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Music - CD Reviews - Review | by SuccoAcido in Music - CD Reviews on 01/09/2002 - Comments (0)
 
 
 
Lo-Fi Sucks!, Manowar, Manual, Marco Sanchioni, Melvins, Miele, Mirah, Morose, Onomatopea, Ovo, Planet Funk, Pölis, Prg, Redworm’sfarm, Revolver, Scarapocchio, T.H.U.M.B., The Books, Trans Am, Valentina Dorme, Vert, Warlord, Yeah Yeah Yeahs, Zu.

Lo-Fi Sucks!, Manowar, Manual, Marco Sanchioni, Melvins, Miele, Mirah, Morose, Onomatopea, Ovo, Planet Funk, Pölis, Prg, Redworm’sfarm, Revolver, Scarapocchio, T.H.U.M.B., The Books, Trans Am, Valentina Dorme, Vert, Warlord, Yeah Yeah Yeahs, Zu.

 
 

LO-FI SUCKS!/Pink Moon ep/Marsiglia

Per i seguaci dei Lo-fi sucks! e per tutti gli amanti del rock a bassa fedeltà questo pubblicato dalla Marsiglia Records è un ep a dir poco goloso, perché ripropone un 7” originariamente stampato dalla Beware ed ormai introvabile con l’aggiunta di frammenti live e di un paio di inediti. La ciliegina sulla torta è chiaramente rappresentata dalla cover di “Pink moon”, che vede la melodia di Nick Drake per voce e chitarra acustica riletta con il dovuto rispetto ma anche con piglio originale (tramite basso, batteria e chitarra elettrica) come si addice ad una cover degna di questo nome. E l’ep regala poi altri bei momenti: i singhiozzi pop di “I’ve lost my faith in my favorite record dealer / Hey hey Ray”, l’ispirazione sonicyouthiana di “Handful of peanuts” e “Symphony of death”, i sussulti emotivi di “Coolest in town”, ed ancora “Me and Nick Drake” (poi divenuta episodio di “Temporary burn-out”), che fin dal titolo ribadisce l’affinità elettiva dei Lo-fi sucks! con il menestrello inglese.

Guido Gambacorta

MANOWAR/Warriors Of The World/Nuclear Blast

Nono album in studio per lo storico gruppo Americano che, pur non riuscendo più a sfiorare la grandezza di album quali “Into Glory Ride” (’83) o “Hail To England” (‘84) ed autocelebrandosi forse un po’ troppo nel suo ruolo di “re del metallo” ad uso e consumo dei fans più giovani e meno smaliziati, si produce comunque in un lavoro dignitoso e con svariati elementi di sicuro interesse. Sul lato A (si, esiste anche la stampa in vinile) svetta l’ opener “Call To Arms”, che richiama l’ incedere maestoso ed incalzante del classico “Blood Of My Enemies”, ma colpiscono positivamente anche le rivisitazioni in chiave metal di “An American Trilogy” di Elvis Presley, tutto sommato fedele all’ originale, e della pucciniana “Nessun Dorma”, graziata da un’ ottima prestazione vocale di Eric Adams. Il lato B riserva meno sorprese ma risulta nondimeno estremamente compatto e trascinante con inni di battaglia quali “Warriors Of The World United” (uscita anche come singolo), e le più tirate “Hands Of Doom” e “Fight Until We Die”. Mi dispiace che i Manowar abbiano da anni accantonato l’ alone mistico-sacrale del loro epic metal in favore dell’ suo aspetto più anthemico ed arrembante, ma in quanto a forza d’ urto i quattro Newyorkesi ribadiscono comunque la loro leadership nel settore.

Salvatore Fallucca

MANUAL/Ascend/Morr Music

Seconda prova per i Manual (il Manual, considerando che Jonas Munk è il deus ex macchina del progetto), sempre in vena di elettronica amorevole anche questa volta la musica si pone sulla linea di confine che separa le atmosfere dreamy a là 4AD dall’ambient/new age ma risultando meno a fuoco rispetto all’album precedente “Until Tomorrow”. Ascend si snoda in episodi che se ascoltati nella giusta predisposizione possono regalare viaggi astrali in dimensioni parallele (“Midnight Is Where The Day Begins”, “Astoria” e As The Moon Spins Around”) ma quando eccede in certa new age discutibile (“Keeps Coming Back” e “Am”) tale viaggio si sgretola terribilmente. L’unico consiglio che posso dare è: Ascoltate Ascend in piccole dosi e può anche regalare piccole soddisfazioni ma senza eccedere, in tal caso potreste annoiarvi terribilmente.

