Federico Guglielmi scriveva nel 1994 che a suo avviso il punk è stata la cosa più straordinaria che sia mai accaduta al rock. Nella sua guida al genere (supplemento al n°29/30 di Rumore), l’anno di grazia 1974 viene annoverato per la nascita nello stato di New York, Forest Hills, di una band di cinque amici poco più che ventenni che strimpellavano canzoncine sbavate tra rock’n roll, pop e surf. Il mondo li avrebbe poi conosciuti come Joey, Jonny, Dee Dee e Tommy…Ramonesssssss. Cosa c’azzecca sta sviolinata con i Qui Quotti Quatti? Bhe, che il punk è un attitudine che di strada ne ha percorsa tanta e di fronte ad un gruppo che si rifà a questa cultura è sempre difficile dire qualcosa; come ad esempio che le nuove generazioni sono state massicciamente clonate a stelle e strisce di merchandaising skate senza tanta coscienza civile e controculturale. Ma riascoltando per l’ennesima volta Season Of Rage (cinque pezzi in stile), non mi vengono troppo in mente (fatta eccezione per Daisy and Wandy) surfisti californiani ingrassati ad hot dog e bombardamenti al napalm, ma sento il mio culo che saltella felice. Info: vandals1981@hotmail.com
Andrea Pintus
VV.AA./Primo Salto/Fosbury
Puntuale, arriva anche la compilation della Fosbury; mi chiedevo cosa stessero aspettando, con tutto questo fioccare di compilation a cui ci hanno abituato quest’anno le altre giovani etichette dello stivale (Ouzel, Loretta, UnderMyBed, Hoboken…). Tutta roba italiana, con il solito manipolo di grossi nomi, gruppi dell’etichetta e semi-esordienti. I due nomi più grossi, per la verità (One Dimensional Man e Tre Allegri Ragazzi Morti), partecipano con pezzi già editi, i Lo-Fi Sucks con una versione demo di 67-73 indistinguibile da quella su disco (solo con un suono un po’ meno prodotto). Gli inediti più succulenti sono di certo quelli di Gatto Ciliegia e Perturbazione ma, come al solito, il valore di una compilation si misura sulla qualità dei nomi meno noti, e qui si casca bene con Slacker Monday, ma soprattutto con i pavementiani Slumber di Verona, che hanno fornito il loro pezzo migliore, e la sorpresa (per me) Ogino Knaus, con un semi-strumentale che “apre” proprio bene. Anche i gruppi di casa fanno una figura dignitosa, forse i migliori sono gli Es, con la loro atmosfera vagamente Pixies, e i Valentina Dorme, che però partecipano con un pezzo già presente in “Capelli Rame”. Il resto è rock italiano, che non giudico e che non voglio toccare neanche con un’asta di 20 metri, ci pensino i talent-scout della Sony, ai quali questo cd è segretamente indirizzato.
ONQ
AA. VV./GASCD/Il Manifesto
GASCD sta per Governments Accountable to Society and Citizens = Democracy. Però è anche un gioco di parole che fa riferimento al gas. “Nel fine settimana del 22 aprile 2001, decine di migliaia di dimostranti a Quebec City hanno vissuto un corso di aggiornamento in materia di gas lacrimogeni”, recita l’incipit dello scritto firmato da Naomi Klein e Avi Lewis nel libretto interno del cd. Dice ancora: “Nel suo diffondersi in ogni angolo, il gas lacrimogeno ricorda un po’ il modello economico “per tutti” che era sotto esame in Quebec. (…) Se questo piano diventerà legge, le Americhe saranno presto la più grossa zona di libero scambio del mondo e questo modello economico si diffonderà come una nuvola tossica”. Chiara la metafora? Non starò a parlare di politica, la situazione è sotto gli occhi di tutti e tutti abbiamo visto i fatti di Genova: violenza, repressione, morte. Lo scopo del disco è quello di raccogliere fondi per le organizzazioni no-global, in Italia il contributo andrà a Radio Gap, il circuito di radio indipendenti (radio Onda Rossa a Roma, radio Onda d’Urto a Milano e Brescia, radio Città 103 e radio K Centrale a Bologna e radio Croma a Cosenza). Ecco allora un doppio cd ricco di musica e parole, con le canzoni – tra gli altri - di Ani Di Franco, Olu Dara, Sex Mob (che reinterpretano Duke Ellington), Bruce Cockburn, Scotty Hard, Propagandhi, Michael Franti, Interference Sardines, Gil Scott-Heron, Free Radicals, Bill Frisell (che rifà “What’s Going On”), Sarah Harmer e Bionic. Su tutto, spiccano le parole che compongono il titolo della canzone proposta dai Rheostatics: “Bad Time To Be Poor”.
