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Music - CD Reviews - Review | by SuccoAcido in Music - CD Reviews on 01/11/2002 - Comments (0)
 
 
 
Electro-Magnetic Trans-Personal Orchestra, Ellery Eskelin With Andrea Parkins & Jim Black, Francesco Forni, Gea, H.O.M., Harmonia Ensamble, Klint, Madrigali Magri, Micatone, Monumentum, Motorpshyco, Mouses And Sequencers, Nous, Pubblic Enemy.

Electro-Magnetic Trans-Personal Orchestra, Ellery Eskelin With Andrea Parkins & Jim Black, Francesco Forni, Gea, H.O.M., Harmonia Ensamble, Klint, Madrigali Magri, Micatone, Monumentum, Motorpshyco, Mouses And Sequencers, Nous, Pubblic Enemy.

 
 

ELECTRO-MAGNETIC TRANS-PERSONAL ORCHESTRA/Paxrecordings

Strani i casi del mondo. Una sera a Tabor, prima dell’ultimo concerto del tour con Vialka, mi si avvicina questo signore dagli occhi decisi e dall’accento di S.Francisco e saputo che mi interesso di avanguardia (e che sono italiano) mi chiede “d’you know GianniGebbia?” come tutti gli americani che stanno in quel giro. Lui è George Cremaschi, contrabbassista di ricerca, impegnato con Evan Parker e altri nomi dell’improvvisazione più radicale, e mi racconta aneddoti delle sue (non) registrazioni sugli ultimi di Tom Waits. Tornato a casa trovo questo album da recensire, e tra tutti i nomi quello di Cremaschi adesso ha anche una faccia e una voce. Collettivo intrigante questo guidato da Aaron Bennett (ai fiati e cannucce e già ascoltato su un bell’album di solo sax un paio di anni fa): due violini e due violoncelli, un tubista, un fisarmonicista, un chitarrista e Cremaschi al contrabbasso. Anche lui si è creato un suo sistema di notazione che permetta di strutturare l’improvvisazione, e i risultati sono notevoli. Sia quando si ascoltano i momenti di ensemble, sia quando gli strumenti rilasciano la tensione e si cercano annusandosi, la qualità della creazione e dell’interpretazione resta molto alta. Le composizioni sono estremamente diverse le une dalle altre, generalmente molto lunghe ma dal respiro giusto. Non mancano certi cliché della musica improvvisata (quando diventa genere, e quindi con regole strabilite – le chitarre maltrattate, gli archi strinati, i fiati urlettanti) ma la quantità di cose interessanti è tale che ci si dimentica presto di queste piccolezze. Disco molto bello. Info: www.paxrecordings.com

Jacopo Andreini

ELLERY ESKELIN with ANDREA PARKINS & JIM BLACK/12 (+1) Imaginary Views/Hatology

12 paesaggi immaginari. 12 immagini fissate su carta e poi liberate dall’improvvisazione. 12 tasselli che si muovono in libertà all’interno di un’unica suite lunga 60 minuti. Così Ellery Eskelin descrive brevemente nelle note di copertina la genesi e la struttura dell’ultimo disco del suo trio. 12 paesaggi immaginari trasformati in 12 percorsi di jazz immaginifico da Jim Black con batteria e percussioni, da Andrea Parkins con fisarmonica, pianoforte e campionatore e da Ellery Eskelin con il suo sax tenore. 12 più uno: la conclusiva “Oska T” è un sentito omaggio al genio di Thelonious Monk nel 20° anniversario della sua morte.