Gianni Avella

MARCO SANCHIONI/Mite/Pma

Qualcuno si ricorda dei China Drum, band inglese uscita a metà degli anni ’90 con un paio di dischi in grado di suscitare una certa curiosità unicamente per il fatto, abbastanza raro, che il cantante e leader del gruppo era anche il batterista della formazione? Molto probabilmente Marco Sanchioni (per lui un passato con i marchigiani A Number Two) non li conosce neppure i China Drum, ma resta il fatto che musicalmente le canzoni raccolte in “Mite” me li hanno ricordati parecchio, come penso a voi potranno ricordare un’altro centinaio di quei gruppetti sparsi per il mondo che suonano un pop-punk di facile presa, tanto innocuo quanto travestito (male) da rock cantautorale. E i testi? Rime come “Se ti amo oppure no / non t’importa neanche un po’ / vado bene già così / e l’amore è tutto qui” faranno rivoltare nella tomba Giacomo Leopardi, ma anche senza scomodare i grandi poeti credo che con la nostra lingua madre si possa fare decisamente di meglio…. Sanchioni appunta sul suo taccuino storie di solitudine, di quotidiana incomunicabilità e di delusioni amorose utilizzando parole semplici, così semplici da risultare spesso banali. La canzone decisamente migliore (niente di eccezionale, per carità) è la conclusiva “Consuetudine”, che con il resto del disco c’entra poco o nulla, caratterizzata com’è da una pigra cantilena vocale che affiora filtrata tra atmosfere rarefatte. Una possibile nuova direzione per il futuro… visto che non manca poi molto a Sanremo.

Guido Gambacorta

MIELE/Flux/Planet

Miele è un D.J. molto “inserito” nella Napoli notturna e dopo Pista Connection di due anni fa ci riprova con il nuovo Flux. Ora c’è una cosa da chiarire: l’album è prodotto e suonato benissimo ma per quale pubblico? Ascoltando Flux l’idea di Miele sembra quella di rivolgersi ad ascoltatori di un Festivalbar qualunque (quindi per ascoltatori di Delta V e compagnia), cos’è allora Flux? Un album da dancefloor estivo, con pezzi azzeccati (in modo particolare quelli cantati dalla sola Ila, vedi “Dolce”, “Cattive Intenzioni” e “Amabile”) e ruffianerie varie (il classico attacco al sistema (musicale) degno dei 99 posse di “Musicanarkica”). Il giudizio su Flux è semplice, dura il tempo di una notte in discoteca (come i Delta V del resto) ma se continua cosi Miele con il prossimo album potrebbe anche aspirare ad un posto nel festival sopra indicato e magari riuscendo anche a far ballare più dei Delta V.

Gianni Avella

MIRAH/Advisory Committee/K records

Mirah e ammira. E la recensione potrebbe finire qui. Però però... che c'è da ammirare, vi chiederete giustamente. Diciamo una delle voci più calde e struggenti di tutto il rock contemporaneo. Ricordate Chan Marshall e Tara Jane O'Neil? dimenticatele. Questo frutto proibito del sottobosco indie americano è da brividi, così caldo e intenso che le batte tutte, senza lasciar scampo a nessuna. Forse un timbro simile si può ritrovare in quella che fu la 'star' dei Mazzy Star, Hope Sandoval, ma in questo caso le musiche - tipicamente K records - la elevano a vera eroina del cantautorato femminile contemporaneo. Folk cantautorale, sì, ma capace di divorare e vomitare sotto forma di poesia e creatività tutti i suoni più nuovi e stimolanti del presente (e forse anche del futuro). I pezzi sono il più delle volte costruiti in modo genuino e spontaneo, secondo una logica di libertà espressiva e di felice anarchia tipica del lo-fi - per la quale si può tranquillamente chiudere un occhio quando si incappa in pezzi costruiti un po’ alla buona. Mirah è giunta, dopo diverse collaborazioni con i Microphones - P.S.: è Phil Elvrum che produce il CD - a questo secondo disco solista, seguito più maturo e completo del precedente You Think It's Like This... Che dire, è con sorpresa e gioia che ci si imbatte in perle elettro-pop sognanti e motoristiche (After You Left) o in un pop da classifica così scontato che farebbe dubitare chiunque, ma così minimale e stuprato che soltanto i pazzi lo potranno adorare (Recomendation, Special Death), oppure perdersi letteralmente in quel capolavoro che è Mt. St Helens, che parte celtica e medievale per far poi risplendere la voce di Mirah lontano anni luce da qualsiasi songwriting possibile, grazie anche a un lavoro di studio riuscitissimo e ad elettroniche che non ti saresti mai aspettato, proprio lì. Ancora non vi basta? eccovi allora l'angelica title track, che parte soave quasi fosse un jingle appena arrivato da un utopico futuro ed esplode poi in entusiasmanti contorsioni pop, sopra le quali si sentono forti la mano e il tamburo di Elvrum. Che dire, peccato per quei quattro, cinque pezzi meno riusciti, ma datele un po’ di tempo e saprà perfezionarsi. Per ora godiamoci il fresco e sorprendente Advisory Committee, e soprattutto la voce di Mirah, astro nascente avant-folk destinato a risplendere a lungo nel firmamento indie-rock americano.

