO udibile & i suon-concretismi ben inviluppati tra le trame electr(8)0. atmosfere da BACTRIM ,giallo paglierino sovrasta.odori o sdegnosa ossidazione di comuni batterie stilo? tomlab...........è un lab.[[__ lalbùm per concludere risulta gradevole ,un consiglio imperativo(al vocalist): alzati .

Francesco Calandrino

DÄLEK/From filthy tongue of gods and griots/Ipecac

Da Newark, New Jersey, approdano alla Ipecac di Mike Patton i sensazionali Dälek con il loro hip hop scuro ed apocalittico. Le basi prodotte da Oktopus, Slit e Dälek tagliano come lame ben affilate ("Spiritual healing"), scavano in profondità tra le liriche ("Speak volumes") oppure generano clangori metallici ("…From mole hills").La settima traccia "Black smoke rises" esaspera in chiave noise la filosofia musicale del trio: 12 minuti nei quali brusii industriali vengono fatti entrare in collisione con rumori distorti e le rime sono ridotte solo ad un recitato monocorde mandato in loop. E subito dopo sono addirittura le note di un sitar ad introdurre "Trampled brethren", mentre qua e là affiorano astrattismi jazz: "Forever close my eyes" potrebbe essere opera di un Miles Davis adesso trentenne che di notte compone musica e di giorno lavora come operaio nella catena di montaggio di un’acciaieria.

Guido Gambacorta

DEATH IN VEGAS/Scorpio Rising/BMG

Intitolato come la pellicola culto di kenneth anger datata 1964, il terzo disco dei death in vegas si apre con lo strumentale "leather": pura elettricità schizoide stile primal scream che trova nella seguente "girls" la sua ideale appendice. E’ poi il turno di "hands around my throat", un pezzo dance sfacciatamente anni ‘80 scelto dai death in vegas come primo singolo ed effettivamente così ben confezionato da risultare alla fine uno degli episodi migliori dell’intero lavoro. E dopo la tenera melodia soffiata da susan dillane in "23 lies" ecco le prime vere note dolenti rappresentate dalla title track, totalmente lasciata in balìa della voce inflazionata ed indisponente di liam gallagher (e non si può fare a meno di rimpiangere la splendida apparizione di iggy pop in "the contino sessions"). Molto meglio passare oltre e soffermarsi sulla sorprendente "killing smile", che affida a chitarra, mandolino, banjo e violini il compito di dare risalto alle sfumature vocali di hope sandoval. si prosegue con gli inutili quattro minuti strumentali di "natja" e si incappa purtroppo in un altro mezzo passo falso con l’anonima rilettura che paul weller fa di una canzone di gene clark ("so you say you lost your baby"). Chiudono il disco le convincenti atmosfere noir di "diving horses" (dot allison alla voce) e di "help youself" (ancora una buona interpretazione di hope sandoval). Non ossessionati quanto i chemical brothers dall’ambizione di spingere gli appassionati del rock verso le piste da ballo e decisamente più introspettivi di moby nel cercare una nuova forma di pop song, richard fearless e tim holmes ripercorrono in "scorpio rising" le traiettorie electro-rock disegnate da "the contino sessions", con esiti purtroppo altalenanti. Personalmente continuo a preferire i primi death in vegas, quelli techno-dub psichedelici di "dead elvis".

Guido Gambacorta

DEEP END/Tsunami/Love Boat

Ci scusiamo da subito per il notevole ritardo con cui ci stiamo occupando di questo mini-cd, uscito, ormai, più di un anno fa. Sarebbe stato davvero un sacrilegio, però, disinteressarsi di un lavoro come questo degli italianissimi Deep End. Partendo da un suono di matrice Slint-June of’44, il gruppo approda di volta in volta a soluzioni fresche e personali (Heyb wim… turn the freezer off), dalle strutture complesse ed articolate, tra continui cambi di tempo ed atmosfera. A sorreggere gli intrecci armonici delle chitarre, una sezione ritmica attenta e potente, ancorché nervosissima, tutta stacchi e brusche ripartenze (Match-lighter). Su tutto la voce che, seppur usata in modo quasi complementare alla musica, al punto da far definire dagli stessi Deep End il proprio stile "Musica strumentale cantata", riesce a ritagliarsi un ruolo molto forte nella definizione del suono complessivo (You wash, I’ll dry). Un lavoro onesto, forte della sua umiltà, registrato "live in studio", una spanna sopra i tanti pallidi imitatori dello stereotipo Louisville. Un plauso alla sempre attenta Love Boat records.

