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Music - CD Reviews - Review | by SuccoAcido in Music - CD Reviews on 01/11/2002 - Comments (0)
 
 
 
A Short Apnea, A.A.V.V. 15 Id: Fifteen Italian Dishes, Alec Empire, Anatrofobia, Andrew Duke, Black Heart Procession, Black Tape For A Blue Girl, Bovine Life +/Vs Komet, Cinematic Orchestra, Davey Williams & John Corbett, Deus Ex Machina, Dsp.

A Short Apnea, A.A.V.V. 15 Id: Fifteen Italian Dishes, Alec Empire, Anatrofobia, Andrew Duke, Black Heart Procession, Black Tape For A Blue Girl, Bovine Life +/Vs Komet, Cinematic Orchestra, Davey Williams & John Corbett, Deus Ex Machina, Dsp.

 
 

A SHORT APNEA/An Indigo Ballad/Five Greeny Stages/Wallace

Coraggio è una parola che non dovrebbe mai mancare dal vocabolario di chi fa musica. E di chi l’ascolta, va da se. Eppure spesso, sfogliando i moderni dizionari del "suonar contemporaneo" la trovate tra le locuzioni arcaiche. Quelle cose un po' in disuso che sanno tanto di studi classici, ginnasio e sbadigli di fronte all’ennesima divagazione sulle visioni mistiche di Dante. Ecco, la musica degli ASA è questo che ci chiede, perché è questo che ci regala: coraggio. Ne sono dimostrazione questi due piccoli flashes live immortalati da Wallace su due dischi dalla confezione analoga, rossa per il primo, verde per l’altro. Due dischi senza mercato (coraggio, dicevamo. Anche la Wallace ne è ricca...) se non si vuole considerare mercato quella schiera di avanguardisti che guarda agli A Short Apnea, giustamente, come i paladini di un certo sentire cosmico. Due istantanee speculari. La prima ricca di elettronica avvolgente e pulsante, che si stende e si rannicchia, si espande e collassa su se stessa, moto ondoso in perpetuo mutamento. Five greeny stages ha invece un tono più anarchico, Zorniano, free e si dipana in un quarto d’ora di registrazioni risalenti al medesimo periodo, quello delle foglie morte del 2000, tagliate e ricucite assieme a formare una violenta raffica di visionarietà anarcoide. Coraggiosi, davvero.

Franco "Lys" Dimauro

A.A.V.V./15 id: fifteen italian dishes/Raving

La neonata Raving records, s’immette nel mercato nazionale con questa compilation che, tautologicamente, presenta quindici bands di varia estrazione ma dalle comuni finalità. Aldilà degli episodi elettronici dei validissimi Autobam e 8 Brr, a spiccare è, infatti, l’omogeneità stilistica dei nomi coinvolti. Questo non svilisce di certo il risultato; al contrario, sembra tracciare da subito le coordinate di un preciso suono Raving: un post-rock/post-core dalle svariate sfaccettature, che muovendo dall’asse Fugazi-June of ’44, approda a soluzioni del tutto originali e pregne di una sorta d’ineffabile mediterraneità. Gli ottimi Caboto, in apertura, ammaliano con una Cactus transistor dalle sofisticate venature fusion. Viceversa gli Almayer, aggrediscono con un quadrato post-core fugaziano; mentre i Vonneumann, fondono i minimalismi da laptop-music con la radicalità concreta degli Starfuckers. Splendido anche il tour de foce di Capital dei Comfort: languida e malinconica, tutta stacchi, sospensioni e improvvise ripartenze. Reminecenze dei Massimo Volume nel recitato di Heisenberg stava battendo a macchina dei Lillayell, dissonanti e nervosissimi. Così come le stilettate metalliche degli Zero Tolerance for Silence e il noisecore dei sempre validi One Dimensional Man. Tale Generoso Gallina, invece, si offre ad una sorta di cabaret post-punk sopra le righe che, vuoi per l’uso del francese, ricorda certe cose dell’Enfance Rouge. Un ottimo lavoro, insomma, per un’etichetta giovane ma dalle tante potenzialità.

