La Personalità è un pesce che ama le Cattive Acque. Il salmone del carattere che risale le correnti violente che tirano forte verso la stagnazione. La personalità è d’obbligo, l’originalità solo un optional. Spesso casuale. Più di frequente fraintesa, se non sopravvalutata, come gusto di un retaggio categoriale che partendo dal Genio giunge dritta dritta all’Idea. Quindi al Nazi, cari ragazzi… Questo disco mi sembra una mediazione sufficientemente onesta tra i due termini assunti sopra. Questo basta a eiettarlo almeno ad un metro sopra le acque torbide dell’indistinto. Il Pesciolino sospeso, fermo. Hans Appelquist, quello dell’EP The Xiao Fang, ritorna dopo un anno di peregrinazioni in Cina… e sembra essersi intriso di quell’orientalismo fuori da ogni becero esotismo zen… Qui non si mima. La dimensione meditativa è genuina e premorale, perché scevra dal triste segno del Giudizio. Si è oltre. In un ibrido estatico tra fotografia e musica. Una suggestiva pellicola impressionata da una musica sempre più distante e austera. Dove acustica ed electro sono estremi assolutamente nella testa, e in nessun altro luogo del creato…Grammofoni old-fashioned, beats lontani, schizzi di piano naif. Si suggerisce cinematicamente, e si prende molta distanza. Difficili i paragoni…La Svezia scongela un cuore che palpita, o ci sono solo i segni…
Joele valenti
HEART CRIMES/S/t/Autoprodotto
Gli Heart Crimes sono Oretta Giunti (ex batteria della meteora mod Star-T), Alessandro Ansani (un passato tra punk rock e psichedelia negli Useless Boys e nei Liars) e Fabrizio Cecchi (chitarra dei soliti Star-T e one man band del progetto Trip-Hill). Per loro 4 canzoni che si lasciano ascoltare all’infinito….ed è cosa rara per un demo! Il cantato in inglese di Alessandro è sornione quando cavalca l’onda di “Some action” e volutamente più sguaiato, ma mai sopra le righe, quando cresce il tasso alcolico (“Hard boiled”) o quando trasuda fuori tutto lo spirito acid rock del gruppo (la superlativa “Don’t call my name”). Crimini del cuore? Sì, perché sicuramente i coretti di “Some action” e “Some days are longer” (dove a cantare è Fabrizio) saranno una pugnalata al cuore di tutti coloro che ascoltano con nostalgia vecchi vinili rock a cavallo tra anni ’60 e ’70. Bravissimi. E questo è solo un assaggio. contatti: orettagiunti@libero.it
Guido Gambacorta
LOSER, MY RELIGION # 2/mp3 compilation
Seconda raccolta di esperimenti musicali a cura del programma web radio loser, scaricabile interamente e gratuitamente sul sito di Musix. Iniziativa che va idealmente ad accostarsi all’ottima raccolta allegata in questi mesi alla fanzine Equilibrio Precario (da non perdere) e che conferma che nella miseria del panorama pop rock italico esistono pur sempre delle riserve protette che sanno dare buoni e talvolta ottimi frutti. Esperimento alchemico musicale si diceva: prendi una ventina di indie band italiane, accoppiale o triplettale, spesso in maniera arbitraria e perversa, e lascia loro la massima libertà espressiva. Quello che otterrai sono nove chicche per l’orecchio da spacciare via internet. Ce n’è un po’ per tutti i gusti: dall’apertura furoreggiante di “Temporal Quasar’s Music”, allo splendido pop rock melodico di “Sketch!”, “Lazy Trap” e “Nobodydubt”, alla dub ballad “Sperduto”, passando per l’autistica “Sole al Porto”, l’Afterkunziana “Il Mio Dissenso” l’onirica “Everyday”, fino all’Auterechiana “Boldak’s Debris”. Blonde Red Head, Fugazi, la scene di Chicago e Glasgow degli anni novanta, l’elettronica di casa Warp, Marlene Kuntz ed Afterhours, questi gli elementi principali utilizzati dai chimici che hanno realizzato le nove tracce di Loser. Se pensiamo a quanta spazzatura ogni giorno il mercato discografico tenta di rifilarci al modico prezzo di quindici euro, non resta che posare la vanga, downloddare questa compilation e prestare più orecchio almeno ad alcune delle nuove rock band italiane! Download: www.musix.it/loser