BakuniM

MOROSE/Best regards from Hungary/Ouzel

Nati nel 1998 a La Spezia e composti da Mauro Costagli (il padre della Ouzel Records), Davide Saranza e Luca “ONQ” Galoppini, i Morose suonano un ottimo pop obliquo che rimanda ai Pavement e, negli episodi appena un po’ più rumorosi (“She’s gonna bury you”, “Priscilla”), ai dEUS di “In a bar under the sea”. Pop obliquo, perché ora scansonato (“May-day”), ora sghembo (“Let’s weep”), ora lievemente malinconico (“Fishing boots”, con tanto di fisarmonica), ora inaspettatamente intimo (la conclusiva “Lonesome” per voce e chitarra). Dalla fase di registrazione all’art-work questo ep è il frutto di un’attitudine totalmente lo-fi, con il cd-r inserito in una busta a forma di cartolina attraverso la quale i Morose ci inviano i loro cordiali saluti dall’Ungheria (che sul sito della Ouzel i Morose ci dicono essere il Paese con il più alto numero di suicidi nel mondo…). E’ attualmente in fase di preparazione il nuovo disco, che ha già un titolo - “La mia ragazza mi ha lasciato” - e che si preannuncia davvero molto interessante. Contatti: morose@morose.cjb.net

Guido Gambacorta

ONOMATOPEA/S.t./Autoprodotto

Coppia non solo artistica ma anche nella vita, Andrea Pietropaolo – basso a sei corde, tastiere, campionamenti e b-vocals - e Delia Lyn – voce, chitarra e flauto - firmano con la sigla Onomatopea un disco d’esordio che unisce in modo già molto convincente soffici melodie pop ad atmosfere jazz e a lontane suggestioni etniche. Risultato di una serie di registrazioni casalinghe ed autoprodotto dallo stesso Andrea, questo lavoro tocca il suo apice espressivo nella notturna “Dreaming”, proposta non a caso in due differenti versioni. Il cantato in inglese di Delia (americana di San Francisco) può ricordare ora Louise Rhodes dei Lamb, ora Björk, ora Rosie Wiederkehr degli Agricantus, ma alla fine riesce ad affermare compiutamente la propria unicità. La freschezza di “The speed of light”, la giocosa “Dreaming about you” e gli otto minuti della lodevole “Chant of the migrating soul” contribuiscono a rendere meno omogeneo lo spleen che attraversa tutte le canzoni del disco, mentre le sicure doti compositive del duo sono la migliore garanzia possibile per la crescita futura del progetto Onomatopea. Contatti: andy@onomatopea.com

Guido Gambacorta

OVO/Vae Victs/Bar La Muerte

E' un luogo misterioso. Si raggiunge attraverso sentieri luridi e infangati, sporchi di plastiche e residui di macchinari industriali (Boredoms) oppure altri, angusti e soffocanti, solcati da cavalcate epico-epilettiche di chissà quali bestie, assassine, feroci (Flying Luttenbachers), ed altri ancora, geograficamente più vicini alle nostre terre, deserti e straziati, colmi di 'oggetti', quasi fosse il dopo-bomba asettico di un qualche supermarket esploso (Allun). Un luogo misterioso dunque, e forse nemmeno uno. Questi può infatti assumere le sembianze - a vostro piacimento - di un palcoscenico teatrale spoglio, arricchito soltanto dalla presenza in scena di scarna strumentazione rock-jazz, e di quattro individui, all'occorrenza mascherati, quasi fosse un carnevale per pochi. Oppure, gli stessi individui potreste collocarli in tutt'altro scenario: ricordate la chiesa in rovina sul retro di Vae Solis, degli Scorn? è quello il luogo ideale in cui immaginare i nostri. Bruno Dorella, Stefania Pedretti, Jacopo Andreini li conosciamo sin troppo bene, è quindi inutile dilungarsi. I loro Ovo non hanno perso tempo: si sono già fatti conoscere in Italia e non solo - la loro dimensione è dal vivo, come si sottolinea tra le note di copertina - e così l'ovetto free-noise italiano se ne è già volato qua e là per il globo, dagli USA alla Macedonia, riscuotendo sorprese, facce storte e insperati successi. Questo Vae Solis è una sorta di EP celebrazione per la fine del loro tour, e la fine di una fatica diventa festa, la festa per i nostri è baccanale e orgia, sorta di stupro acustico pianificato, e nessuno lo capirà questo senso di fine urlata, di gioia del finire, suprema auto-coscienza dell'io e del tempo passato/passante. Nessuno. Li insulteranno. Li sfregeranno di appellativi non loro, né per loro né a chi come loro. Non ascoltateli. Vae Solis è un EP per chi è pronto ad amare Bruno, Stefania, Jacopo e tutti gli altri soprattutto per le loro persone e per le loro vite, più ancora che per la loro musica.