Alessio Bosco

DJ SHADOW/The private press/Mercury

Nel 1996 "Endtroducing" aveva rappresentato una piccola rivoluzione musicale: 63 minuti ininterrotti di spezzoni ritmici, di refrain melodici e di orchestrazioni da soundtrack costruiti da Dj Shadow tagliando ed incollando centinaia di frammenti sonori campionati dalla propria sterminata collezione di vinili. Un vero e proprio collage avveniristico che aveva immediatamente reso Dj Shadow uno dei più apprezzati djs del mondo (certamente il più apprezzato in ambito hip hop) ed uno dei più ricercati collaboratori per remixes e produzioni di vario genere. A distanza di ben sei anni Dj Shadow torna sulle scene con un disco che ha prima di tutto il grande merito (o il grande difetto, potrebbe dire qualcuno) di suonare diverso dal suo illustre predecessore: "The private press" infatti, pur essendo sostenuto da una struttura unitaria (come dimostrano il tema di "Givin up the ghost" proposto due volte e alcuni brevi intermezzi che fungono da collante) si presenta non come un unico lungo movimento, bensì come una raccolta di tanti brani diversi che ci fanno apprezzare a pieno l’onnivora ecletticità di Dj Shadow, a suo agio sia tra i beats impazziti di "Monosylabik" che tra le perfette architetture di "Fixed income". Fatta eccezione per un paio di pezzi più scolastici (le lezioni breakbeat impartite in "Right thing/GDMFSOB" e l’urban hip hop di "Mashin’ on the motorway") "The private press" regala episodi di rara bellezza: il manifesto ritmico di "You can’t go home again" ad esempio, o "Blood on the motorway", che traghetta lentamente nell’universo hip hop il piglio elettronico dei Faithless e la sensibilità pop di Moby, oppure "Six days", che crea un’atmosfera da sogno come solo gli Air finora ci avevano saputo far assaporare, o ancora "Mongrel meets his maker", che rievoca proprio i momenti migliori di "Endtroducing". E per chi non è ancora appagato, la limited edition di "The private press" offre un secondo cd con i dodici minuti di "Pushin’ buttons", ovvero i virtuosismi ai piatti di Dj Shadow catturati live durante un set tenuto nel dicembre del 2001 al Root Down di Los Angeles.

Guido Gambacorta

DOMINION III/Life has ended here/Napalm

Questo è uno di quei casi in cui ascoltarsi un po’ il disco, ballarlo, senza recensirlo, sarebbe molto ma molto più semplice. Intraprenderò ugualmente la titanica impresa…intanto il secondo album dei Dominion III uscito per la Napalm Records australiana promette bene… i Dominion promettono benissimo data la formazione voluta da Tharen (Dargaard…e non solo! Anche Amestigon e Abigor) con Jorg Lang degli stessi Amestigon e con la bella Elizabeth Torises appunto dei Dargaard e la sua bella voce di fata.Un disco che devo dire la verità, bisogna avere la volontà di ascoltare- è stranissimo, ma il primo pezzo, "A Dead Heart in a Dead World" è talmente banale/lavatrice/elettronica rumorosa che puzza di cliché e vuoi liberartene…il primo pezzo che normalmente dovrebbe convincerti a comprarlo, l’album… ma si salva: in primis perché agli appassionati piace eccome, e in secundis perché se hai la curiosità di perseverare….. signori, ho trovato un album di cui sono veramente contenta.A parte i duetti onestamente un po’ kitsch ma non per questo non assolutamente venerati in perfect Blutengel- L’ame Immortelle style… soprattutto in "The Priests of Emptiness" che è una bellissima traccia, non lo nego, è epica, drammatica, ti porta giù giù giù con quel tocco di climax glorioso ma sempre assolutamente elettronico e intervallato da momenti in cui sembra di sentire gli angeli. La voce di Elizabeth è fatta più corposa rispetto all’ultimo lavoro dei Dargaard, più bassa, più terrestre, dando un gusto più interessante un po’ più culto al disco….. che è un lavoro d’elettronica più o meno sofisticata nel genere, ma musicalmente forse, tranne che per "the priests of emptiness" e "coming winter" non brilla, non brilla affatto. Però si "usa". E’ uno di quegli album con cui comunque passi del tempo di gran qualità, e che ti intrattiene. E’ un prodotto commerciale, ma è fatto con delle belle idee…e poi c’è tanta melodia più alla Autumn Angels che EBM che si fonde con l’elettronica più violenta… c’è una parte maschile e una parte femminile, è un piccolo viaggio in sensazioni fredde. Al secondo ascolto più lacerante. Notti invernali in grandi città.