Guido Gambacorta

FRANCESCO FORNI/Musiche di Scena/LeadStudio

Ottimo chitarrista e abile manipolatore di macchine digitali (come anche di Digeredoo, trombe ecc..) Francesco Forni in questo Musiche Di Scena raccoglie alcune delle sue ultime musiche per rappresentazioni teatrali e mostre fotografiche. Quello che stupisce di Forni non è l’alternanza di stili che ci propone (cosa da considerarsi anche ovvia, considerando i diversi contesti in cui vengono proposti) ma la bravura mostrata nell’affrontare diverse sonorità. Come abbiamo appena accennato, in Musiche Di Scena gli stili e le sonorità toccate sono tante: dalle atmosfere cosmiche di “Lightborn” alla folktronica di “Gira E Rigira”, dal cantautorato stile Jeff Buckley di “Skane” al funky blues orecchiabile di “Late Afternoon”, ove in quest’ultima (come anche in Tibet) si nota tutta la bravura di Forni come chitarrista che scrive e suona in tutti gli episodi (non senza aiuti esterni fondamentali come Sergio Quagliarella, Francesca Zurzolo ecc..). Ora non so cosa ci propinerà Forni in futuro, ma se riesce ad “Ampliare” le tante idee sparse lungo il C.D. (tipo nella synth-uosa “Lighthorn”) ci troveremo di sicuro dinanzi a cose interessanti. Per chi scrive, al momento nessuno a Napoli è come lui.

Gianni Avella.

GEA/SSSH … BLAM!/Santeria

A poco più di un anno e mezzo dal folgorante album d’esordio, “Ruggine”, si ripresentano i Gea con questo straordinario album uscito sotto Santeria/Audioglobe. Il disco, registrato presso il Red House Recording Studio dall’ormai mitico David Lenci, presenta una band più attenta e matura nelle ritmiche e nei suoni. C’è spazio per melodia, ma anche per ritmiche dure e nervose. “Fumeria d’ovvio” è il primo brano d’introduzione che presenta questo stile ritmico, influenzato da grandi band come Jesus Lizard, Dinosaur Jr. etc… La seconda traccia, il singolo “Cocktail”, si presenta a sorpresa, (come altri brani dell’album), influenzata anche da band come i VOIVOD!! Quelli più psichedelici del periodo di Angel Rat e Outer limits. “La quiete dopo la tempesta” è forse la canzone migliore dell’album, disperata ed epica nell’incedere, ricca di chitarre dalle bordate acido-psichedeliche e da stupende parti ritmiche di basso-batteria. “Porto e amaretti” è forse il brano più influenzato dalle sincopi blues in acido tanto care ai miei amati JESUS LIZARD, mentre “Bijou” è una dolce ballata alla Motorpsycho che chiude l’album insieme al brano “Gran bazar” che riprende invece l’ansia dei brani precedenti.

Andrea Giuliani

H.O.M./Oretto Ohnurhbin Kohyepm/SLYD

Uno dei gruppi più incredibili che mi sia capitato di vedere ultimamente. Se la musica di quest’ultimo periodo (sono in giro da 15 anni) può definirsi abbastanza brevemente come tekno-punk cabaret (e lasciate perdere i Gronge per favore, non c’entrano niente per fortuna), i contenuti e soprattutto l’intensità dello show (e del progetto tutto) schiacciano ogni possibile dubbio. Girano in tre, un cantante che sai che sta per farti del male, ma con una bottiglia spaccata sulla tua testa quando non te l’aspetti, un bassista che ha le spalle per dargli man forte, anzi probabilmente è lui che ti sputerà in faccia per primo, e un tastierista pacioccone che sembra non entrarci nulla, ma che tiene le fila del tutto. Il disco rappresenta buona parte della scaletta del liveshow, con in aggiunta pezzi con l’altro cantante, dalla voce baritonale incredibile. Però il progetto è più ampio: hanno realizzato diversi lungometraggi (l’ultimo tratta di militari che tornano e vengono brutalizzati, apicoltori ballerini e lupi mannari), romanzi, libri di racconti, quadri (di Nickolai Kopeikin, amico che li segue anche in tour) eccetera. Mi ricordano, per generazione, esperienze, produzione e mentalità, i nostrani NEEM (c’è anche una certa assonanza nel nome, e entrambi sono sigle). Ho comprato anche il disco “1987-2002” che come potrete facilmente intuire è una raccolta con brani tratti dai loro 12 album, molto belli davvero. Se vi è venuta voglia di contattarli: www.nom.spb.ru, www.nomzhir.spb.ru

