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Music - CD Reviews - Review | by SuccoAcido in Music - CD Reviews on 01/06/2002 - Comments (0)
 
 
 
20 Miles, Aa. Vv. The Men From O.R.G.A.N., Aa. Vv. You Cannot Hold Diy, Acid Brains, Air, Allun, Angelika Kohlermann, Annie Merckx, Belle And Sebastien, Bellrays, Console, Discolor Iii, Eric Mingus, Françoiz Breut, Girls Against Boys, Gluecifer.

20 Miles, Aa. Vv. The Men From O.R.G.A.N., Aa. Vv. You Cannot Hold Diy, Acid Brains, Air, Allun, Angelika Kohlermann, Annie Merckx, Belle And Sebastien, Bellrays, Console, Discolor Iii, Eric Mingus, Françoiz Breut, Girls Against Boys, Gluecifer.

 
 

20 MILES/Keep it coming…/Fat Possum/Epitaph

Chi segue da vicino la vicenda artistica di Jon Spencer e della sua Blues Explosion saprà che l’ultimo album, Plastic Fang, ha segnato il ritorno della band newyorkese alle radici della musica americana, il blues e il rock’n’roll, mostrando un’evidente influenza della musica dei Rolling Stones. Tale influenza appare ancora più marcata nell’ultimo album dei 20 Miles, side-project di Judah Bauer, secondo chitarrista e anima ‘rurale’ della Blues Explosion. Giunti al loro terzo full-lenght album, i 20 Miles rappresentano il lato ‘tranquillo’, ‘quieto’ della Blues Explosion: nessuna abrasività noise o aggressività punk, ma solo rudimentale delta blues, potremmo dire “hardcore delta blues”, come definisce la propria musica Judah Bauer, suonata con il semplice apporto di chitarra, batteria e percussioni (alle percussioni troviamo il fratello di Judah, Donovan Bauer). Hanno affinato il proprio suono i 20 Miles, ora meno primitivo e selvaggio, più curato nella produzione e arricchito di una poliedrica varietà di stili musicali – country, blues, soul, rockabilly, rhythm & blues – anche se la fonte ispirativa del progetto 20 Miles rimane sempre il blues del Delta. Nel disco, quindi, si passa dalle atmosfere languide, quasi malinconiche di Well, well, well e Only one a quelle decisamente più eccitate di All my brothers, sisters too, con la meravigliosa slide-guitar di Judah, per arrivare ad altri pezzi in puro Rolling Stones-sound (Mend your heart, Rhythm bound, Beautiful dream). Anche questa volta è la Fat Possum, sotto-label della Epitaph specializzata in blues ‘rurale’, a dare alle stampe il nuovo lavoro dei 20 Miles, un disco imperdibile per tutti coloro che amano il lato ‘roots’ e ‘selvaggio’ della musica americana.

Gabriele Barone

AA. VV./The men from O.R.G.A.N./S.H.A.D.O.

Eleganza e coerenza sono doti della SHADO che non si discutono, e chi ama abbandonarsi alle frivolezze amarcord dell’estetica vintage sa che dentro al suo catalogo può trovarsi piacevolmente a proprio agio. Sicché anche questo nuovo lavoro non tradisce quanto promette, ovvero una full-immersion nella riscoperta della tecnologia analogica applicata stavolta ai tasti d’ ottone che, più che portarci indietro nel tempo, ci fa penzolare beatamente in una sorta di atemporalità fuori da ogni dimensione che non sia quella del puro piacere auricolare nell’ esporsi a questa overdose di soffi Hammond, Vox, Farfisa, e Casio piegati al gioco di questi quadri di pop-art onirica e spumosa dai toni languidi e dilatati (con poche eccezioni: L’ Argumentation con un Vox saltellante che pare uscito fuori da qualche inedita jam dei Doors, la discomusic da Via Veneto dei Papas Fritas, il rivolo minimal-disco di Gonzales, la divertente marcetta dei Sukia, NdLYS) che, quasi a voler sfidare le pieghe del tempo, ripesca pure dal passato perle di sonorizzazione di Nino Ropicavoli, Berto Pisano (scomparso, scherzi del destino, giusto due mesi prima dell’uscita di questo disco che ne sigilla il ricordo) e Martin Rev in un esperimento propedeutico al suo ormai prossimo “Suicidio”. Bravissimi lì alla S.H.A.D.O., a fotografare i graffi e i graffiti di un’ epoca che ha il suo fascino immortale.