Anita Mask

DOVES/The last broadcast/Heavenly/EMI

Dato per certo che gli Oasis sono un gruppo di morti viventi che prova a propinarci lo stesso accordo di chitarra e la stessa linea melodica da circa due lustri a questa parte, le più interessanti produzioni rock (inteso nella sua accezione più ampia) partorite negli ultimi anni a Manchester portano i nomi di Badly Drawn Boy, Elbow e Doves. Dediti in passato all’electro-dance con la sigla Sub Sub, i Doves sono in questo senso una band anomala, avendo compiuto il percorso inverso a quello di molti gruppi - inglesi e non solo - che in periodi decisamente sospetti hanno scelto di appendere le chitarre al chiodo per sedersi dietro sintetizzatori e campionatore, sicuramente attratti dal miraggio del facile ed immediato successo nei circuiti della musica dance. Giunti al secondo disco, i Doves confermano quanto di buono ci avevano fatto sentire su "Lost souls", dimostrando ancora una volta di non avvertire sulle proprie spalle il peso della tradizione beatlesiana. Altri infatti sono i probabili gruppi di riferimento per Jimi Goodwin ed i gemelli Andy e Jezz Williams: i Pink Floyd (con le psichedelie chitarristiche che sommergono il beat costante di basso e batteria), sicuramente i King Crimson (la cover di "Moonchild" che emerge fra la nebbia di "M62 song") e, spostandoci fino ai nostri giorni, gli Stone Roses (guarda caso anche loro di Manchester…), i Radiohead di "Pablo honey" e direi pure i Blur sofisticati di "13".