Guido Siliotto
AM60/Always Music 60/Shifty Disco
Il titolo è sufficientemente esaustivo. In modo a tratti inquietante…Le note informative che la Shifty ha messo in giro urlano al genio puro!… “ The Beastie Boys for lovers “, dicono. Gli atteggiamenti smaccatamente iconici che la macchina pop mette in funzione quando scommette sul cavallo di razza presunta, niente altro che i modi da baraccone itinerante, a volte riescono ad urticare con veemenza anche le menti più tranquille. Si tratta nient’altro che un beat dal sapore newyorchese. Quindi setacciato dalle mani del primissimo punk, quello endemico intendo. Quindi suonato che sembri garage, carino carino. Salvo poi essere alleggerito delle zavorre retoriche che inevitabilmente comporta il misurarsi con materiale vintage. Da questo punto di vista almeno l’ingenuità ci viene evitata. Il suono – intendo ciò che emana dal di sotto – è discutibile, ma personale. La voce di Chris Root ha una venatura rauca che la rende effettivamente piacevole; a metà tra Donahue e Coine… Questo è il debutto. Fatto di pigre giornate estive trascorse tra bordo vasca e all night party, cuba libre e sole cocente. Non meravigli la presenza di un paio di hit perfetti da tutti i punti di vista. Il disco nasce a New York nella piccola casa di Chris, lui sulla scala antincendio, il batterista a ridosso della tv, e qualcun’ altro sul tavolo da cucina… Suona bene e non c’è che dire. Sax fuzzy, e un certo funk mixato con liriche ingenuotte ma tanto adatte. Beastie Boys…? Non so. Più Bech Boys, forse. Beatles e Ramones+Flaming Lips, ma più in superficie, se è possibile. Il surf è carino, ma sono stanco di divertirmi; l’iconografia è insopportabile; il genio, io non so cosa sia.
Joele Valenti
BASEMENT JAXX/Rooty/XL
Perché parlare di un disco uscito un anno fa? Perché sinceramente lo merita e merita di essere ascoltato e goduto, specialmente con questa stagione. Perché è esaltante il modo in cui irradia ritmo, groove e sensualità chimico sintetica e naturale. Fresco, spumeggiante, libero , continuo, Rooty è un album elaborato, complesso e completo, pretenzioso ma riuscito nel miscelare e spezzare le costruzioni e le strutture dance con la forma canzone basandosi su un sound strepitosamente ricco e vivace. Un disco dove la sfaccettata multicolore resa del suono la fa da padrone del capogiro. Intelligenze ubriache e superdopate, secondo me, lo hanno arrangiato da far paura. Una girandola colorata sul soffitto della vostra vita più che un mirrorball in una qualunque stanzetta da ballo. Una festa per tutti. Una spinta. Uno scatto. Un'accellerata. Un accellerato su binari che vanno lontano.
Giovanni Vernucci
BEEF TERMINAL/The Grey Knowledge/Noise Factory
I B.T. si formano nel 1995. Toronto, Canada. Il nome è mutuato credo da un’edificio in downtown… Loro tengono a specificare che è totalmente privo di senso. A quanto pare l’idea dell’intero lavoro è il culmine di un periodo di 4 mesi fatti di incubi e deliri. Non si comprende quanto ci sia di autobiografia vera e soggettiva nella teoria di visioni ballardiane che indicano nell’opera una funzione catartica… incidenti, accartocciamenti, traffico straniante, aerei, treni e distruzione su vasta scala. Ma è ozioso forse chiederselo dopo i fatti di New York. La perdita della propria identità nell’infamia comune è forse un viatico buono. Anche nel suono c’è questa perdita. Dilatazione emotiva fatta di interruzioni, balbettamenti e pulizia cristallina. Dopo Mogwai, Callas e ancora prima Swans, questo è un lavoro che potrebbe anche risultare ridondante e poco attuale. Però è bello. Ha una certa purezza che non simula. La scelta dei suoni è meno radicale dei succitati, forse a volte ingenua, ma anche meno affettata, meno morbosa. In tempi di esasperazione e corsa anche laddove ci sarebbe da non attenderselo, non disturbano un passo indietro e meno ansia logorroica… è un disco che ti arriva da dietro in punta di piedi; non posso farci nulla se l’educazione mi commuove. Chitarre pulite, laconiche. Loops di batteria di nuovo presente e non collaterale. Si trova nel mezzo di ogni possibilità dicotomica. Credo che sia il suo pregio. E naturalmente, il suo difetto.