Franco “Lys” Dimauro

AA. VV./You cannot hold diy/It is an adjective/Ouzel

Compilation di gran classe questa realizzata dalla Ouzel, etichetta di La Spezia che con “You cannot hold diy – it is an adjective” arriva al traguardo del primo cd stampato dopo una serie di cassette e cdr confezionati ad uno ad uno artigianalmente. Le 19 tracce, tutte inedite, rappresentano un’interessante carrellata su quanto si agita nel sottobosco low-fi e post-rock, sia europeo che americano: incontriamo tra gli altri, e tralascerò sicuramente qualche nome importante e qualche piacevole sorpresa, i Morose, che fanno gli onori di casa in quanto gruppo di punta della Ouzel Records; i June of 44 (!) con “Modern hereditary dance steps” registrata dal vivo a Sydney; Darryl leigh blood con il suo folk-rock da cameretta; due belle realtà nostrane come Lo-fi sucks e Milaus; ONQ con la sublime “Pole station”; e ancora i francesi Klimperei, i tedeschi Luke, gli americani Minmae, i sorprendenti italo-londinesi Prague. Il mio pezzo preferito? Davvero arduo sceglierne uno solo in una raccolta di ottimo livello, però direi che sarebbe impossibile per chiunque non notare una traccia come “Grace” degli Spiralman! La bella custodia cartonata e la cura con la quale sono stati indicati i contatti di tutti i gruppi partecipanti conferiscono a “You cannot hold diy – It is an adjective” quel valore aggiunto che fa di questa compilation un vero e proprio oggetto da collezione.

Guido Gambacorta

ACID BRAINS/New shit in my mind/Autoprodotto

I toscani Acid Brains sono un gruppo noise-grunge giunti se non sbaglio al loro terzo disco autoprodotto. Il cd, ben registrato, è sicuramente debitore del suono dei Nirvana: si parte con SHIT, MILK & PAIN, cavalcata di nirvaniane memorie disperata e malinconica si prosegue con AGONY dai toni più soffusi, una SOMETHING IN THE WAY elettrificata. I’M GONE è forse il brano migliore, ed è una ballata di quelle che fanno male, positivamente ossessiva nella ripetizione continua di alcuni passaggi del cantato. TAKE ANOTHER WAY è invece un crossover fra musica postpunk-dark e giunge. Consiglierei di aumentare la violenza, nei confronti della paranoia del cantato, perché alla lunga sono un po’ logorroici …forse lo consiglierebbe anche il buon vecchio COBAIN, ovunque egli sia….