Guido Gambacorta

DREXCIYA/Digital Tsunami/TRESOR

Nero vinile dodici pollici. Campo nero la copertina, con Tresor in stampatello minuscolo in bianco, poi un punto quadrato, come un cursore, e una linea bianca sottilissima. Poi un microscopico simbolo alchemico del sole (un bersaglio, un fiore della società): il logo della Tresor. Viola profondamente scuro il centro del disco che reca il nome dell’etichetta berlinese e i titoli dei quattro movimenti filtrati attraverso onde dimensionali da Drexciya. Il senso dei titoli e il loro svolgersi in coerente filo narrativo delineano ancora una volta l’epica leggenda comunicata in sogno all’oramai risorto Stinson. Nell’ultimo dodici pollici dei Drexciya, in quattro scene al solito di ambientazione marina, si rinnova il racconto e prende vita il frutto della ricerca: là (nel ventre dell’oceano, va in onda l’ultimo atto Drexciya per quanto riguarda questo formato a Drexciya così caro (ed è tempo che suggerisco un più largo e oculato sfruttamento del formato Ep, o del 12’’, di un formato di queste dimensioni insomma). Non si perde tempo, si attacca d’acchito in medias res. Si inizia col picco drammatico, il sacrificio degli innocenti, la scena madre: beats e sinth da rituale e da epica fanno entrare in un’altra dimensione del tragico finora sconosciuta. Come lo sono ancora altre dimensioni del fantastico. L’acme emotivo fa sì che siamo rapiti dal tutto. Pronti al tutto. Che già sta per accadere e già accade. Circondati da lamenti a perdere e soffi di pressione vaporizzata. E’ la ferita aperta, il sangue che chiama lo squalo: Digital tsunami che andrà a finire nell’ultimo album del 2002. A singulti funky durogommosi di gommalacca percorsi da brividi di panico raggelato procede Aquatic cataclism e si sdoppia in tecnospasmi non tecnoplasmi e contrazioni trattenute e ritratte di electrostereo, allarmi e lame urlanti davvero. Un chè di spirito battagliero per non fiaccarsi, di lotta per non morire, per non soccombere, per sopravvivere: una tensione di vita. Proprio nel momento in cui si tocca un fondo che si rivela mortale solo fintamente, solo apparentemente perché anch’esso mente. Un senso di perdita che vive il dolore e disconosce la disperazione. Fotte la paranoia saltandola nella lotta. Dimentica la paura, la scorda, e si apre all’attesa dell’impossibile che comunque avviene. Poi il pezzo si rapprende per risbottare dal secco impasto electro che non affoga ma fa nuotare in mezzo al naufragio rivelatore, ma ancora oscuro. Vento di maremoto che porta anche odore di cataclismi per l’ecosistema. Si gira lato. In The plankton organization schizzano elementali d’onde d’urto laser. Così si chiama a raccolta la minutaglia che serve a salvarsi, sparsa, invisibile. Miriadi d’infinitesimali individui. Strategia marziale in progetto brulicante, semplice vita che resiste e si attacca al resto del vivente. Si sente la mano dell’uomo cui va questo piccolo dovuto tributo: il suo talento nella sua cantina, lontano, rifiutante l’immagine come i nativi indiani, per davvero rifiutante lo spettacolo, schivano, ad inseguire i suoi sogni realizzati in cerca di una perfezione ultraumana, come un predicatore postumano, la sua tattica e pratica artigiana, l’abilità d’accesso alla sua e alle altre anime, poco più di trent’anni, sette figli, la sua arte tra la luce e il buio dell’abisso di un oceanico metafisico ma (i) così reale da sempre, là dove cambiano i colori e la loro percezione, là dove nell’attesa di una risposta qualcosa comunque, sempre, si compie. Una visione totale, corpi nuovi e razza nuova, supermessianesimo del dna da fumetto di mutanti, e qui si potrebbe anche sorridere. Così finisce il disco e là va a terminare la saga ancora una volta (e definitivamente) rinnovata. Con l’inizio di una nuova vita. Birth of new life è la quarta finale bellissima traccia da esaltazione a tutto volume, a più del tutto volume. Nella fine la nascita, e che sia il ciclo. E il riciclo. Nella morte la rinascita. E che sia ideale la vendetta a venire. Che abbia corso il riscatto. In un attimo eterno. Siamo all’apoteosi mistica. Respirare sott’acqua, allo stesso modo di camminare nel fuoco. Oppure volare. Mutare evolversi per adattarsi. Lo sciogliersi dal basto. Il farsi della giustizia, divinamente. Il ritorno esodale a madre Africa. Il messianesimo realizzato. L’utopia. La sconfitta della morte. Il tutto in una visione artistico-musicale che realizza in modo istintuale bellezza, ritualità, epica, tragicità, mitologia, psichedelia, semplicità e concettualità facendole coincidere come solo un negro può. James Stinson non ha chiamato a raccolta dal sottosuolo underground, ma dall’underwater. Aspettiamo ora che si attivi l’underair fino al compimento dell’underfire. Sotto il fuoco, la cenere.

Giovanni Vernucci

ELLE/People Are Coming In The A.M./Urtovox

VEGA ENDURO/Vega Enduro/Urtovox

Elle e Vega Enduro appartengono alla scuderia Urtovox, etichetta che nutre particolare interesse per la psichedelia e ramificazioni, ed i due gruppi in questione ne rileggono sia le attuali estensioni sia le radici. I veneti Elle sono alla seconda uscita (sempre su Urtovox) ed il loro People Are Dancing In The A.M. è un sentito omaggio alla nuova psichedelia di Flaming Lips, Grandaddy e Mercury rev. Le canzoni degli Elle sono piccoli e deliziosi distillati di modernariato pop indolente ("People Are Coming In The Morning"), malinconici quanto basta ("Lullaby (6 a.m.) ", che mi ha ricordato lo spleen che tempo fa animava i Sunny Day Real Estate), gentilmente elettronici (in "John The Hammer" sembra addirittura di ascoltare un Battisti tecnologico) e serenamente liquidi ("My Courtesy (Have A Nice Day) "), un’ottima conferma. I Vega Enduro invece sono al debutto ma gia mostrano idee molto chiare, anche per loro si parla di psichedelia, ma mentre gli Elle ne esplorano il lato più sognante (e moderno) i Vega appartengono alla sponda più old garage e polverosa. Il loro è un "moderato" wall of sound con echi texani alla 13Th Floor Elevators ("Dizzy Feeling"), memorie Floyd-iane epoca Barrett ("Has Been Way") ed interessanti aloni noir ("Ash Blond Garden"). A tratti, oltre al retaggio "vecchio" mostrano un attitudine simile ai mai troppo ricordati Soundtrack Of Our Lives. Una conferma ed un ottimo debutto da parte di una Urtovox capace ed ecletticamente interessante.