BakuniM

PLANET FUNK/Planet Funk/Autoprodotto

Se è vero, com’è vero, che in Italia la dance é stata ormai sdoganata dai pregiudizi dei rockettari, questo esordio dei napoletani Planet Funk ne è un ulteriore conferma. In realtà ci avevano già pensato Casino Royale e Almamegretta ad avvicinare due mondi solo apparentemente distanti, mentre nel frattempo raccoglievano (e raccolgono) i frutti di semine altrui gli ormai ‘nazional-popolari’ Subsonica. Certo per il team di dj partenopei non si tratta di battere le stesse strade dei cinque torinesi, visto e considerato che l’uso della lingua inglese li potrebbe tagliar fuori da una fetta di mercato ‘nostrana’ che, a ragion veduta, potrebbero tranquillamente recuperare oltreManica. Anche perché qui dentro gli ingredienti per spopolare al di fuori dai confini nazionali ci sono tutti: spezie pop che si mischiano ad atmosfere da dance-floor, trip-hop in debito di malinconia e, soprattutto, una cura dei suoni decisamente sopra la media nazionale. Ecco quindi spiegati i ‘trucchi’ di un cd che al momento non sembra avere eguali dentro e fuori i patri confini, tanto che anche network, televisivi e radiofonici, si sono accorti da tempo della validità del progetto. Come rimanere infatti indifferenti a strepitosi singoli quali “Chase the sun”, “The switch” e “Inside all the people”, che saranno pure mainstream ma suonano divinamente. Come suonano divinamente anche le restanti 8 tracce, meno paracule, ma tutte degne di essere ascoltate - e riascoltate - senza molti pregiudizi di sorta. All’opera partecipa anche Raiz from Almamegretta su “Tightrope artist”, dove dà nuovamente prova delle sue abilità vocali in un brano che, crediamo, i disc-jockey gli hanno cucito su misura. Un altro (grande!) manufatto italiano da esportare all’estero… e stavolta la lingua non dovrebbe essere un problema.

Carlo Raviola

PÖLIS/Ich/Pussy Koan

L'anticiclone delle Azzorre, ostaggio del presidente dei presidenti, non ci ha portato bel tempo quest'anno; ovvero, ce lo ha reso come un qualcosa di improvviso, imprevedibile, da prendere come e quando viene..i Pölis suonano con un pedigree neroelettrificato di tutto rispetto, senza parole (o quasi), nel modo in cui ci hanno lasciato gli anni trascorsi, a bocca chiusa e testa china su oggetti di modernariato come il vocoder, i monoculari per vedere le diapositive, le tappezzerie geometriche, la Democrazia Cristiana di Andreotti, la R4 di Moro, il tg1 di Fede, le televisioni ellittiche, le tastierine analogiche, i goal di Platinì e Rumenigge, le videocamere che si rimpiccioliscono nel trascorrere del tempo ed un ricordo sfuocato di Remì e le sue disgrazie. Ich habe nichts zu verzollen, fondo su cui trascrivere sequenze impresse su cellulosa.

Andrea Pintus

PRG/Per Grazia Ricevuta/Mercury

Ha impiegato circa tre anni Giovanni Lindo Ferretti per smaltire la sbornia da profeta multimediale (produzioni discografiche, megaconcerti, interviste, apparizioni radiofoniche, monologhi, libri, films, documentari, colonne sonore) che travolse fatalmente i suoi CSI e con essi l’esperienza dell’etichetta Consorzio Suonatori Indipendenti. Fra “Tabula Rasa Elettrificata” (ultimo disco dei CSI: quello del grande successo, ma anche quello a mio modo di vedere meno appassionante della loro intera discografia) e questa prova della nuova creatura Per Grazia Ricevuta, praticamente i CSI senza il solo Zamboni, ne sono successe di cose: la rottura umana e artistica tra Ferretti e Zamboni appunto, dopo la splendida stagione dei CCCP e dopo quel vero e proprio fulmine a ciel sereno sull’Italietta del rock che fu la nascita dei CSI nel 1994; poi le occasionali rimpatriate live, come il concerto con Goran Bregovic a Firenze nei primi giorni del 2000; ed infine i vari progetti solisti dei componenti del gruppo, con l’uscita due anni fa del disco elettronico di Giovanni Lindo Ferretti. Proprio “Co.dex” può essere preso come utile pietra di paragone per iniziare l’analisi di questo cd, poiché i Per Grazia Ricevuta fanno abbondante ricorso all’elettronica (e ad un primo ascolto si presentano come la versione digitale dei CSI di “T.R.E.”), con la chitarra di Giorgio Canali resa meno graffiante dai suoni elaborati da Hector Zazou. Se però il canto intimo e sofferto della prova solista di Ferretti ammaliava l’ascoltatore con ritmiche ipnotiche, qua invece i Per Grazia Ricevuta non sempre riescono a trovare la quadratura del cerchio (convincenti le cadenze elettroniche di “Ah! Le monde” e di “Blando comando telecomandato”, ma “Sorgente d’Asia” è un’insulsa ballata trip-hop e “Come bambino” è una canzone del tutto trascurabile), cercando addirittura nella filastrocca “Settanta” di fondere l’elettronica con lo spirito punk dei CSI (e gli esiti non sono entusiasmanti). “Co.dex” era un vero e proprio viaggio solipsistico condotto da Ferretti alla ricerca di una palingenesi personale, al contrario i Per Grazia Ricevuta si aprono al mondo, con fiducia e timore allo stesso tempo, intonando un canto panteistico che arriva ad abbracciare l’Asia e l’Africa (frontiere attraversate da Ferretti sia come instancabile viaggiatore – i testi sono stati in parte scritti durante un suo soggiorno in Sudafrica - che come curatore di vari festivals di musica etnica). Nel disco c’è una varietà di suggestioni ed atmosfere che lascia persino un po’ spiazzati: si inizia con “Krsna pan Miles Davis e Coltrane”, inno a più voci cantato da Giovanni Lindo e Ginevra (con impercettibile comparsata anche di Piero Pelù…), e si conclude con il banale e francamente evitabile tributo ai poliziotti americani di “11 settembre 2001”, passando per l’incontenibile danza rasta di “Tramonto d’Africa” e per la poesia “Montesole” dedicata alla forza dell’amore e della comprensione (“L’amore non lo canto / è un canto di per sé / più lo si invoca / meno ce n’è”). Qualche vecchio proclama rispolverato senza troppa fantasia da Ferretti in “Sorgente d’Asia” e “Settanta” fa ipotizzare anche una latente mancanza di linfa creativa, ma questo in fondo è un disco apprezzabile, perché a suo modo coraggioso. Ci vuole infatti coraggio a ritrovare le parole dopo averne fatto abuso.