Joele Valenti
CABOTO/Nauta/Gammapop
E’ stata una piacevole sorpresa per me l’ascolto di questo sconosciuto gruppo strumentale della Gammapop; lo recensisco così: sotto il sole mattutino di questa calda estate. Questa è musica fresca, fra il post-rock e direi…. Il progressive rock!! Sì proprio così! E’ musica cerebrale, impressionante dal punto di vista tecnico, personale, e che sfrutta appieno il concetto di ritmiche sincopate, tanto care a molti gruppi rock-noise-wave degli 80’-90’. Il disco contiene pochi brani, 6, di lunga durata e di gradevole resa sonora, a tratti alcuni brani mi hanno addirittura fatto venir in mente i grandi Osanna, (ad esempio in “take off and drift” e in “Krill”), gruppo partenopeo di progressive rock dei 70’, in particolare mi han ricordato Palepoli, il concept album che gli Osanna fecero sulla Napoli antica…bè comunque non divaghiamo…Il tessuto rock del disco è arricchito da inserti di generose tastiere e calde atmosfere italiane-mediterranee. Sono orgoglioso di questo disco “Italiano”.
Andrea Giuliani
CALLA/Custom/Quatermass
“For fans only”, questa sembrerebbe essere la dicitura più appropriata per l’ opera di rielaborazione digitale del repertorio dei Calla da parte di artisti quali Pan American, Tarwater, Dan “Windsor For The Derby” Matz ecc… e per chi conosce il trio texano quest’ operazione non è neanche tanto ardita considerando la buona dose di “Beat” presenti nelle loro composizioni. L’opera in ogni caso è di assoluto rilievo, con momenti di pura emozione (vedi la rilettura da parte dei Tarwater della bella Tijerina”), e ridando smalto a canzoni già di per se affascinanti ( le due versioni di “Fire Of Fireflies”, più groove quella riletta dai Calla stessi, più scheletrica quella dei Couch). Interessante è la riebolazione strumentale di “Slum Creeper” ad opera dei I-Sound, non da meno il medley di Dear Mary/Subterrain da parte di Dan Matz (che a suo tempo era stato rielaborato dai Calla stessi). La chiusura è affidata a “Trinidad/I Shall Be Released” e “Only Drowing Man” suonate live dai Calla a Montreal. Si diceva in apertura “for fans only” e siamo d’accordo, ma dare un ascolto a queste perle di saggezza electro non farà del male a nessuno.