Gianni Avella

EXPERIMENTAL FRAGMENTS/Riccardo, Riccardino e i musi neri/Frammenti/Blu Cammello

Percorsi e personaggi surreali (il Cane di Zorro, Cirilla, Piopoman, il Soldato con gli orecchi a salsiccia, il Marziano Palestinese, Teresa e i Musi Neri) frutto della sinergia creativa tra i disegni parlanti di Riccardino Sevieri, il laboratorio di comunicazione visiva della cooperativa sociale Blu Cammello di Livorno e l'accompagnamento sonoro di Francesco Landucci. Un progetto che non può essere ridotto ad una semplice compilazione di tracce elettronificate attraverso sintetizzatori, campionamenti, sitar, chitarra slide e berimbao, ma un vero e proprio mosaico di immagini primitive e suoni di forte impatto emotivo. info: coop soc. Blu Cammello t. 0586-834329

Andrea Pintus

GAMILA/Gamila/Autoprodotto

Come definireste il genere di quella canzone che introduce LunedìFilm su Rai1 da vent'anni a questa parte? I Gamila propongono tre tracce in cerca d'autore, esistenzial-melodiche, epiche e geneticamente modificate come un triplice incrocio tra Lucio Dalla, Piero Pelù ed Interno17. Sarà colpa del mancato sviluppo delle infrastrutture, della mancanza di fondi per l'innovazione o del futuro ponte sullo stretto di Messina? Prima di prendermela col Governo (ministri Lunardi, Tremonti e Banda Bassotti tutta), lavorerei un po' sull'autocoscienza.info: www.gamila.musicpage.com

???

Gaston/Jour fixe für Lukas Caszek/Speaderphone

Gaston/#1/Becahned

Rock matematico dalla "cara, vecchia Europa". Un trio d’oltralpe dal particolare assetto con due bassi e batteria, che potrebbe rimandare, per certi versi, agli UI (poco) e per altri ai Don Caballero (molto). In tal senso un brano come Bobeck, sembra davvero tirato fuori dagli ultimi Cabs di American Don. Ad affiorare, poi, di quando in quando, una pulsantissima vena Tortoise, sopratutto in Cargo e Dangast (da #1), stupende, dove alle intricate linee di basso fanno da contrappunto delicate e sognanti melodie in punta d’armonici. Tra il singolo dedicato a Lukas Caszek e l’EP seguente, la cifra stilistica non muta: geometrie ritmiche, saliscendi d’umore e intensità, ghirigori di basso, arpeggi fittissimi intagliati gli uni dentro gli altri. A tratti secco e violento, a tratti melodicissimo, quasi onirico. Purtroppo, l’eccessiva dipendenza dai modelli di riferimento, rende il tutto un po’ derivativo ed è innegabile che a volte qualcosa risuoni troppo come "già sentita". Questo, in ogni modo, non svilisce di certo un album come questo: molto bello, affascinante, complesso ed immediato come Chicago vuole che sia.

Alessio Bosco

GD LUXXE/Vendetta/Suction

Ricordate gli anni ’80, quelli in cui il positivismo tecnologico imperante aveva contagiato anche la musica pop internazionale, prospettando un futuro in cui gli unici strumenti per comporre sarebbero stati campionatori, sinth e drum machine? Ricordate, tanto per fornire alcuni punti cardinali, le ultime geometrie elettroniche dei Kraftwerk, la (purtroppo) fugace apparizione dei Joy Division ed i primi vagiti dei Depeche Mode? Se avete la memoria corta o se siete troppo giovani, Gerhard Potuznik ed il suo progetto solista Gd Luxxe vi aiuteranno a rendere l’idea di quanto sopra. Scelta singolare e coraggiosa da parte della etichetta canadese Suction, in tempi in cui i compositori di musica elettronica tendono a sfiorare sempre di più la soglia comunicativa dell’autismo, quella di proporre cinque tracce elettro-pop di sostanza, ricche di citazioni "alte" e che riconciliano con le radici della elettronica da ascolto. "Reasons" "Garden" e sono due pezzi composti alla fine degli anni ’80 e qui resuscitati con tutta la cupa carica energetica tipica della scena new wave elettronica del periodo, "Quiet Life" è un vero tributo ai primi New Order, con l’aggiunta di un po’ di dance beat che lo rende meno scontato e più danzereccio rispetto agli originali, mentre "Words" e "Metawelt" debbono molto, in termini d’impiego melodico di tastiere, sequencer e campionatori, ai Depeche Mode di "Speak and Spell" e "A Broken Frame". Che lo inseriate nel vostro lettore cd per ingannare il tempo o nella vostra scaletta per far muovere un po’ di culi senza affaticarli troppo, questo ep merita un minimo d’attenzione ed ha una valenza quasi didattica.