Guido Gambacorta

REDWORM’SFARM/Halley Nation/Halley

22 minuti e 52 secondi, sei tracce anonime (perché sono senza un nome), di tre ragazzi del nord est per due chitarre ed una batteria; sto dando i numeri? No, sto ascoltando il cd di un gruppo che per l’acuta sonicità sembra strano possa essere Italiano, ovvero, potrebbe ben venire da un qualsiasi altrove, da qualche post-luogo dislocato in un punto non ben precisato (come il minimale artwork del cd) dell’universo..anche se un pochino a Washington D.C. devono esserci virtualmente stati. Ma sarebbe limitativo dire di questo lavoro, che assomigli a questo o a quel gruppo (americano). Cieli tersi e plumbei, la Macchina di Dio non si è mai fermata, e soffia maestosa la sua rabbia misurata.

Andrea Pintus

REVOLVER/Egg/Pma

Quante saranno le persone interessate ad avere questo “Egg” a parte gli amici intimi dei Revolver, i quali mi auguro siano abbastanza intelligenti da farsela regalare una copia del cd, e a parte qualche fan malato dei Beatles che per la sua collezione monotematica va alla ricerca della cinquecentesima cover di “Hey Jude”? Mi spiegate che senso ha dare alle stampe un cd con tredici (dico tredici) covers degli scarafaggi suonate in modo loffio e del tutto anonimo (pessimi i suoni di batteria) con in più aggiunti sette pezzi di propria creazione (?) che si rifanno pedissequamente allo stile di Paul McCartney e soci? I Revolver sono una cover band anche un pochetto sfigata, perché più o meno in contemporanea con “Egg” è uscita nei negozi la colonna sonora di “I am Sam”, la quale racchiude 12 riletture di grandi canzoni dei Beatles firmate da Ben Harper, Stereophonics, Eddie Vedder, Nick Cave, Grandaddy, The Black Crowes, così per fare qualche nome, e avendo soldi da spendere in raccolte di covers dubito che qualcuno avrebbe dubbi su quale dei due dischi orientarsi. E certo non può invogliare all’acquisto di “Egg” neppure il prezzo imposto, visto che 15,44 euro per questo cd sono assolutamente un’esagerazione!

Guido Gambacorta

SCARAPOCCHIO/S.T./Autoprodotto

Il linguaggio che fu dei CCCP, spogliato d'ogni significato, o meglio, aggiornato al vuoto presente. Ma no. Un incedere d'ironia meccanica - transistor, vagine, endoscopie transrettali. Sembra quasi di stare in un McDonalds, ascoltando queste musiche, mentre vieni deriso da un marocchino per come tagli la lattuga. Se la prendono con l'ottusità medio-borghese, forse, e come dargli torto. Ma veniamo ai pezzi. Si parte con il loro inno, l'isterica Bafe/Alfe, con tanto di mandolino elettrico (!) per poi imbattersi nel motivetto 'cartoon' Spermicidio, autentica perla di buon gusto infantile, innocente e visionario. Notevole anche Butterfly, indie rock spasmodico tra Lou Barlow e i Pavement, mentre tra gli episodi più riusciti impossibile non citare Mangime - che parte Velvettiana per perdersi poi in contorsioni math rock - e infine la trascinante Transistor, dal testo letteralmente e lucidamente folle: 'transistor vive, nella casa del transistor vive, lunga vita a transistor, transistor regna nei cieli'. Dalle musiche di Riccardo Amabili e Marco Canala emerge una classe innata e un controllo sullo strumento praticamente totale (si mormora che i nostri abbiano già collaborato con grandi nomi dell'underground italico... staremo a vedere). Che dire, questo autoprodotto o no è un grande gruppo, e chi non si accorge di loro è un cazzone. Anche gli stacchetti sono ok. Un demo piacevolissimo oltre che ben congegnato, un demo stracolmo di buoni spunti che lasciano pensare ad un buon futuro possibile, insomma, un demo che tra i demo è un piccolo capolavoro. Web: http://utenti.lycos.it/scarapocchio