Alessio Bosco

ALEC EMPIRE/INTELLIGENGE AND SACRIFICE/DHR

Allora, cominciamo dall’inizio: Alec Empire era la mente e leader degli Atari Teenage Riot, band tedesca dalla furia iconoclasta di tecno-punk-metal, disciolti a causa della morte di Carl Crack, uno dei singer del gruppo, morto per un’overdose di barbiturici. Ok, rimessosi in proprio, (Alec vanta già diversi dischi solisti che gli avevano già portato una discreta fama, prodotti all’‚inizio dei 90‚ per il mercato elettronico dei club d‚elite di tutta Europa), ha voluto fare questo doppio album, che presenta due aspetti del suo modo di proporre musica. Il primo dischetto offre musica violenta e rumorista ai limiti della tecno-hardcore mescolata al metal industriale di gruppi quali Nine Inch Nails su tutti e di Ministry. La voce si presenta sempre distorta e urlata, intervallata da attimi fugaci di voce quasi parlata: momenti d’attesa prima della bordata di suono metallico prodotta dal disco. E‚ un disco violento, senza compromessi, alcuni riff di chitarra sono rubati da pezzi di altre importanti band internazionali, come ad esempio in Addicted to you, il giro di chitarra sembra dei Joy Division di Interzone, e in Buried alive il riff portante è un pezzo degli Slayer. Diciamo che questo disco presenta una sorta d'Atari Teenage Riot in versione più "orecchiabile" a livello di produzione e a livello di quadratura dei pezzi, in altre parole pochi momenti sperimentali, solo gran rabbia e troppa rigidità nella struttura dei brani: questo ne compromette l’ascolto a mio parere, essendo abbastanza noioso e fastidioso. Il secondo disco è il contrario del primo, musica solo elettronica eseguita dal solo Empire, (nel primo cd c’era anche l’affascinante Nic Endo a dargli una mano a far casino!). Musica elettronica più congiungibile all’Empire prima maniera, forse un po’ noioso e gratuitamente banale anche quest’ultimo dischetto, ma non da buttare.

Andrea Giuliani

ANATROFOBIA/Lecosenonparlano/Wallace

Il nuovo disco degli Anatrofobia, così come quelli che lo hanno preceduto (quattro, credo...perlomeno tanti sono quelli in mio possesso) ti costringono ad un attenzione a cui ormai ci si è in larga parte disabituati. Un disco difficile, penserete voi. Dipende. A me di recente è risultato più difficile e molto, ma moooolto più indigesto ascoltare l’ultimo Red Hot Chili Peppers, ad esempio. No, molto più semplicemente Lecosenonparlano è un disco che si prende ciò che gli spetta di diritto: la vostra attenzione, la vostra capacità di farvi sorprendere, non di aspettare il ritornello mentre vi state calando le braghe nel bagno di casa vostra, smaniosi di cantare il refrain. La musica degli Anatrofobia è invece sfuggente, smaniosa, in movimento perpetuo. Mai paga, mai comoda, mai sicura. Imprevedibile, come il suo pubblico. Che dubito abbia un’identità precisa siccome è vero che il pennello del gruppo piemontese si intinge spesso nella tavolozza jazz ma quelli che poi mette sulla tela non sono quadri che potrebbero andare nella stessa galleria di Gillespie, Mingus o Parker. Non gli sono superiori, semplicemente diversi. Vicini sì allo spirito di un Coleman o di un Coltrane ma anche a quello di certi Tortoise, per esempio, o di certi scorci prog dei 70' s (non che i Tortoise non ne siano distanti...) anche italiani (penso agli Area). Una cosa che mi piacerebbe sviluppassero sarebbe invece l’uso della voce che, inserita come elemento di disturbo più che come elemento melodico (come succede qui in Fleurdumirage e Propaganda), potrebbe accentuare l’effetto straniante della musica anatrofobica. O forse è meglio lasciare che lecosenonparlino?