Andrea Giuliani

AIR/The Virgin Suicide/Astralwerks

Ho ascoltato il cd senza avere prima visto il film. Suggestivo, ti lascia dentro un certo senso di angoscia che non ti spieghi: saranno le atmosfere dark, i pezzi che si richiamano fra loro e si fondono in un tutt’uno inscindibile, mai completamente nitido, sempre avvolto da un alone di mistero, quel mistero che ha il sapore della tragedia, che ti mette addosso inquietudine e disagio. Inevitabile la curiosità di vedere il film di Sofia Coppola: detto, fatto. E tutto assume dei contorni più chiari. Sulla scia di “Pic-nic ad Hanging Rock” di Peter Weir, dove le ragazze sono inserite in una dimensione quasi onirica, siamo in presenza di cinque angeli biondi, irraggiungibili come dee per i ragazzi del vicinato, i quali subiscono inebriati la loro sensuale inquietudine adolescenziale.Riascolto il cd ed ha un sapore del tutto nuovo. Ogni pezzo rievoca la luce triste di quegli occhi incompresi, che scelgono la morte proprio quando erano sul punto di assaporare la vita; la spaccatura tra i genitori perbenisti e conservatori e la vitalità e la voglia di andare incontro ai primi turbamenti; la morbosità di cui cadono preda i ragazzi coetanei e la loro ossessione nell’andare sempre con la memoria a quegli ultimi momenti della loro fanciullezza, dove le ragazze si stagliano ancora luminose e immortali. Le atmosfere sono quelle tipiche degli anni 70, in cui gli Air dimostrano ancora una volta di muoversi con disinvoltura, con un debito in alcuni momenti, soprattutto nel tema portante “Highschool Lover”, ai vecchi Pink Floyd strumentali. Per sentire “Playground Love”, unico pezzo cantato dell’album, bisogna aspettare i titoli di coda, nomi che scorrono su uno sfondo scuro, ma testo che evoca immagini: le prime vibrazioni, i primi sussulti di Lux su quel campo di gioco che l’ha introdotta al piacere più proibito e scandaloso, quel piacere che va punito, quella punizione che ha conseguenze inspiegabili. E gli Air in tutto questo sono narratori discreti, le loro musiche non dominano mai in maniera esagerata, quasi fossero loro stessi affascinati da cotanto splendore. E se qualcuno non capisce, non importa: evidentemente non è mai stato una ragazzina di 13 anni. Parola di Cecilia.

Antonella Fontana

ALLUN/Onussen/Bar la Muerte

E riecco le Allun, l'arty-band della 'star' di casa La Muerte, la cantante-chitarrista-violinista Stefania Pedretti. Notevoli: il loro genere è il free-jazz-noise, il loro immaginario e la loro poetica si collocano lungo un arco temporale vastissimo, che ha inizio con i culti dionisiaci e i baccanali orgiastici della Grecia arcaica, che approda poi alla tradizione grottesco-carnevalesca del rinascimento europeo, sino a ricongiungersi infine ad alcune delle più significative esperienze dell'avanguardia occidentale del 900 - quelle relative a quella schiera di artisti capaci di coniugare il 'basso' quotidiano alla sublimazione dell'opera d'arte concettuale (Jarry, Brecht, Beckett, la pop art). Stregonerie coscienti d'irrazionalità controcorrente. Onussen è il secondo CD della band, facente seguito ad Et Sise, lavoro per certi aspetti ancora acerbo, ma già capace di mettere in luce la qualità espressiva e il forte impatto naif e 'punk' (!) della band. A tre anni di distanza le Allun giungono dunque ad un nuovo approdo del loro visionario viaggio nell'arte, siglando quella che per ora è stata la tappa più entusiasmante di questo breve ma intenso cammino. Nonostante il radicale cambio di formazione (che vede ora ai tamburi la potentissima Marylise Frecheville), il genere e lo stile della band rimane immutato, mentre da un punto di vista prettamente strumentale vi è da notare un'intensificarsi di suoni e partiture per giocattoli ed elettrodomestici (asciugacapelli, macchine da scrivere, lavatrice e molto altro...). La materia sonora è come al solito disarticolata e furibonda: a tratti vi torneranno alla mente i folli Flying Luttenbachers di Weasel Walter, altrove i Contortions di James Chance, o ancora il noise made-in-Japan di Melt Banana e Boredoms (88 Giugno), e ancora marcette tra Beefheart e Tom Waits (Colazionsite), spasmi a la Arrington de Dionyisio (zanzara innamorata), ma alla fine, dopo questo continuo citarsi e re-inventarsi, si potrebbe dire semplicemente che le vostre menti inquadreranno Onussen come un curioso remake di Ornette Coleman, e del suo storico Free Jazz. Il tutto in chiave post-punk, naturalmente. Un ultimo plauso a questo punto ai produttori di questo disco, i già noti Jacopo Andreini e Bugo. A mio avviso un lavoro di registraziome-mixaggio pressoché perfetto, davvero capace di fare la differenza. Ma forse di questi tempi i complimenti in casa Bar La Muerte se li meritano un po' tutti...