Gianni Avella
COHIBA/x associazione di idee/Videoradio/Fonola
Per chi tenta di trovare una propria identità nel panorama musicale nazionale suonando rock e affidando le proprie liriche alla lingua italiana sembra purtroppo quasi inevitabile il riferimento alla triade Marlene Kuntz/Afterhours/Timoria. Non fanno eccezione i toscani Cohiba, nel cui disco di debutto fanno capolino tanto i Marlene Kuntz (lo stile di scrittura e l’interpretazione vocale di Edoardo Guerrieri ricordano a tratti quelli di Cristiano Godano….quasi imbarazzante in tal senso “Le facce in tv delle star”) quanto soprattutto i primi Timoria, la cui lezione è ben presente negli episodi più lenti del disco. I Cohiba dimostrano se non altro di avere le idee già sufficientemente chiare nel curare arrangiamenti che cercano di realizzare un costante equilibrio tra la vena romantica delle tastiere e dei campionamenti e il lavoro delle due chitarre: canzoni come “Trema sistema” e “La rosa” ben realizzano questo equilibrio. Buona la qualità dei suoni per un disco autoprodotto, ed alla fine “x associazione di idee” raggiunge la sufficienza. Contatti: info@cohibarock.it
Guido Gambacorta
DOOMSWORD/Resound The Horn/Dragonheart
Secondo lavoro, dopo l’eccellente esordio omonimo su Underground Symphony, per i lombardi DoomSword, una delle poche nuove bands in circolazione capaci di tenere alto il vessillo del vero metallo epico, nonché fra le poche consapevoli di quali siano gli autentici canoni di questo genere attualmente assai travisato. Dimenticate le moderne produzioni roboanti, gli arrangiamenti sinfonici e le corse in doppia cassa con cori da cartone animato, in questo cd rivive la tradizione del più puro epic metal che, scevro da qualsiasi ammiccamento ruffiano, si presenta imperioso ed austero nella sua barbarica semplicità. I riferimenti sono radicati negli anni ’80 e rimandano ai Manowar oscuri di “Into Glory Ride”, agli altrettanto crepuscolari Bathory di “Hammerheart” o addirittura al doom magniloquente dei Candlemass. Su “Resound The Horn” regnano scenari di battaglie ed imprese eroiche dipinti in tutta la loro drammaticità mediante partiture cadenzate e solenni, riffs lineari e d’impatto ed un cantante virile e declamatorio ben calato nel ruolo di scaldo dei nostri giorni (che riesce soprattutto a non far rimpiangere troppo il suo inarrivabile predecessore Nightcomer). Una grandissima conferma per chi li aveva già seguiti ed un valido manifesto per chi volesse avvicinarsi all’ epic metal attraverso i suoi attuali rappresentanti.
Salvatore Fallucca
FANTOMAS, MELVINS/Millennium Masterwork/Ipecac
MELVINS/Hostile Ambient Takeover/Ipecac
Il millennio è finito, eppure sono pochi i segnali in grado di farci percepire una certa svolta nei confronti del passato prossimo. Siamo ancora immersi nel post-modernismo che ha caratterizzato politicamente, socialmente e musicalmente gli anni novanta. Eppure, sotto la diffusa faciloneria che da circa venti anni si è a poco a poco cronicizzata, continua a covare qualcosa. Fantomas e Melvins sono bands cui la capacità di associare elementi estetici differenti (noise, metal, psichedelia, jazzcore, etc.) non può essere considerata approssimativo esercizio post-modernista, giacché il risultato è sempre stato il veicolo di un’espressione reazionaria alla superficialità stessa. Queste reazioni (rabbia, ironia, nichilismo, violenza, isteria, schizofrenia) non importa come siano state espresse, così come non importa che i Fantomas abbiano suonato i brani dei Melvins e viceversa (alla fine è solo un’unica big band). Tutto ciò è irrilevante perché Millenium Masterwork con i suoi singulti, le sue cacofonie, la sua furia e la sua ossessività è la summa dell’anti-superficialità, come forma di reazione allo scorso fine millennio. Discorso a parte, invece, per la 18° uscita di Buzzo &Co. Diciamoci la verità: i Melvins sono bravissimi in quello che fanno, ma fanno in pratica sempre la stessa cosa. HAT è un ottimo disco, suona come i loro album di dieci anni fa (anche se i deliri di synth di “the fool” sembrano fuori luogo all’interno di un brano altrimenti splendido), e, naturalmente, questo non è un difetto. Se siete loro appassionati, o non li conoscete, accomodatevi. Se volete qualcosa di più attuale (?!) cercate dell’ Hip hop. Peggio per voi.