Roberto Baldi
MCLUSKY/McLusky do Dallas/Too Pure
Che ci fanno i Pixies in quel vecchio e sperduto pub di campagna, lassù, tra le colline del Galles? che ci fanno gli Shellac persi dietro a un wishey invecchiato, prendendosi beffe dell'ultimo sciocco video hip-hop e sollazzandosi dietro un giochino per sole rivoltelle? Che ci fa una indie-rock-band, sempre lassù, tra i più bei dischi dell'anno di grazia 2002? chissà - "fuck this band, fottetevi ogni nostro buco, ma se un giorno dovessimo scioglierci, voi sarete i responsabili". Falkous ci ficca in testa la sua amara sentenza su quella sotto-specie di sotto-cultura chiamata Rock'n'Roll, e sul suo preoccupante stato di salute (per ora, solo per ora...). Falkous, Chapple e Harding sono tizi che certamente non danno nulla per scontato. E poi sarà, ma 'to hell with good intensions' suona già come l'ultimo leggendario, epocale classico dell'era indie post-punk. Fottetevi questa band. Perché suda troppo. Per il sottoscritto - ripeto - è quanto di meglio sia stato prodotto sin'ora nel 2002. E il buon Colin Newman - un vecchietto che la sa molto lunga... - la pensa proprio come me. Ma questo non basta certo a descrivere un disco, e sintonizzare così l'occhio del lettore sulle frequenze che la tanto attesa catarsi-del-prossimo-acquisto propinerà ai suoi ansiosi nervi acustici. E allora, ecco le giuste dosi: 1/3 di Pixies + 1/3 di Shellac + 1/3 di voce a la Guy Picciotto, shakerate il tutto con una buona dose di ironia e humour da paradosso, un pizzico di estate, due cucchiai di sangue fritto, e un po' di voglie pazze surreali. Otterrete McLusky do Dallas. - 'il mio cuore ha il colore di Coca-Cola'. Prendete nota ragazzi.
BakuniM
MINISTRY/sphinctour 1996/Mayan
I Ministry sono il lato più psicologicamente cupo e tenebroso del cosiddetto industrial metal: possessori di un suono monolitico e ossessionante, sono creatori di estremo orrore industriale. I testi apocalittici bestemmiano contro una società, quella americana, ridotta oramai al collasso e in balia di predicatori televisivi, politica estrema, dittature psicologiche, serial killers …Ascoltare i Ministry equivale a trovarsi in un attimo sbalzati in mezzo a una quotidiana guerriglia urbana nel quartiere del Bronx a New York City. Con una carriera più che ventennale, i Ministry si arricchiscono di questo potentissimo live, registrato nel periodo d’oro del loro successo mondiale: il 1996. Nota: la ricerca di distorsioni nelle parti vocali del gruppo, non ha mai avuto eguali in tutto il mondo musicale, distorsioni, saturazioni, riverberi, echi, pitchshifter, delay, sono sempre stati effetti ricercati fino all’ossessione, e in maniera quasi certosina, all’interno delle parti vocali dei loro brani, rendendo la voce del cantante e leader Alain Jourgensen una malefica emissione di suoni inumani e gorgoglianti …Il dischetto apre il sipario con l’apocalisse sonora di “Psalm 69”, un brano carico d’odio verso i falsi predicatori che oramai imperversano attraverso i televisori americani. Il pezzo “Reload” tende a sottolineare che il crossover e il new metal di oggi sono solo pugnette per ragazzini in calore, rispetto alla potenza sprigionata da queste canzoni scritte col sangue; dei veri e propri fiori del male del 20° secolo, veri inni generazionali genuini dei ragazzi cresciuti in questi anni di droga, e disgregazione sociale e familiare. “N.W.O.” ci vuole ribadire il concetto di “sentirsi in mezzo ad una rivolta urbana”,e “Scarecrow” suonata al Beach bum rock festival del 1996 a Jesolo ci mostra il lato più nichilista e alienante del Ministrysound: 7:56 minuti di acida e inesorabile lentezza …. “The fall” l’ultimo sigillo del disco è una specie di ballata lisergica, ossessiva e circolare nella sua costruzione, che trascina in un baratro di 8:00 minuti di angosce senza fine. Questa musica è vero dolore, succhiato direttamente dalla punta dell’ago della siringa che Jourgensen ha usato, (ora sembra abbia smesso, forse…), per 1 ventennio di dipendenza da eroina, dopo essere stato abbandonato da piccolo in un orfanotrofio da una madre schizofrenica. Ripeto vera, originale dura vita celebrata in musica, in un universo di carne-metallo-piacere-dolore-peccato-redenzione di Barkeriana memoria , (vedi Hellraiser) ;chi vuole paragonare tutto questa arte ai Korn o ai Linkin Park , (tanto per citarne 2) ,è un pazzo e non ha capito nulla. Scomodiamo Dave Mustaine, che un giorno disse inaspettatamente: ”I Ministry hanno dato tantissimo alla musica, ma non hanno mai ricevuto il giusto tributo. Parole sante Dave!!!
Andrea Giuliani
MR C./Change/Karma
Dopo 15 anni di prolifica attività produttiva e lavorativa, il nostro amico Mr C. ci riprova dopo un periodo che per lui è stato abbastanza problematico..nasce così "Change" ("Cambiamento" appunto) che è un album personale e ricco di significato. Mr C., artista pop-techno inglese, è il precursore dell'Acid-house trasformatasi poi in tech-house...ha un bagaglio d'esperienza che non sto qui a dirvi, posso comunque citare alcune sue parole di autodefinizione: "Come un artista, metto le mie esperienze nell'arte". "Change" è un album pop-techno abbastanza completo sotto il punto di vista dei generi, un po' fiacco invece nei tiri..nell'insieme è da considerare accettabile..visto che è pop. Vi consiglio l'ascolto del suggestivo pezzo "Change" caratterizzato dai soliti synth e pad intrecciati, però, con sapienza e con una metrica abbastanza dolce. Pompato il groove di "The Club" per gli amanti dei ritmi tech-house feacturing Robert Owens. Poi, "Hectic Times", ipnotico caratterizzato da molti effetti filtrati, è un classico pezzo dalla voce robotizzata.
Etta' 74
NEST/Drifting/Urtovox
Quando chiederete al vostro negoziante di fiducia il cd d’esordio dei fiorentini Nest potreste sentirvi rispondere “….Nest…?…Nest…Nes…………Nek volevi dire!” oppure, se siete un poco più fortunati, vi verrà detto di guardare se per caso ce n’è una copia nello scaffale dedicato al postemoslownoisewavehard.echipiùnehapiùnemettarock. Del resto in un mercato discografico avvezzo ad etichettare e consumare tutto con vorace noncuranza ed affollato da raccolte di remix delle cover dei remix, dalla 150esima compilation di Bob Marley, da cd tributo confezionati da musicisti sconosciuti in onore di musicisti altrettanto sconosciuti, questo disco sembra destinato in partenza ad essere del tutto ignorato. Purtroppo. I Nest sono stranianti e strazianti su note di violoncello, chitarristicamente disturbati, umorali come il cielo di questa primavera calda e piovosa, aggrappati a tastiere che consumano una wave da tempo non più new, confidenziali tra due voci inglesi intermittenti, mutevoli su sfondo blu notte, caparbiamente schivi, viaggiatori inquieti in lande desolate, dimentichi di sé in paesaggi urbani dimenticati, con lo sguardo distratto oltreoceano da un rock che prima era “post” e poi non si sa, di verde smeraldo vestiti, confusi se intorno c’è confusione, a tratti assonnati, nervosamente teneri, malinconicamente quieti, timidamente aggressivi, nonostante tutto condannati a passare inosservati. Forse.