Jacopo andreini

HARMONIA ENSAMBLE/KOÇANI ORKESTAR/ULIXES

Menzogna. Astuzia. Nomadismo. Viaggio musicale nel nome di Ulisse: Harmonia Ensamble e Koçani Orkestar. Ancora una volta Harmonia Ensamble apre le danze, trascinando con sè sulla scena i lirismi etnici e la vivacità gitana dei Koçani Orkestar in un lavoro di estrema passione umana che dona corpo ad un esperimento di voci ricco e improvviso, una torre di Babele di melodie, strumenti e linguaggi; un connubio tra sacro e profano che offre il proprio talamo all’irruzione irriverente di un’orgia di stili. Il risultato è la fondazione di un nuovo spazio, di cui il mitico eroe fondatore è Ulisse, astuto, nomade, bugiardo… Parliamo di Ulixes, ennesima composizione di pregio offerta da Materiali Sonori attraverso la produzione e il monitoraggio di Giampiero Bigazzi. Ulixes è un salto che osa recare il proprio sguardo oltre i confini tracciati dalle distinzioni musicali di genere, che sa muoversi ecletticamente sulla scena musicale contemporanea assorbendo impulsi sonori geograficamente eterogenei, i quali, all’interno dei brani, si librano autentici, nel pieno diritto della propria storia. Sin dal primo ascolto un tentativo ermeneutico s’impone. In primo luogo perché dall’esplosione multietnica di costumi e approcci melodici, in Ulixes si genera una rosa di prospettive etiche che vogliono tradursi nel sociale; in secondo luogo, perché il geniale lavoro di quest’insieme di eccellenti musicisti vive di una diversità di contesti che divengono altrettanti luoghi da esplorare, semplicemente passandoci attraverso, errandovi dentro...assolutamente.

Biancanera

KLINT/S.T./Tritone

Si popola di nuovi adepti la già nutrita setta di gruppi fedeli al verbo professato da sua santità Beck Hansen. Anche i Klint sono inglesi, ma, a differenza (tanto per far due nomi insigni) dei Gomez e soprattutto della Beta Band che hanno ben fagocitato la lezione del loser per eccellenza all’interno di una visione personale, si presentano all’esordio con la sfrontatezza e, a dire il vero, anche con l’onestà dei puri epigoni. Il risultato è, pur se derivativo, a tratti godibile: una serie di ballate che spaziano dal bucolico (Olga), al country-blues straccione (Atlantic spaceham blues, Now you see me now you don’t), dal ballabile (Watching TV, ritmica hip-hop, fuzz chitarristico e pulsioni acide d’organo) al cocktail-lounge (The mess we’re in). Il massimo del coraggio i Klint lo dimostrano quando scodellano con perizia un tema noir strumentale, venato di psichedelia (Are you there), mentre rischiano il grottesco nel tentativo di traghettare Beck sui lidi del punk-rock (Makes you well). Di certo non basterà a farne la next big thing dell’odierno panorama musicale britannico, ma il loro saltellante roots-rock divertirà molto coloro che a metà dello scorso decennio caddero preda di una febbrile illuminazione ascoltando “Mellow gold”.

Davide Romeo

MADRIGALI MAGRI/Malacarne/Wallace

Terzo disco per i Madrigali Magri, tutti direbbero il disco decisivo, forse, in ogni modo un bel disco, anzi un bellissimo disco di post-rock catacombale e “rurale”, fatto di suoni scarni, no scarnissimi, e di un blues rarefatto che si mescola con la psichedelia dei 60’, come ad esempio nel brano “Devil did”; ma fatto anche di sussurri, voce non cantata ma parlata in quasi tutti brani, come nel precedente album Negarville, una voce originale e particolare che sembra anche mostrare segni evidenti d’agonia e frustrazione repressa…e anche un po’ di blasfemia, come ad esempio in “Blues jesus”. “Tersila” incredibilmente mi fa ritornare in mente i mitici Rapemen di Steve Albini e anche gli Helmet, ma il sound noise qui è svuotato e ricco di silenzi. In pezzi come “Nuova casa” e “Alba”, è recuperata nella voce un po’ di melodia, grazie anche agli splendidi arrangiamenti di chitarra acustica.Il tutto è racchiuso come al solito dallo splendido artwork che arricchisce da sempre i lavori della Wallace: fotografie stupende di paesaggi rurali e stradali, notturni… non so dove questi siano, ma mi sento a casa.