Franco "Lys" Dimauro

ANDREW DUKE/Sprung/Bip Hop

Andrew Duke è un canadese che suona elettronica sin dal 1987. Ha fondato una sua etichetta, la Cognition audioworks, nel 1990 ed anima sperimentali show radiofonici e radio/online seguiti in tutto il mondo. Da visitare anche il suo sito internet (stimato e ottimamente valutato dal magazine specializzato The Wire; una lista di 100 importantissimi siti è stata pubblicato su quella rivista nel numero dell’ottobre 2000). Oltre ad avere partecipato a svariate compilation, tra le quali ricordiamo doverosamente almeno l’eccellente Bip_hop generation v. 5, ed aver registrato una dozzina di dischi fra live, ep e cd, sta preparando lavori per etichette quali Phtalo e Staalplat. Questo Sprung ha comunque qualcosa di malsano. Qualcosa di sadomaso si nasconde nel suono: soprattutto sotto di esso e tra i suoni che compongono le tracce. C’è un oscurità maligna che fa male direttamente ai timpani e, indirettamente, al cervello che ci sta in mezzo, ma come se non arrivasse dai sensi ma quasi telepaticamente. Anche adesso, ecco che prende le tempie e le stringe in morsa. Alla lunga non si riuscirebbe, almeno io non sempre riesco, ad andare fino in fondo all’ascolto senza avvertire un fastidioso dolorino (e se ascolto in cuffia devo abbassare) che non si sa da dove spunta perché il suono apparentemente non è pesante, distorto, distruttivo: come se ci fosse qualcosa di sottilmente subliminale, che cova sotto un’attitudine perfida. Certo il suono è denso e martellante ma non esplicitamente soffocante (ma sono convinto che il groove stesso e soprattutto ciò di cui è fatto il groove nasconde insidie), non liberatorio; il vicino del piano di sopra che sta trapanando il muro a scatti intermittenti si accorda benissimo con la parte centrale della traccia sei che adesso sto riascoltando. Ci sono nonostante pezzi di maestria e abilità ed esperienza come il guaito del gatto, le ranocchiette e altri spunti vitali, tanto per non soffocare. Sarei molto curioso di vedere l’effetto che fanno alcuni brani (e ce ne sono di molto ritmati, quasi da ballo paralizzante) a volumi molto alti, suonati davanti ad una piccola folla. Lavoro davvero complesso, magari non allettante e docile ma ricco di sfumature e di gamme sonore disparate. Se ci fossero cattivi darkettonissimi technopunk assidui di malefici suoni da rave nerissimi all’ascolto glielo consiglio freddamente. Non siamo, per quel che mi riguarda, ancora prossimi a quel nero e fosforescenze, che ci aspettiamo.

Giovanni Vernucci

BECK/Sea Change/Geffen

L’ennesimo ritorno spiazzante di Beck. Dimenticate il partydisco di Midnite Vultures e immaginate subito la California della metà degli anni ’60 abitata dai Byrds, oppure alla Tanwort In Arden del Drake più tormentato, ora è lì che sosta Beck. Quindi, stiamo parlando di folk nel senso più ampio del termine, Quel folk che Beck a sempre imbastardito ora lo rende puro, niente rap, niente loop, solo lui, la sua voce e tanti, tanti archi ad accompagnarlo. Per rendersi subito conto di dove abiti oggi Beck bastano i primi secondi dell’iniziale ”The Golden Age”, classica folk song dal sapore antico ma con un appeal squisitamente attuale, lo stesso vale anche per “Guess I’m Doing Fine”, episodi fluidamente dolci dal retrogusto malinconico, anche se a stupire sono brani come “Lonesome Tears” (con immenso crescendo d’archi finale) e soprattutto “Round The Bend” dove ci mostrano un signor Hansen novello crooner alla Scott Walker, voce bassa e colate di malinconia. Grande album insomma, grazie anche al fondamentale apporto in fase di regia di Nigel Goldrich, senza di lui forse questo disco suonerebbe come un ottimo album di moderno folk, invece lo trasforma in un grande album di folk moderno. Ne ha fatta di strada questo “loser” che una volta si definì come “il Bon Jovi degli anni ‘60”……