Guido Gambacorta
NINA NASTASIA/The Blackened Air/Touch and Go
Dopo la resurrezione di Kim Deal Steve Albini si occupa di un’altra donna, tale Nina Nastasia (raccomandata dallo stesso Albini alla Touch And Go) giunta al secondo album dopo un debutto passato inosservato. Di cosa è composto il suo “The Blackened Air” ? di ballate folk dal sapore oscuro come lo potrebbero essere se una Joan Baez fosse cresciuta ascoltando i Devics (“Ugly Face” e “Ocean” quest’ultima una vera perla noir) e cantando come una Suzanne Vega meno educata (“This Is What It Is”), il tutto abbinato a momenti di puro folklore a stelle e strisce (“In The Graveyard” e “All For You”) con tutti gli elementi del caso (non mancano arrangiamenti classici di mandolino, cello e violini) quindi se qualcuno cercava una valida alternativa alla soave bellezza di Tara Jane Oneil e Hope Sandoval sa dove rivolgersi, gli amanti del genere si facciano avanti.
Gianni Avella
NOTWIST/Pilot/ Pick up the phone /City Slang
Sono due i singoli che i Notwist hanno estratto per adesso da “Neon golden” e meritano entrambi di essere segnalati. In “Pilot” oltre all’album version troviamo il remix dei cuginetti Console, i quali rileggono “Pilot” in chiave techno, e una traccia strumentale – “Different cars and trains” – che ricicla egregiamente scorie dub. Ottimo anche lo strumentale “Red room”, secondo pezzo contenuto in “Pick up the phone”, che vede bleeps glaciali liquefarsi in scenari notturni e decadenti. Completano questo secondo singolo il remix di “This Room” curato da Fourtet & Manitoba, con la parte vocale che viene frullata a dovere da ritmiche spezzate, e infine il bel video di animazione di “Pick up the phone” firmato da Luis Brinceno.
Guido Gambacorta
OJM/Heavy/Beard of Stars
La copertina è già di monito e così ecco che appena schiacciato il tasto play sul malcapitato lettore CD sbatti naso e culo sul "solito" impenetrabile muro di suono, le saturazioni ultracompresse e i riffs a terzine del più classico ascendente Kyussiano, evocazioni subito replicate da Revelations. La discesa nel mealstrom comincia con You Come, un giro pesissimo che si allaccia alla più classica matrice doom/ossianica, prima di venir fagocitato dall'inconfondibile richiamo del rettile Pop e dal vortice di TV Eye. Malgrado il gruppo di Treviso dimostri di saper maneggiare con credibilità e competenza il più classico suono stoner, sono tuttavia pezzi come As I know e Theorem che potrebbero dare la spinta per lo scarto decisivo e allontanare il quartetto dalla lunga lista di figli illegittimi di Josh Homme, è lì infatti che il suono soffocante di Heavy si apre e prende respiro espandendosi come un mantice: la prima è una power ballad con ottime saturazioni e uno splendido mood melodico, figlia del Timothy's Monster dei signori Motorpsycho, la seconda, posta a suggello del disco, è una fattanza in cui si intrecciano elettricità e ricami acustici, un dipanarsi lisergico che pare lievitare grazie all'incontenibile furore tecnico degli Ojm, autentica rivelazione della scena stoner europea. E Dio sa quanto ce ne sia di bisogno.