Salvo Senia
FENNESZ, O’ ROURKE, REHEBERG/The return of fenn o’ berg/Mego
Fennesz con Endless summmer e O’Rourke con I’m happy... ci hanno regalato nel corso dell’anno passato due meravigliosi esempi di bellissima musica del nostro tempo, entrambi editi dalla Mego. Due sapienti capolavori che costituiranno in futuro classici punti di riferimento. Questi due artisti dell’intelligenza e del suono tornano oggi insieme e vanno a pensare suonare e registrare con Peter Reheberg il seguito di The magic sound of Fenn o’Berg, del 2000, sempre su Mego. Una proposta che assume il sapore stantio della serialità? L’affacciarsi dello spettro dello spauracchio progressive? Non si corrono di questi rischi. Non è questo il problema. Qui si dà spazio a visioni e virtuosismi, autoironie e casualità, lampi d’intelligenza illuminante e godimento del suono, divertimento e viavai di prodigi inaspettati (dall’apertura teckno dance alle sortite classicheggianti fino al guado del fiume) che si susseguono brevissimi e vanno ad esaurirsi come spreco immateriale del tempo (diciamo che se ad un concerto di classici minimalisti si aveva la percezione del tempo che passava e si immobilizzava e si dilatava, adesso, ad ascoltare la riproduzione di questi concerti, che sono in realtà ipermassimalisti nella resa, si ha la percezione del tempo che si esaurisce come fuga immateriale). Discrepanze soniche e giochetti con gli errori e con la perfezione. Mentali tappeti volanti srotolati ed increspati e i loro disegni ornamentali che si sconfigurano di violenza in dolcezza. I tre ci confermano una classe all’altezza della loro superiorità. Se volete tuffarvi in un oceano di suono sconosciuto, e questa è l’ora, questo disco potrebbe essere un’amabile necessità da carezzare coi timpani.Se avete voglia di sperdervi nei mille mondi di tre cervelli che a volte hanno a che fare con un’altra galassia a volte con un immondezzaio di carabattole, spazi perduti dal tempo o luoghi inventati e/o scoperti. Vuoto a perdere o pieno a trovare? Il fatto è che il cd è registrazione - reso conto- documento di performances al power book dal vivo e totalmente improvvisate. Potrà ricordare all’apparenza gli Scratch pet land, ma li sovrasta per genialità matura e li sorpassa in scioltezza cannibale senza manco sognarsi di vampirizzarli. Se lì a fare la ricerca erano i bambini dell’asilo, qui a fare i bambini dell’asilo ci sono i ricercatori. Inoltre: se pars costruens e pars destruens hanno senso (e non lo hanno) questa pars non si sa proprio che parte è. Sicuro è che una tensione fra i suoni percorre tutto al punto che tutto è una tensione fra i suoni. Questi se raggiungono un’organicità che può comunque essere perseguita a molti livelli, non ultimo quello della composizione, possono dar vita a una pietra, macché dico pietra: ad un’insegna miliare, ma che dico miliare: lustrale. Più che al passo coi tempi sono a spasso col tempo. E quando dico spasso intendo proprio spasso. O’Rourke è comunque più vicino agli alieni di quanto pensavano lo fossero i Pink Floyd. Anche perché sono gli alieni ad esserlo di più. Eh sì. Si vocifera da tempo di un disco pop a firma Fennesz -O’Rourke. C’è ancora tempo per attendere e per far crescere l’illusione, ma c’è anche questo disco per/ad ingannare il tempo e per disilludere le orecchie preparandole a ciò che deve venire.
Mirco Guerrieri dalla Maremma, ex/forse tuttora, dj surf-beat-garage-ska e non solo( ricordo i suoi ultimi set a cui ho assistito, introduttivi ad hardcorissimi concerti dei Double Nelson in serata distruttiva e degli infiammatissimi Zu, merito organizzativo del grande Livio del Nondimeno del periodo aureo) inaugura la serie della sua nuova etichetta, la Diva, facendola esordire con un cd dei suoi Gallara. Eùn è il brevissimo intro tagliato e incollato che apre l'album e getta subito un flash di quindici secondi sul suono del disco e sull'attitudine della band. Il secondo pezzo, The spy who flawn away, primo piatto forte dopo l'assaggino aperitivo, è giustamente collocato ed è anche adattissimo ad aprire i concerti. Il sound del gruppo si palesa come un leggero surf-lounge disimpegnato che scuote il ballettamento di gambe, testa, bacino e spalle (che è segno di ottimo groove e di ampio spazio neuroritmico coperto [su questo concetto sperimentale ci torneremo su NDR] ), dove il divertimento insegue i circolari giri di basso e l'elettricità, diciamo pure leggerina, della chitarra di Mr Trumpet, si inietta qua e là come dose di screzietto o come breve fuga melodica o sostiene la ritmica stessa dei riff. Inoltre le tastiere e gli organoni vintage dimostrano di essersi nutrite di determinanti bocconi di Rey Manzarek (The doors), di averli assimilati in modo personale e di rigettarli minimali ed essenzializzati. Pilar, forse dedicato al barcone dell'Emingway perso tra i cocktail nel Caribe in full effect antinazista delle isole nella corrente, è ancora più convincente. Il