Andrea Giuliani

MICATONE/Nine Songs/Sonar Kollektiv

I Micatone vengono da Berlino e della loro città di provenienza hanno assimilato sia l’anima jazz che quella elettronica: leggasi drum’n’bass a battuta lenta suonata con contrabbasso e batteria, più adatta all’ascolto domestico che alle piste da ballo, dove un’intrigante voce femminile si amalgama perfettamente con i suoni creati dalle tastiere e dai ben calibrati inserti elettronici. La sequenza centrale del disco - “A part of me”, “Playmobile soldier” e “Traces” - racchiude il meglio della musica dei Micatone: melodie impareggiabili, groove jazzato, sfumature di tenera malinconia. Stilisticamente in bilico tra Jazzanova e Koop da un lato (vedi il brano di apertura, con David Friedman al vibrafono), e Moloko ed Esthero dall’altro (più che altro per l’impronta data ai pezzi dal cantato in inglese di Lisa Bassenge), i Micatone non si inventano niente e quindi stupiscono non tanto per la formula utilizzata quanto per la classe e la personalità con la quale interpretano tale formula. Davvero un ottimo esordio.

Guido Gambacorta

MONUMENTUM/Ad Nauseam/Tatra

Oddio! C’è poco da dire perché è un capolavoro. E’ davvero un capolavoro. Uno dei migliori dischi della nuova stagione, orecchiabile (lo dicono loro stessi nella presentazione, che rimangono fedeli ad una forma canzone ben definita), ma molto sperimentale. “Nato nella Nausea, finito nella Nausea”, eppure quello che emerge dall’ascolto di questo disco non è un senso né di pesantezza né di deja vu, ma di ottima ottima musica, di quei dischi che si mangiano e di cui si gode anche ad infinitum, anche ad nauseam, perché stai che stai ascoltando un lavoro di qualità. “Last Call for Life”, il primo pezzo, non credo renda l’idea del disco. Il disco è un viaggio nell’anima e nell’animus umano, vi sono momenti di dolore, di solitudine, di dolcezza, temi toccati con una classe fluida, calda ma terrificante, riescono ad ammaliarti e preoccuparti allo stesso tempo, catturando la formula del fascino dietro le cose più affascinanti. E’ un lavoro atipico- non so come facciano a non cadere affatto nei cliché, a tenere quel goth mood elettronico e triste, ma rinfrescato in ogni sua forma. “Angor vacui” e soprattutto “Distance”, dolce, disperata, per non parlare di “Perché il mio amore”, cover di Fausto Rossi, (che fa SOFFRIRE, fa proprio SOFFRIRE mi ha fatto soffrire provate per credere e non ascoltatela appena svegli se non volete meditare suicidi ed omicidi per tutta la giornata: odio e tristezza, un’esperienza.) propongono un nuovo grande linguaggio, confessionale, eppure vicino ai momenti più freddi e opachi dello sperimentalismo, duro, industriale, bianco, buio… l’artwork di Alessandro Bavari è perfetto, matematico ma passionale. Una della tante dicotomie che ti sommergono ascoltando questo incantevole lavoro. Ecco. E’ un disco d’ispirazione. Si sentono le idee muoversi. Umano, fino in fondo, ma sicuramente si parla della dimensione più mitica dell’umano moderno.