Franco "Lys" Dimauro
PAWNSHOP/Cruise ‘o matic/Beard of Stars
Difficile spurgare ancora qualcosa di nuovo in ambito stoner. Il rischio è che alla fine, per quanto ti sforzi di apparire originale e snob (“lo stoner? Fuck off….noi non abbiamo etichette!” e menate simili…) i tuoi dischi, se ben fatti, finiscono per sembrare sempre un calchino di quelli di Kyuss, Monster Magnet o Fu Manchu. Se fatti male, il critico di turno, nel tentativo malcelato di non tirarsi addosso le ire del distributore, si sbatterà i testicoli a trovare illustri e forzati paragoni che ne possano alleviare lo sdegno (Melvins, Saint Vitus, Soundgarden, Sabbath… anche qui la rosa di nomi è poco fantasiosa…). E’ d’ altronde anche vero che il fanatico di stoner quel disco lo comprerà ugualmente finché, ma questo vale per tutti i feticisti di qualunque religione, un giorno deciderà di venderli tutti in blocco, quei maledetti dischi compressi col solito ampli ficcato in copertina. Fatta la premessa dirò che questo secondo disco dei Pawnshop è un monolite niente male. Ben fatto e quindi, per l’ equazione sopra esposta, simile ad una versione appena + fantasiosa dei Fu Manchu con i quali, oltre al culto per i copertoni fumanti, condividono la stessa passione per pezzi dritti e incendiari (Baby Bitch, Mean Machine) con rarissime rarefazioni (giusto lo Zombie vivente che si fa carico di chiudere la porta) e un grande vocalist come Kjell Undheim una spanna sopra Scott Hill a spadroneggiare e domare la Bestia. Nulla di nuovo quindi, come da contratto, ma il mio consiglio ( e di fuffa stoner ne ho mezza casa piena) è che questo , al pari del recente 500ft of Pipe sia un buon disco per avvicinarsi al genere senza rimanere delusi. Dell’ acquisto obbligato per gli altri abbiamo già detto. Ah, anche un buon mezzo per ripagare la Mammoth della promozione incompetente fatta all’ ultimo Fu Manchu.
Franco “Lys” Dimauro
PITCHSHIFTER/Psi/Sanctuary
Nuovo attesissimo album per gli industrial rockers inglesi PITCHSHIFTER, sulla cresta dell’onda da quasi 15 anni, tornano alla ribalta con un nuovo incazzatissimo capolavoro. Facciamo il punto della situazione, i PITCHSHIFTER sono una delle band storiche della scena industrial inglese della fine degli anni 80’; arrivarono sul fiorente mercato dell’industrial di allora nel 1989 con l’album “INDUSTRIAL”, iniziando una carriera ispirata al suono ipnotico elettronico e minimalista dei miei adorati GODFLESH, rendendolo però più brutale e ossessivo (praticamente grind-industrial!), per poi ricercare con gli anni a venire nuovi orizzonti sonori, più melodici (ma non banali!), più punk nell’attitudine, e molta molta originalità. E così arriviamo ad oggi, i nostri beniamini, scaricati dall’etichetta GEFFEN, che oltretutto non gli fece mai in questi anni un’adeguata pubblicità ….Sono approdati alla SANCTUARY, un’etichetta indipendente in cui si sono accasati anche i MINISTRY scaricati dalla WARNER BROS. PSI è disco di puro PITCHSHIFTER sound, energico, adrenalinico, senza un attimo di respiro, serratissimo nelle ritmiche di batteria guidata da un fenomenale drummer che riecheggiano di un insano drum’n’bass sound; la voce è graffiante e acidissima come al solito, e penetra come un trapano nella mente del povero ignaro ascoltatore, vomitando sentenze contro la decaduta società claustrofobia che ci accompagna ogni giorno. Non c’è una canzone in particolare da descrivere, l’ascolto di questo disco è consigliato in apnea, respirate solo al 53° minuto, alla fine del disco, dopo aver sentito questa dirompente carica esplosiva di chitarre e batterie, l’adrenalina avrà completamente invaso il vostro sistema circolatorio…
Andrea Giuliani
ROLLERBALL/Porky puppet/Wallace
E’ un momento d’oro per i Rollerball e la messe di uscite discografiche, sempre di ottimo livello, che li vede protagonisti negli ultimi tempi lo testimonia. “Porky puppet”, pubblicata dalla benemerita Wallace di Mirko Spino, è una raccolta “sui generis” comprendente frammenti inediti, materiale comparso su compilations e soprattutto la riproposizione dello splendido “We owned lions”, lavoro che il combo di Portland realizzò nel 1998 relegandolo al solo formato vinile: in tracce come Emilio Grace sembra di ascoltare il Tim Buckley sperimentale di “Lorca” ammutolito da presenze orrorifiche; Birds with soul è una magma psico-ambientale degno dei primi This Heat, mentre pulsazioni acquatiche e percussioni sull’orlo del collasso animano Goat wish. Unico brano cantato è The english lord, una litania acid folk alla Holy Modal Rounders. Di fronte a tanta bellezza, il resto rischia di sfigurare, ma siamo pur sempre un paio di spanne sopra l’underground di regime: memorabili il groove di Starling ( con una melodia vocale appena abbozzata, ma efficace ) e la world music virata post di Union veti ( Daniel Givens dietro l’angolo ). Sono questi i Rollerball come li conosciamo oggi. “We owned lions” rimane, invece, un momento raro e forse irripetibile nel percorso di una band che ha dimostrato negli ultimi anni di saper recuperare schegge di un passato a volte dimenticato con invidiabile senso della modernità.