tastierone impettito e concentrato di Mr Gypigno svisa ed insiste in primo piano, sostenuto da chitarra e basso in un incastro ritmico-melodico d'altri tempi. Poi c'è il primitivismo multipercussivo e impressionantemente corale di Cannibal party . Pezzo che incede di shuffle sicuro fino al pregevole solo di chitarra e ai corettini cannibali finali accompagnati da bocacce sberleffanti protomongoloidadaiste. A seguire Lourilù, una qualche sfumatura di romantico e malinconico; il ritmo in levare accellerato e poi la cassa in quattro le fanno recuperare brio fino alle sventagliate spagnoleggianti finali. Di notte mi maschero, la sesta traccia, sale e scende sull'onda dell'organo folleggiante e ci si incunea un pervertito senso del mistero del fascino morboso per non si sa quali sentimenti alieni. Perde in spensieratezza e si vena d'una meditatività nerobluastra ed accigliata. Nebulosa si apre allo spazio interstellare, mostra muscoletti più rockeggianti e una tastierina psichedelica in sottofondo aleggia fino al recitato fantascientifico finale, campionato da chissà quale film saltato fuori chissà come dalla smisurata collezione/archivio di Mr Myrcus. Il disco, che dura appena venticinque minuti, si chiude con una traccia registrata dal vivo: Zeus, un pezzo preso in prestito da I componenti. Il disco purtroppo non rende la fisicità, l'elettricità e il divertimento che il gruppo è capace di sprigionare durante il concerto, dimensione nella quale Gallara dà vita ad uno spettacolino rinfrescante come un cocktail balneare e divertente come un flirt estivo fantasticato. Aspettiamo con molto interesse le future mosse della neonata etichetta e gli sviluppi di un sound che maturando la sua capacità di inglobare ed appropiarsi in modo personale delle più svariate sensazioni, potrà arricchirsi fino a superarsi e consigliamo a chiunque possa di vederli dal vivo. Contatti: MrMyrcus 3473104064/MrGipigno 3299836223
Giovanni Vernucci
GOGOGO AIRHEART/Exittheuxa/Gold Standard Laboratories
Accendo lo stereo, parte la prima traccia “Sincerely P.S.” e dico: Cazzo! Bel riff garare style, poi parte la seconda e mi ridico: una ballad ubriaca? Ma allora sono veramente fichi sti Gogogo Airhert, Cosa mi posso aspettare nel proseguire nell’ascolto? Continuo e la musica mi affascina sempre di più e nello scorrere delle canzoni si delinea la loro condotta sonora, i Gogogo Airheart sono figli della New Wave, imparentati stretti con il Pop Group (fenomenali certe parti di basso) e nello stesso tempo legati alle chitarre abravise dei Wire, con un cantante che Lydon-eggia talmente bene da commuovere. È difficile parlare di una canzone invece che un’altra, “Mifi” è talmente trascinante che non nascondo di essermi ritrovato a suonare il basso senza avere un basso, “Last Goodbye” nel suo incedere sofferente dal riff emotivo si evolve in un finale immaginabile solo da dei Television che jammano con i Gang Of Four (lo so che sono nomi altisonanti ma dovete ascoltare per credere), e se vi dico che in “When The Flesh Hits” si respira la stessa demenza dei Devo? riuscireste a credermi? Ah dimenticavo…come è bella “Here Comes Attack”, cosi vicina a “1969” degli Stooges……
Gianni Avella
GUIDED BY VOICES/Universal Truths And Cycles/Matador
Per asserzione dello stesso Robert Pollard, anima e mente dei Guided by voices, esistono circa seicento canzoni da lui scritte, di cui duecento inedite, visto che la sua attività di compositore risale a quando lo stesso aveva solo 9 anni. Leggende metropolitane dicono anche che sia solito sedersi ogni mattina davanti ad un registratore e una tazza di caffè e buttare giù dozzine di canzoni come se nulla fosse. Ebbene, trovo che questa sua attività ultraprolifera alla fine costituisca un limite. Infatti, se “Universal truths and cycles” è fatto di momenti interessanti, penso che si sarebbe potuta fare un’ulteriore selezione dei 19 pezzi inclusi e lasciarne qualcuno nel solaio dentro le tante valigie zeppe di cassette senza titolo. Senza dubbio sono notevoli “Everywhere with helicopter”, ”Eureka signs”, ”Back to the lake” (adorabile) ed anche “Car language” per quel suo ritmo ossessivo, ma il resto sembra tutto già ascoltato. Addirittura almeno quattro pezzi, fra tutti “Zap” e “Storm Vibrations”, sembrano prelevati per intero da un qualsiasi album di Micheal Stipe & co., tanto che viene il dubbio che non ci sia stata effettivamente qualche collaborazione. “Pretty bombs” è resa particolare dall’innesto degli archi, ma la sensazione è di averlo già sentito da qualche altra parte. D’altronde, quando Pollard nell’86 formò i Guided by voices, ci aveva avvertiti: il nome del gruppo deriva dalle voci sacre della storia del rock da cui lui dice di essere stato guidato nel comporre. E, allora, lasciamo che si lasci trascinare: il risultato, pur non apparendo dotato di una propria pregnante personalità, è comunque un disco piacevole da ascoltare e da riascoltare.