Miss Anita Mask

MOTORPSHYCO/It’s a love cult Stickman/Serpentine ep/Stickman

Raccogliendo a trent’anni di distanza l’invito lanciato dai Led Zeppelin con “Going to California”, nel 2001 i Motorpshyco fischiettavano contenti “Go to California” nel loro “Phanerothyme” e pure in questo “It’s a love cult” la meta preferita delle vacanze del gruppo norvegese resta la California: brezza calda tra i capelli e raggi psichedelici per dimenticare il gelo di Trondheim… Purtroppo il sole in certi frangenti picchia così forte che “The mirror and the lie” svapora via senza lasciarsi afferrare e “Carousel” si lessa anzitempo prima di scaldarsi – e scaldarci – a dovere. Ma ai Motorpshyco si può perdonare questo ed altro perché sono ancora capaci di inventarsi filastrocche variopinte del livello di “What if…” e “Serpentine” per poi avvolgere spirali acide intorno a “Custer’s last stand” (citazione della “Achille’s last stand” zeppeliniana?). La sintesi tra atmosfere pop e rock psichedelico sperimentata alla grande in “Let them eat cake” e “Phanerothyme” (rispetto ai quali “It’s a love cult” si pone come il terzo capitolo di un’ideale trilogia) sembra adesso più nettamente sbilanciata verso la prima delle due componenti. E così se in “Neverland” le linee di basso e le folate chitarristiche abbracciano note sixties di organo e se “This otherness” sembra un pezzo dei King Crimson periodo Islands/Larks’ tongues in aspic con in più accenti beatlesiani, la conclusiva “Composite head” non funge altro che da bacheca per esporre in bella mostra gli autografi di Paul McCartney, John Lennon, Ringo Starr e George Harrison. Si torna a casa dalle vacanze californiane e lo scalo in Inghilterra è d’altronde obbligato… E a bordo dell’aereo avvenenti hostess in minigonna offrono insieme ad una bevanda rinfrescante “Serpentine ep”: quattro bocconcini introvabili su disco, uno dei quali (“Snafu”) ricoperto con le stesse spezie appetitose usate per “Serpentine”.

Guido Gambacorta

MOUSES AND SEQUENCERS/Soundtracks for unreaded books/Galaxy 5000

Questi due lavori procedono da strati della coscienza molto lontani, come simboli subliminali... e arrivano tra il lusco e il brusco! Nel momento buio in cui si fa strada la convinzione che un monolite culturale, granitico, lucente – quello di una pseudo dominanza continentale – proietti ombre lunghissime sulle produzioni “altre”, quelle a sud del paradiso postindustriale... Siamo nell’ambito di autoproduzioni che eccedono sempre più i limiti categoriali loro propri, giungendo ai confini – a tratti superandoli – delle produzioni “serie” e blasonate. Nicola Giunta, alias M.a.S., è un reale creativo, di quelli che sanno fare di necessità, virtù. Attraverso frattali elettronici, scarni e suggestivi, come le cover art che ne rappresentano l’interfaccia, minimalismo electro e trame strumentali sempre più rarefatte si riconnette alla tradizione pop più vintage, per non dire testamentaria – senza mai crogiolarsi in vetusti stereotipi, o peggio ancora, perdendo di vista il doveroso slancio al superamento. Soundtracks f.U.B. è appunto un viaggio che prende avvio dalla Soffitta della Psichedelia, da quel brodo primordiale dal quale scaturirà l’habitus delle orfane generazioni a venire: i Pynk Floyd (Barrett, Waters), i Beatles/66,69, il Bob Dylan più lisergico... i Boards of Canada. Vintage pop e twang guitar ancora in Galaxy 5000, episodio più recente ed ennesimo della sua già vastissima produzione. Il lo-fi qui perde parte del suo manierismo per addossarsi ad una produzione più cesellata, quasi raffinata – non spaventi! – rispetto all’esordio. I suoni più tondi, la profondità ricercata. Scampoli di canzoni, a volte incompiute, a sottolineare possibilità in divenire, oppure patologico confluire di troppe pulsioni, la logorrea mediatica del pop che finisce per implodere e disintegrarsi. Molteplici chiavi, dunque. Questa è la sfumatura che ci colgo, quasi una dissacrante propensione per la storpiatura di materiali ampiamente fruiti da un mercato ad Espansione n ...Nicola Giunta è un siciliano volenteroso e speculativo, e nel Medioevo in cui langue la nostra terra ne apprezziamo capacità e freschezza. La “nostra” New Wave è dietro l’angolo.