Gianni Avella

BLACK HEART PROCESSION/Amore Del Tropico/Touch And Go

Li avevamo lasciati nei fondali di un mare in tempesta. Adesso i Black Heart Procession riemergono da quegli abissi ed è mutazione. “Amore del Tropico” rappresenta la trascrizione in suono di un lutto oramai elaborato e metabolizzato. Fuori Nick Cave e Tom Waits, dentro Serge Gainsbourg (l’efficace melodia di Broken world) ed Henry Mancini (il seducente tema noir di The invitation). Non più tempi agonizzanti e litanie scabre, ma ritmiche spesso concitate (il consueto honky-tonk di Did you wonder, sorretto da chitarre ai limiti dell’hard-rock) e coretti femminili a profusione. Lo spettro dei generi saccheggiati è notevolmente più amplio rispetto al passato (le cadenze quasi lounge di Tropics of love, l’accorato soul orchestrale di A cry for love) e talvolta si ha l’impressione che il gruppo tenti di parodiare il disfattismo esistenzialista messo a nudo in modo così sofferto nei lavori precedenti. Alla fine ciò che manca, nell’eterogeneità di stili, è proprio la qualità della scrittura (troppi i brani superflui, soprattutto in coda). Forse il meglio rimane dalle parti di Leonard Cohen (il country&western di Why I stay e la ballata senza tempo di The one who has disappeared), ma Pall Jenkins e Tobias Nathaniel hanno oramai più l’aspetto di due consumati entertainers che non di due sinceri cantori del mal d’amore e quella cui assistiamo finisce per sembrare più che una processione del cuore nero una crocifissione in rosa.

Davide Romeo

BLACK TAPE FOR A BLUE GIRL/The Scavenger Bride/Project

Praga, 1913. La primavera è già alle porte, ma la città è ancora immersa in una nebbia densa e grigia. Uno spazzino pulisce le strade con la sua scopa, il suo compito è quello di renderle linde, perché tutto era lindo una volta, anche la gente lo era, tanto da potere vedere il sangue scorrere nelle vene e indovinarne i pensieri. Ma c’è una donna che passa di lì ogni sera sul tardi, la cui anima è indecifrabile, perché oscurata da mille paure, e lui è consapevole di non poterle leggere dentro. Una donna che ha avuto molti corteggiatori che l’hanno prima amata e poi persa, che ha vissuto passioni da cui era impossibile uscire illesi e che presto diventerà sposa. Ma lei è realmente preparata a questo? (“you ask if I’d like to be your bride? I don’t even think I can be your friend”). Si può romanzare, credo, in questo modo la storia che fa da filo conduttore ai 13 brani di questo bellissimo, elegante, suggestivo ultimo lavoro dei Black Tape for a Blue Girl, ispirato ai lavori di Franz Kafka e Marcel Duchamp. La voce avvolgente di Elysabeth Grant, ora soave, ora urlata, graffia e accarezza al tempo stesso, e primeggia sulle altre voci maschili che, comunque, danno il loro importante contributo perché la storia si sviluppi in un vortice di lamenti e ronzii (viola, violino e violoncello sono sempre in primo piano) immersi in atmosfere fosche, cupe e inquietanti. Per raccontare di passioni divoranti, desideri ed emozioni che prendono il sopravvento su tutti i sensi, che aiutano a scacciare gli inganni e a liberarsi dalle paure. Ma i momenti più alti, anche dal punto di vista dell’incisività dei testi di Sam Rosenthal, si hanno sicuramente in “The lie which refuses to die”, “The scavenger’s daughter” (lei si causa tagli e abrasioni legandosi collo, caviglie e polsi, unico modo per mostrare come le paure e le insicurezze altrui limitino la sua libertà, pura follia delirante agli occhi di lui), “The Whipper” (lei è attratta dai colpi di frusta e dalle urla dei due uomini che ha amato e chiede una copia di se stessa per ciascun uomo, per sacrificarsi al loro posto) e “Bastille Day, 1961”, che chiude l’album con un lamento malinconico sullo sfondo di un piano ossessivo. Menzione speciale anche per il brano dedicato a Klaus Kinski e per la cover “Shadow of a doubt” dei Sonic Youth, un fremito nervoso e sensuale, un crescendo di piano, percussioni e viola quasi orgasmico, da brivido e che sicuramente vale da solo l’ascolto dell’album. Ascolto da effettuare assolutamente ad occhi chiusi.