Davide Romeo
SATANTANGO/Downhill/Vinza-autoprodotto
Nati da una costola dei Tupelo e dei Playground (due formazioni garage/blues dell’underground italico dei primi ’90), i Satantango si formano nel 2000 attorno alla figura di Anna Poiani (bassista dei Tupelo e dei primi Playground) in occasione di un concerto, insieme con i Deep Reduction di Deniz Tek, in memoria dei Tupelo/Playground Alessio Zagatti e Stiv Livraghi (quest’ultimo compagno di vita, non solo di palco, di Anna). Seguendo rigorosamente l’etica do-it-yourself dell’autoproduzione e raccogliendo l’eredità dei gruppi-madre (quella più noise-oriented dei Tupelo e quella di chiara matrice sixties dei Playground), la nuova formazione di Lodi ha realizzato un album di debutto, Downhill, bellissimo: una splendida miscela di punk, noise, blues da restare senza fiato, con la magnifica voce di Anna Poiani (un incrocio tra P.J. Harvey e Patti Smith), le chitarre taglienti e abrasive di Luca Fusari e Massimo Audia, il basso corposo di Simone Curioni e la batteria, sempre potente ed efficace, di Luca De Biasi. Il disco contiene pure una cover di Big in Japan (Tom Waits), riletta in chiave stomp/punk/blues. Badate bene: trattasi di un disco fottutamente rock’n’roll. Non mancate all’appuntamento. Info: poianna@libero.it
Gabriele Barone
SLIPPER/Earworms/Mechanism
In tutta franchezza non riuscivo ad immaginare le bacchette di Chris Miller fuori dal contesto in cui le avevo amate, cioè a picchiare sulle pelli di New Rose o Neat Neat Neat, a rinsaccare le panze di chi ha avuto il privilegio di vedere i Damned del periodo aureo in azione. Quindi, avendo mancato l' appuntamento con l' esordio sulla label di mr. Aphex Twin, non sapevo cosa aspettarmi da questi Slipper che vedono, oltre ai rantolanti stantuffi di Rat Scabies, Linda Goldfinger (che non è Linda Lovelace, pace all' anima sua!!) e Sam Dodson dei Loop Guru prodigarsi in questo gioco di incastri che col rock 'n roll c' entra nulla. Siamo piuttosto in un territorio di confine, su una ipotetica striscia di Gaza che ha molte analogie col jazz per la sua natura free, frammentata ed esoterica. Hello, per esempio, sembra Bjork persa tra le maglie della Arkestra di Sun Ra, Smokin' pare un' ombra cinese dei Soul Coughing con quel giro di corde basse così epidermico. Nuhoover invece suona come una banda di paese in preda agli spasmi, laddove Sheep è invece la Naked City di John Zorn che si ferma a guardare il suo 11 Settembre. Gioco seducente, da provare.
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De Dieux /\ SuccoAcido