Joele Valenti

NOUS/La tempesta/Novenove

Spazi dilatati che s'illuminano, isole di suoni che si animano, melodie di visioni che raccontano. Narrativa suonata o musica che segue il ritmo della narrazione? Colonna sonora dello spettacolo "La Tempesta" di William Shakespeare messo in scena dal gruppo teatrale Krypton; i Nous creano un connubio inedito ed elegante tra musica e letteratura. Estremamente evocativa la scelta di utilizzare l'elettronica più pura come ponte verso il 1600: come a dire che la dimensione temporale è del tutto fittizia, nell'arte. Si alternano nella tracklist 12 pezzi strumentali e cantati, composti e programmati a quattro mani da Maria Di Donna (anche conosciuta come Meg) e Marco Messina, gia' membri della band partenopea ben nota di cui non sveleremo il nome, ma che qui assumono un'identità' del tutto nuova, stupefacente, eterea e carnale insieme. Esattamente come la voce di Meg, che qui (come nello spettacolo) incarna lo spirito della tempesta, Ariel, in tutti i suoi stati d'animo, emozionando (ed emozionandosi), esaltando (ed esaltandosi), creando melodie atemporali sui testi di Sir William Shakespeare in persona. Canzoni come perle. Strumentali come aria, rarefatta, intessuta di suoni ricercati in un mondo parallelo. Ritmiche come ricami scintillanti. Frequenze (alte) come dolci massaggiatrici cerebrali. Un disco sofisticato e passionale che, con nostra grande gioia (e una punta di orgoglio) non proviene d'oltralpe o d'oltreoceano, ma anzi, potrebbe tranquillamente essere li' esportato. Bravi Marco e Meg, i Nous, esploratori napoletani.

Marina Dell'Erba

PUBBLIC ENEMY/Revolverlution/Kock records

Tempo di celebrazione. Sacrosanta celebrazione dopo 15 anni. Statura, convinzione, personalità, dignità da vendere.Gente che porta la lotta dalla strada alla rete, dalla rete al mercato. Gente che ringrazia allah e le famiglie, che non ha paura di fare i nomi soprattutto quando si tratta dei nemici. Gente che ha cose da dire con foga. Gente che ha sfornato un capolavoro miliare (Fear of a black placet) e non ha paura di reinventarsi al punto da intitolare il proprio disco per la festa dei tre lustri Revolverlution. Si gioca sul concetto di tempo: evoluzione: rivoluzione: della ciclicità : del tornare all’origine: all’originale : all’originario. Nel booklet si parla proprio di distruzione (trasformazione) dei concetti (e non solo dei concetti, ma delle pratiche) del passato del presente e del futuro. Ma basta con le ciance. 74 minuti, 21 tracce. Pezzi dal vivo registrati tanto o poco tempo fa, gustosi remix fatti dai fans prodotti con l’ausilio della rete, pezzi nuovi veementi all’assalto , simpatiche tracce come chicche per afficionados , nuovi pezzi e interpretazioni.. Sfiorano la perfezione potente sin dall’ispirazione fino alla retorica passando per il crederci e l’esserci. Il groove al contempo più esatto e meno astratto che possiate trovare in quest’ambito, profondo. Sangue . Cuore. Groove che muove il centro del corpo. Intelligenza e gusto istintuale capaci per la contaminazione e il riaffiorare delle radici. Genuinità che non ha bisogno di essere gonfiata. Suono straordinariamente asciutto e pesante seppur invecchiato e ripulito, seppur svecchiato e rinnovato. E scopro scratch che sanno di glitch, glitch corposamente analogici. Maestria dura a morire anche se l’hip hop migliore ha preso la sua strada e va verso la propria maturità esso stesso. Questa è opera di un’attitudine positivamente distruttiva senza paura. Come celebrazione non può esserci di meglio.Una lezione. Non solo di stile. Questo è il punto. Essere la superclassicità dell’old school fregandosene della classicità. Chiacchiere da bianchi, da visi pallidi. Che bomba il prossimo disco se, passata la festa, il tutto si concentrerà in quaranta minuti di esplosione di negritudine ultrafunky. Ultima occasione per chiudere il tempo di un’epoca. Probabile ultimo piccolo monumento possibile da lasciare in eredità ad un hip hop ormai felicemente imbastardito.

Giovanni Vernucci

 


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