Antonella Fontana

BOVINE LIFE Vs + KOMET/Reciprocess 01/Bip-hop

Oltre alla serie delle compilation Bip-hop generation, sempre più acclamata e oramai giunta al sesto volume, Philippe Petitt boss della Bip-hop, si inventa una nuova serie.Ma non si tratta di una semplice compilation o di semplici remix o di semplici collaborazioni. Si tratta di un’operazione dall’interessante sfondo concettuale che speriamo dia frutti sempre migliori. La serie si chiama Reciprocess e consiste nel produrre uno scambio pratico e operativo tra due artisti che nello specifico si svolge tramite modem. Cervelli e loro operati che si connettono trasformandosi tramite la rete, anime che comunicano telem (p) aticamente grazie alla corrente e al codice binario. Nell’album vengono accolti brani che i due si remixano a vicenda, brani dell’uno e dell’altro e brani composti insieme da entrambi. Nella prima uscita di tale progetto dobbiamo dire che è stata coinvolta l’etichetta Fallt e che sono stati scelti due compositori elettronici che si completano in un certo qual modo a vicenda. Komet del giro Raster-Noton che ha pubblicato anche per la Mille Plateaux e Bovine Life che ha pubblicato un album per la Bip-hop nel 2001; fautore di un suono pulito ed equilibrato e di un metodo compositivo ordinato e decisamente chiaro il primo, che usa suoni più ruvidi e si avvale di un metodo di composizione distratto e quasi casuale, che segue molto l’intuizione dell’istante, il secondo. Dunque dei diciassette pezzi quattro sono di Komet (Frank Bretchneider) 7 di Bovin Life (Chris Dooks) quattro sono a quattro mani e due (le tracce di apertura e presentazione) sono i rimaneggiamenti vicendevoli: remix e ricostruzioni. Quindi ce ne è per tutti i gusti. Per me lo scontro comunque lo vince Komet. Bovine life fa molta simpatia naif e piacerà molto, credo, a gente simpaticamente naif che sa stare allo scherzo, tenendo conto che sa anche chiudere alla grande il disco con una bellissima traccia di autoricerca piena di contorsioni, sbucamenti e sparizioni. Molto belli davvero i momenti di incontro scontro che compongono la parte centrale del disco. In fin dei conti l’esperimento è riuscito e l’esito ci fa ben attendere il proseguimento [ che non dovrebbe tardare se non vedo male] e magari lo sviluppo del progetto. Mettere insieme le realtà indipendenti è e sarà un passo importante, laddove possibile, a tutti i livelli.

Giovanni Vernucci

CINEMATIC ORCHESTRA/Every Day/Ninja Tune

“Cinematografico” fin dal nome, l’ensemble che fa capo a Jason Swinscoe e Phil France si conferma artefice di ideali colonne sonore per noir americani degli anni ’40, per certe pellicole della nouvelle vague oppure per un futuro film di ambientazione metropolitana firmato da Peter Greenway. La vera novità rispetto all’esordio interamente strumentale di “Motion” è la presenza di due vocalists: lo stimato rapper britannico Roots Manuva, protagonista in “All things to all men”, e l’icona femminile del jazz americano Fontella Bass (voce in passato anche per l’Art Ensemble of Chicago ed ex moglie di Lester Bowie), la quale interpreta da par suo “All that you give” ed “Evolution”. E sono proprio le tre bellissime canzoni del disco a definire i confini sonori – si va dall’hip hop metafisico al jazz venato di soul - di quella che è senza dubbio una delle realtà più interessanti dell’intero catalogo Ninja Tune.