BakuniM

T.H.U.M.B./Garaged/Autoprodotto

Nel consueto spazio riservato alle autoproduzioni ci occupiamo dei T.H.U.M.B. e del loro secondo demo-cd ‘ garaged’ uscito nel 2001. La band del Trevigiano suona un hard grunge gradevole e schietto - con qualche sforamento nello stoner rock (‘psychodestroyer’)- che riprende a tratti l’acidità garage dei Mudhoney ( ‘the evil one’) e gli ultimi Pearl Jam autenticamente rock ( ‘tell me’). Posti a grandi linee questi gruppi di riferimento, le canzoni di ‘garaged’ hanno il pregio di avere abbastanza palle da non scadere nella clonazione spudorata ma non mostrano ancora una personalità completa ed emancipata mancando di quegli elementi di ‘rottura’che ci farebbero definitamene drizzare le orecchie sul progetto. Aspettiamo di ascoltare il nuovo lavoro, peraltro già uscito ad aprile con una formazione a trio, per chiarirci meglio le idee. Web: www.thumbrock.com

Francesco Imperato

THE BOOKS/Thought For Food/Lab Top

Ed ecco un po’ di musiche “nuove”, dopo l’asfissiante revival di new wave, neo-funk e post punk. Quella proposta dai Books (duo americano formato da Paul De Jong da New York e Nick Zammuto dai Monti Appalachi) è senz’altro una miscela insolita e marcatamente originale (ma forse, chissà, solo per ora). Si è scritto di jam tra la Penguin Cafè Orchestra e Fennesz, John Fahey e Mouse on Mars (da Blow Up), ma sant’iddio, non rende l’idea. Facciamo così, un Nick Drake alla chitarra diretto da Syd Barrett (allucinati entrambi pero), un violoncello qua e là e il nastro che ne esce passato al macero da messer O’Rourke. No, non ci siamo. Pensate al folk allora, un folk del secolo venuto, quindi chitarra e banjo (Ian Williams che coverizza David Grubbs?) sorvolati da strane elettroniche, caldo e freddo, alla ricerca di un equilibrio umano, terrestre, autentico. Ma di folk elettronico – ahimè – ne abbiamo sentito a sazietà, e il dejà vu non fa proprio al caso loro. Un folk filtrato dai computer allora, risultando così deforme, glitch, genuinamente pop e squisitamente arty. Forse. I The Books in realtà si pongono su quell’asse ideale che collega avanguardia, rock’n’roll primitivo e ansia di radici. Un continuum psicologico che si snoda, a metà tra attitudine sperimentale e tradizione, lungo tutta la storia del rock, e che vede come protagonisti quegli artisti che hanno donato nuova vita alla canzone folk americana, contaminandola con qualsiasi nuovo genere - proveniente da garage o camere adolescenziali (pensate ai primi R.E.M. e al loro folk-wave, o allo Smog di Julius Ceaser), o sporcato, sotto forma di catacombale canzone d’autore, da battiti sincopati e suoni d’ossa (il Tom Waits di Bone Machine). Eppure non c’entra affatto la musica di De Jong e Zammuto, né con i R.E.M. né con Smog né tanto meno con Waits, anche se sono questi i primi nomi che i Books mi hanno portato alla mente. Tutto questo perché sono pazzo. Con orecchio critico invece, vi direi piuttosto… i Joan Of Arc di “A Portable Model Of”. Sì, di glitch ancora non v’era traccia, ma le “atmosfere”, l’attitudine, gli intenti sono proprio gli stessi: il tentativo lucido e immediato di mischiare il folk alla computer music (specialmente fatta in casa). Ma Thought For Food rimane, al contrario di quello, un CD impensabile, folle, eclettico, ritmato e contorto di contorsioni non a là Chance, ma più vicine a quelle mentali di Simon Jeffes, Ian Williams, Tom Waits. Musiche giovani, sottili e auto-ironiche, tanto cerebrali quanto leggere e ariose, esplicitamente scritte per tutta quella gente stanca di camere e curiosa d’aria, golosa di qualsiasi volume della vastissima biblioteca del mondo - micro/macro-culture dei giorni nostri, dolci e confuse a cavallo tra i millenni. Ieri ho incontrato un alieno sotto casa mia, mi ha chiesto delle musiche del mondo. Gli ho fatto provare Thought for Food, dei Books. Pochi secondi, e ci siamo sentiti a casa.