Roberto Baldi

GIDDY MOTORS/Make It Pop/FatCat

Trentacinque minuti, tanti bastano ai Giddy Motors per annichilire chiunque si avvicini al loro Make It Pop. Una miscela assassina di blues/core con tinte wave dal cantato altamente spiritato ed alienato. L’inizio lascia poco scampo, "Magmanic" è un attacco frontale in puro stile Shellac, ma le cose interessanti arrivano subito dopo con "Hit Cap", un assalto sonoro immaginabile solo da Ornette Coleman in combutta con i Jesus Lizard. "Bottle Opener" e "Cranium Crux" sono episodi che gente come Girls Vs Boys e J. Spencer neanche riesce più a sognare, ancora un blues lercio ("Dog Hands") per poi arrivare alla sorprendente calma di "Venus Medallist", sonata per chitarra acustica ed archi che li avvicina "terribilmente" ai Dirty Three. Tutto sembra calmo e tranquillo, ma all’improvviso ecco arrivare "Whirled By Curses", inquietante guerriglia sonora che comincia alla maniera dei June Of 44 per poi espandersi in un ipnotico tribalismo dal ritornello che mi ha ricordato addirittura i Neurosis!!! Materiale da Touch And Go direte voi, invece no, è la camaleontica Fat Cat a regalarci un tale magma sonoro. Roba da svegliare l’assassino che c’è in ognuno di noi…

Gianni Avella

GODSPEEDGODSPEED YOU! BALCK EMPEROR/Yanqui U.x.o./Constellation

"Large ensemble plays large music" (un grande gruppo che suona una grande musica). Inizia con questa frase la "descrizione/celebrazione" del combo canadese contenuta nel catalogo Constellation; descrizione che, stando al numero dei componenti (oscillante tra sette e nove) e alla durata di questo nuovo lavoro (75 minuti circa), risulta abbastanza fedele. Ma (ovviamente) non è questo il punto della questione. I connotati numerici del gruppo (o forse è meglio iniziare a parlare di collettivo) di Vancouver, infatti, si riducono a semplice corollario estetico quando, dopo aver poggiato la puntina del mio giradischi sul primo dei due LP, inizio ad ascoltare le cinque tracce che compongono YANQUI U.x.o. La grandezza, o meglio, la "LARGHEZZA" musicale di questo lavoro scaturisce dal carattere fortemente epico che pervade le composizioni: ogni traccia, articolata secondo geometrie musicali ben definite, è infatti finalizzata alla creazione di veri e propri "paesaggi/distese" mentali che si concretizzano, dal punto di vista strettamente musicale, in cavalcate elettriche dal forte sapore progressive ("09-15-00" e "Rockets fall on rockets fall") o in desolanti affreschi isolazionisti dai risvolti quasi sinfonici ("Motherfuckers = redeemer" parte due).La totale assenza di parti cantate mette poi,ulteriormente in evidenza l’aspetto dinamico (fondamentale) e la ricerca timbrica (uso,notevole, di violino e violoncello) che i Godspeed you! black emperor (il punto esclamativo è stato spostato,in questo caso l’epica ha fatto spazio all’etica) riservano all’intero lavoro, giustificando così la (notevole) durata di questo YANQUI U.x.o.; la tanto citata "capacità di sintesi" non sarebbe stata (per forza di cose,nonché per "definizione") per niente funzionale alle finalità di questo disco,ed il risultato lo testimonia con estrema chiarezza. Disco "fortemente consigliato. Ah dimenticavo,lo sapevate che le majors del disco ("le QUATTRO",per intenderci) oltre a mettere sul mercato CD (spesso di dubbia qualità "musicale") producono dei missili CRUISE che non sono niente male. Provateli. Se ne comprate dieci (ditelo pure ai vostri amici) vi regalano l’ultimo disco di Beck cantato in afgano!

Nicola Giunta

 


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Reg. Court of Palermo (Italy) n°21, 19.10.2001
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