Guido Gambacorta

DAVEY WILLIAMS & JOHN CORBETT/Humdinger/Atavistic

Un po’ tra plunderphonia, presa per il culo, improvvisazione e musica di ricerca, questo duo di Chicago ci propone quasi un’ora di ideuzze e trovate molto divertenti, se non interessanti. Per fortuna la cosa si fa spesso massimalista (anche se sempre con classe), e i pezzi di soli suonini sparsi sono pochissimi. Anche qui qualche stereotipo di troppo della musica improvvisata come genere, ma nell’insieme non c’è male. A chiudere un disco veramente particolare, un saggio dello stesso Williams all’interno del ricercato libretto che partendo da disegni di strumenti inventati (e disegnati da Hal Rammel per la rivista Experimental Musical Instruments di Bart Hopkin, una delle più importanti al mondo per quanto riguarda gli strumenti autocostruiti, ha anche pubblicato almeno due volumi con cd allegati notevolissimi) riscrive la storia degli strumenti a fiato (e in special modo degli ottoni) in modo molto divertente e intelligente. Una storiografia parallela e dadaista che farà felici molti lettori.

Jacopo andreini

DEUS EX MACHINA/Cinque/Cuneiform

Premettendo la mia sostanziale estraneità a questo tipo di sonorità, il sestetto allargato di questo disco mi ha sorpreso. Presenti sulla scena progressive dal 1985, autori di dischi molto ricercati, propongono questa ultima fatica mettendo a fuoco definitivamente tutte le caratteristiche che li hanno resi “una delle cinquanta band progressive più influenti”. Registrato con precisa e discreta mano da Stefano Lugli, l’album ha una coesione invidiabile. Cantato in buona parte in latino (scelto come soluzione ideale nell’eterno dilemma tra italiano e inglese nel rock), suonato con perizia rara, arrangiato per lasciare spazio a tutti i musicisti (anche se la chitarra si ritaglia più di uno spazio per se’), con la voce di Alberto Piras che suggella il tutto come un marchio di fabbrica. Personalmente, insieme a tutti questi pregi trovo però un difetto fondamentale: per il 99% il tutto è lo stereotipo della musica progressive, dai suoni, alle strutture, alle lineee armoniche. La voce di Piras (torna sempre in ballo perché banalmente è la cosa che colpisce di più) è sì perfetta ma allo stesso tempo impostata sul modello dello Stratos più pop/rock. Quindi alla fine tutte le complicazioni ritmiche, i passaggi più arditi, le chitarre acustiche vicine ai Gastr del Sol dei primi due album alla fine vengono schiacciati dai loro stessi pregi. Ma questo è un giudizio personale; gli appassionati del genere ascolteranno questo disco fino alla morte.

Jacopo andreini

DSP/In the red Ninja Tune/Ninja Tune

Si fa un gran parlare del nuovo hip hop statunitense, con la crew Anticon ed i vari Clouddead, El-p e Cannibal Ox che stanno riscrivendo le regole del genere. E dall’altra parte dell’Atlantico cosa succede? Ascoltando “In the red”, seconda prova su Ninja Tune dei londinesi Dynamic Syncopation Productions, sembrerebbe che l’hip hop britannico anziché guardare avanti stia guardando indietro: le basi con le quali Jonny Cuba e Lo Professor incalzano le liriche degli mcs (Mass Influence, Apathy, Juice Allen, Def Tex…) sono infatti intrise di buon vecchio funky soul (sì, proprio quello del “godfather of hip hop” James Brown!), assimilato dai due DSP con una sensibilità affine a quella dei colleghi di scuderia Herbaliser. Nulla che non si sia già avuto modo di ascoltare quindi, eppure la musica dei DSP è dotata di una tale freschezza che alla fine l’unico grave limite di “In the red” risulta essere la mancanza di quel paio di potenziali hits capaci di far compiere il salto di qualità definitivo a tutto il disco.

Guido Gambacorta

 


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