BakuniM

TRANS AM/TA/Thrilljockey

Dance. Questa è la parola chiave per interpretare Ta. Sì, perché a volte la musica è anche puro intrattenimento, e tra le tante forme di divertimento, il ballo è la più antica ed istintiva. Conscio di ciò (probabilmente), il gruppo di Washington D.C. ha confezionato un disco adatto a dimenarsi allegramente sulla pista da ballo. Ad un party potrebbe essere messo tra un brano di A. Camerini e uno degli A-Ah, sembrerebbe più strano, ma non tantissimo. Naturalmente non tutto il disco è a quei livelli di pop-olarità, ma nel complesso l’album suona come dell’esemplare synth-pop anni ottanta, con i suoi pregi (il divertimento, il gusto kitsch, l’effimero) e con qualche difetto in meno (certi giri di basso ed alcuni pattern di batteria sono eccitantissimi). Molto divertente, e sicuramente da ascoltare, ma, purtroppo e per fortuna, le feste ad un certo punto finiscono.

Salvo Senia

VALENTINA DORME/Capelli Rame/Fosbury

L'etichetta, che esordisce proprio con questo CD, raccomanda l'ascolto agli "orfani di De André", probabilmente perché il genio di "tutti morimmo a stento" è l'unico cantautore italiano di cui quasi nessuno ha il coraggio di dir male. In Capelli Rame, primo cd stampato di questa band del nordest con alle spalle 10 anni di demo e autoproduzioni, non c'è proprio niente di De André (se si eccettua la citazione in "Tredici"); più che altro vengono in mente gli Ulan Bator "italianizzati" dell'ultimo periodo, ma siamo ancora lontani. Chiamiamo le cose col loro nome: si tratta di rock italiano. Ma del tipo migliore, se si ammette l'esistenza di un rock italiano "buono", da mettere nello scaffale con Cristina Donà, gli Afterhours, certe cose del CPI. La diffusa idiosincrasia in ambito "underground" verso il cantato in lingua madre ha origine per lo più nel fatto che è molto difficile trovare un cantante che canti in italiano e che non sia, nel contempo, un tamarro, nonché nel fatto che le major tendono a cercare gente che canti in italiano, da cui la voglia di rivalsa. Il cantato nei Valentina Dorme lo è vagamente, tamarro, negli insistenti sussurri pseudo-sexy che personalmente mi atterriscono ma NON nei testi, che hanno un loro perché, eccezion fatta per alcuni "baratri" che non voglio citare. Ringraziamo quindi Mario Pigozzo Favero per aver saputo limitare le parole forbite fuori luogo e le metafore gratuite di cui la musica in italiano è purtroppo piena. All'italiana anche la registrazione: pulitina, perfettina, ad alta fedeltà; avrei preferito suoni più aggressivi, specie nei passaggi distorti che dovrebbero creare contrasti forti alla primi MK (ad esempio in "Guardare i corvi"). Ma se si fa un disco in italiano è giusto farlo italiano fino in fondo, sono sicuro che i Valentina Dorme mi piaceranno molto di più dal vivo, dove i suoni saranno più grezzi e i sussurri non saranno udibili.

ONQ

VERT/Nine Types Of Ambiguity/Sonig

Disco nel complesso piuttosto fico.Album in digipack che cela dentro un piccolo segreto svelabile solo dall’assidua frequentazione. Costruzione semplice, sintassi lineare, dolce e non iperstratificata, elettroacustica matura, ampiezza di vedute, grande e personale sensibilità, pezzi che funzionano, momenti da incorniciare nelle antologie d’ognuno. Ipotesi di pop raffinato e forse assoluto in ambito di cantautorato digitaleggiante per un luogo che nella storia boh se c’é. Adam Butler in arte Vert ci vende ad un prezzo onesto melodie pronte a spiccare il volo, disparate atmosfere, molto umorali escursioni soniche, passeggiate elettroniche nella psichedelica domestico cittadina, momenti introspettivi, attimi d’entusiasmo quando sfodera la classe. Un prodotto esemplare e vastamente fruibile dell’elettronica del 2001 patrocinato dall’etichetta dei Mouse on mars.