Antonella Fontana
IMODIUM/S.T./decibel
Primo passo ufficiale per i milanesi Imodium. Le tredici canzoni di questo esordio vivono e respirano di adolescenza sia nel bene che nel male: sana ingenuità nel primo caso e istantanee di vita vissuta dai goffi risvolti splatter nel secondo (vedi il testo un po’ ridicolo di ‘piacere’ e ‘tre dita’). Se teen mi da teen – o mio dio! – sono i Nirvana ad essere il gruppo di riferimento degli Imodium che in canzoni come ‘where is my pride’ e ‘plastic brain’ suonano degli imbarazzanti tributi autografi; anche giocare la carta delle liriche in italiano (‘beve, fuma e dice parolacce’ ad esempio) non serve ad aumentare l’originalità della loro musica. È un peccato perché Imodium non sono proprio degli sprovveduti tecnicamente ma sono ancora acerbi nel songwriting. Speriamo possano dare una prova più concreta nel prossimo disco.
Francesco Imperato
JERICA’S/Edison’s Last Machine/Indigena
Chi ha mai sentito parlare dell’altra Bristol? Praticamente per ogni Massive Attack c’è un Third Eye Foundation. Ecco, per capire la musica dei Jerica’s bisognerebbe parlare dell’altra Italia, vale a dire, per ogni Giardini Di Mirò c’è un Jerica’s. Questi catanesi (al secondo album) sono figli dell’indie americano più puro, per intenderci, quell’indie che nato con i Fugazi passa per Van Pelt e Slint sino a fermarsi nelle rotte dei June Of 44. Nelle dieci tracce missate da David Lenci e masterizzate da Pippo Barresi i Jerica’s ci regalano un bignamino del più sano suono americano. Le atmosfere partono tenui ed ordinate (“G.Grip”) per poi diventare tese e nervose (“Sea Of Grass”) sino a toccare rari vertici emozionali (“House 6X3”) e cosi via per “Edison Last Machine”, “I Breathe” ecc… Ora, tornando al discorso dell’altra Italia, se noi consideriamo salvatori della patria i Giardini di Mirò (praticamente i Mogwai) e One Dimensional Man (praticamente i Jesus Lizard) perché non alzare la voce per l’altra Italia dei Jerica’s? N.B. di particolare interesse è anche la gustosa confezione cartonata, un sincero omaggio alla genialità di Thomas Edison.