Giovanni Vernucci

WARLORD/Rising Out Of The Ashes/Atrheia

Constatiamo innanzitutto con orgoglio come sia un’ etichetta italiana a patrocinare l’ attesissimo come-back degli americani Warlord i quali, pur con una produzione quantitativamente esigua (il Mini Lp “Deliver Us” e l’ Lp “And The Cannons Of Destruction”), intorno alla metà degli eighties vennero riconosciuti come un’ autentica rivelazione. Senza dubbio i più brillanti esponenti di un certo modo di intendere il Metal: un perfetto equilibrio di aggressività e romanticismo, atmosfere crepuscolari e grandeur epica, mirabilmente descritte dal geniale guitar-work di William “Destroyer” Tsamis, tanto incisivo nel riffing quanto sognante nei fraseggi e nei solos dal profondo gusto medieval/rinascimentale. Dopo oltre 15 anni di silenzio, interrotto solo dal progetto Lordian Guard, con cui il suddetto chitarrista ha realizzato due albums ed un Ep effettivamente vicini allo stile dei Warlord (ma con una voce femminile ed una pessima batteria elettronica), arriva finalmente la decisione di riunirsi al batterista Mark “Thunderchild” Zonder, nel frattempo attivo con i prog-metallers Fates Warning, e di resuscitare il Signore Della Guerra. Impossibilitati a recuperare uno dei cantanti facenti parte dei Warlord negli anni ’80, essendo stati questi niente più che dei session-men, i nostri hanno allora affidato il microfono allo svedese Joacim Cans, già negli HammerFall (capiscuola di quel power metal plastificato che spadroneggia attualmente), creando non poca apprensione nei fans di più stretta osservanza. Il risultato, pur non privo di ombre, è per fortuna di altissimo livello e, malgrado una prestazione vocale senza infamia ne’ lode ed una maggiore rilassatezza di atmosfere (un po’ stucchevole ad esempio l’ intro vocale di “Sons Of A Dream”), i brani sanno ancora rievocare la magia del passato. Va altresì detto come la band non si sia sforzata più di tanto, essendo ben 5 pezzi su 9 vecchie composizioni già efficacemente proposte dai Lordian Guard o addirittura (“Lucifer’s Hammer) dai Warlord stessi, nondimeno le si deve dar atto di un talento unico nel tratteggiare scenari di arcana bellezza fra corti millecinquecentesche e minacciose rovine gotiche. Nessun altro gruppo ha mai saputo incarnare lo spirito cavalleresco dell’ epic metal (e qui parliamo di VERO metal) con la stessa sopraffina grazia dei Warlord ed anche con questo “Rising Out Of The Ashes” mi sento di ribadire l’ assoluta veridicità di tale affermazione.

Salvatore Fallucca

YEAH YEAH YEAHS/EP/Touch'n'Go

Cinque canzoni da sussulto, cinque piccole gemme di indie-garage destinate a far strage di fegati e cervelli. Si parte con ‘Bang’: un garage-funk minaccioso sfocia in un ritornello che è danza per l'anima, sublimato da uno stupendo pizzicare di basso a la Mike Watt. Poi ‘Mystery Girl’, degna dei migliori Stones, blues lercio dall'incedere ossessivo, una vertigine di basso e una tensione interna letteralmente fuori dal tempo, e ancora ‘Art Star’, dall'incipit leggero e pennellato, cantilena infantile, ma in pochi secondi ecco la morte della coscienza, dissolta in un gargarismo cyber che neanche i Mars. ‘Miles Away’, forse il loro pezzo migliore, prima indie, poi wave e infine garage, rock'n'roll allo stato puro che si contende con i Fly Pan Am il giro di basso più entusiasmante dell'anno. Per finire ‘Our Time’, ovvero Velvet Underground e Jesus and Mary Chain che perdono i pezzi, per poi ricongiungersi in un'allucinata marcetta indie, trascinante, trionfante, catartica. Una band grandissima. Nick Zinner alle chitarre, Brian Chase alla batteria, Karen O una cantante da brivido, non a caso si parla di lei come di una nuova Patti Smith. I newyorkesi Yeah Yeah Yeahs assieme ad altre band affini - quali Gogogo Airheart, Erase Errata, McLusky e White Stripes - stanno rinfrescando e ridefinendo il concetto stesso di Rock'n'Roll. Non perdeteli d'occhio.

BakuniM

ZU/Igneo/Wide

Erano mesi che non ascoltavo album potenti e dinamici come questo. Gli Zu, con le loro pirotecniche acrobazie strumentali, sono uno di quei gruppi in grado di ridicolizzare la tendenza ad incamerare il suono all’interno di categorie predefinite. Ascoltando Igneo non si sa bene dove cominci il rock e finisca il jazz, si tratta “semplicemente” di un suono/musica espressionista dalla forte componente ritmico-compulsiva, frutto dei precisi incastri tra basso, batteria e fiati. Un vero luna-park infernale, in cui perdersi, ritrovarsi, soffrire e divertirsi, provando sempre e comunque emozioni forti. Per dovere di cronaca i visitatori sono informati dell’avvenuta collaborazione con K. Vandemark, J. Bishop e F. Lomberg-holm (vale a dire alcuni dei nomi più illustri dell’attuale scena Chicagoana) e della valorizzante registrazione di un certo S. Albini. Focosamente consigliato.

Salvo Senia

 


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Reg. Court of Palermo (Italy) n°21, 19.10.2001
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