Gianni Avella
L’ALTRA/In The Afternoon/Aesthetics
KOMEIT/Falling Into Place/Monika Enterprise
Quando voci maschili e femminili si incontrano, si intrecciano per divenire un’unica entità come fanno i due gruppi che andiamo a recensire, ed i risultati sono ottimi se non splendidi non resta che ascoltare e sognare. Sognare come ci propongono l’altra ad esempio. La musica dei L’altra si incammina nei sentieri tracciati dagli Ida scegliendo però la strada meno facile, divenendone la versione più “avant” degli Ida stessi. Cosa dire di “In The Afternoon”? le parole mai come in questo caso sembrano quanto di più inutile possibile, L’altra sono tante cose, cose che conosciamo e cose che ne ignoriamo l’esistenza, ogni singola nota ha il sapore di un sussurro, le voci di Joseph e Lindsday sono in assoluta simbiosi e qualsiasi cosa ne viene fuori, che sia il quadretto pop di “Black Arrow” oppure la magnificenza di “Moth In Rain” o ancora la desolazione di “Goodbye Music” ha la soavità di una carezza, talmente dolce da volerne sempre più. Dinanzi a tanta grazia diventano inevitabilmente secondi i Komeit”. Se provate ad immaginare dei Low intenti a coverizzare il repertorio più pop dei Stereolab il risultato potrebbe anche essere questo “Falling Into Place”, dico potrebbe perché raggiungere la drammaticità dei Low e la genialità dei Stereolab non è cosa da tutti (e ci credo!) ma bisogna ammettere che i Komeit ci regalano un’opera fluida, malinconia e che mai porta alla noia (cosa non facile considerando i modelli di riferimento) ma anzi, in episodi come “Three Hours” e “Readymaters” sembra veramente di trovarci dinanzi a qualcosa di bello. Un Plauso ai Komeit, una carezza per L’altra.
Gianni Avella
LA QUARTA VIA/Viaggio Fuori Dal Corpo/Ema
Ricevo e recensisco il disco d’esordio dei livornesi La Quarta Via, uscito due anni fa. Leggo nell’ultima pagina del libretto: “Ascoltare questo cd è come compiere un viaggio vissuto con l’anima….senza trovare confini tra lo spazio e il tempo. Si consiglia di ascoltarlo in cuffia….chiudendo gli occhi inizierete a sorvolare luoghi come le alture del Tibet e le foreste del Messico, a conoscere la storia di Erba dolce e il mistero di Agharti, a nuotare nel mare di ortiche e nello spazio infinito. Sarà un viaggio emozionante, coinvolgente….e noi saremo la vostra guida”. Mah, personalmente nutro una sana diffidenza nei confronti di chi ha la presunzione di dirmi cosa può giovare al mio benessere, nei confronti dei guru, delle guide spirituali, dei santoni new wave…..Oltretutto appena metto su il cd mi rendo conto che i La Quarta Via non fanno musica new wave, ma suonano un power rock dall’incedere epico con testi in italiano e con le immancabili ballate spaccacuore! A rendere l’atmosfera mistica e sognante e ad evocare l’idea del viaggio immagino dovrebbero contribuire certi elementi di musica etnica (percussioni e didjeridoo), i quali però non riescono ad eliminare il sapore progressive metal di marca Dream Theater che permea tutto il disco. Per quel che mi riguarda i La Quarta Via falliscono i propri buoni propositi, perché se apro la finestra mentre ascolto “Viaggio fuori dal corpo” non vedo né le alture del Tibet né le foreste del Messico, ma solo il traffico di Firenze nella calura estiva. E mi intristisco pure un po’. Contatti: management@laquartavia.com
Guido Gambacorta
LIBRA/Penso A Cose Strane/Srazz
Altro buon esordio targato Srazz records ( leggetevi la bella intervista pubblicata nel numero estivo) questo ‘Penso a cose strane’ dei Libra che si muovono entro i mobili confini dell’indie rock all’italiana con bravura e una certa personalità. Divise equilibratamente tra attaccamento alla tradizione neo-cantautoriale d’oltreoceano ( Smog, Sparklehorse ) e pulsioni indie le canzoni dei Libra hanno sempre qualcosa da dire. La lezione kuntziana è oramai patrimonio genetico imprescindibile di ogni gruppo rock italico che muova i primi passi e i Libra non fanno eccezione, tuttavia riescono ad usare gli spasmi sonici per costruire magie acustiche (‘respiro’) malinconiche e notturne ( ‘autogrill’ e ‘quando nascerà il sole’) o sentieri di basso nervosi come nell’intro di ‘all’improvviso’. In ‘Penso a cose strane’ troverete anche tracce come ‘autodestroy’ e ‘ogni giorno così’ che fanno dell’equilibrio tra aggressività mai confusionaria e melodie ariose un proprio punto a favore. Un lavoro efficace e sfaccettato dunque che come inizio pone delle buone premesse.
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De Dieux /\ SuccoAcido