BakuniM

ANGELIKA KOHLERMANN/Care/Tomlab

Dai sussulti di notizie che la Tomlab ha messo in circolazione Angelika K. dovrebbe essere lo pseudonimo teutonico di uno stimato artista francese… bè, io non credo più a nessuno. Il disco: l’intero lavoro è pura materia disorganizzata, sotto l’egida della con-fusione, pur restando ancorato ad un solido asse pop… Però mi sembra stigmatizzi i cliché di cui si sostanzia, perché guarda da una prospettiva altra… Come Cibo Goloso, organoletticamente - intendo; comunque, poi: fegato gonfio e rigurgiti verdi/bile… Nel suo modo monco, si tratta di un concept… Angelika – l’alter ego – disegna la protagonista di una fiction sonora… una ragazza che lascia casa – Parigi – e il suo ragazzo… prende un treno per Kohn dove incontra i tipi di una fantomatica Label che la rivelano stella in erba… è un cliché pornastico! Incomincia la sua transustanziazione in Suono. Musica melò, chitarristica, per giovani giapponesi (?) Litanie bambinesche…Questo è il Cuntu!… a cui non pone fine. La realtà fotografa un gradevole disco di lounge lo-fi electronica, pop straniante e legiadri experpts… immancabili tastierine giocattolo. Un po’ Stereolab. Un pizzico dell’ultima Solex. E’ fiction, quindi bisogna crederci. Intervista sul prossimo SuccoAcido di settembre.

Joele Valenti

ANNIE MERCKX/anniemerckx/autoprodotto

Gli Annie Merckx c'introducono dentro il loro mondo attraverso una porticina (quella che si apriva da sé del video di "Love will tear us apart" dei J.D.?) con un intro (MM San Leonardo) che mette subito in chiaro due cose: 1, che un po' i coglioni gli girano, 2, che ciò che ci aspetta, ci piaccia o meno, non sarà puro divertimento, ma un po' d'insana introspezione. Non si esce vivi dagli anni ottanta? L'amore ci strazierà? Milano circonvallazione esterna? Non farò paragoni, chi vuole capire, capisca, anche perché queste 10 tracce non sono male, non sono proprio estive e non aiutano in quella che Fabio Volo in "Esco a fare due passi" chiama la preparazione del trappolone, ma non sono neanche estremamente cerebrali. Rock nella sua ossatura classica, basso-batteria-chitarre elettriche riffose, ma dal sistema nervoso anemicamente wave, occhi sbarrati e pelle bianca ("vivo di notte con le anime pperse, oooo"), tastiere-campionatore-sax soprano e tenore. A parte gli scherzi, l'impasto ed i riferimenti si fanno apprezzare... info: www.anniemerckx.it

Andrea Pintus

BELLE AND SEBASTIEN/Storytelling/Jeepster

E’ bello che in un mondo artificiale, banale pieno di playstation e noia, ogni tanto emerga una perla di siffatta natura. In una atmosfera che ricorda Nick Drake, ma in taluni passaggi anche i Clash di London Calling, il nuovo album di questi due autentici eroi scorre fluido, rilassandoti la mente facendoti navigare, ritornando su certi temi con qualcosa in più, narrando una storia in musica, lontano da schemi prefissati di un tot di canzoni per riempire l’album, proprio come facevano i grandissimi jazzisti degli anni ’60 come il Mingus di The Black Saint and the Sinner Lady. Obbligatorio.

Totuccio

BELLRAYS/Meet the Bellrays/Poptones/Telstar

Sono la sensazione ‘rock’ del momento. Si chiamano Bellrays e vengono da Los Angeles. Sono un quartetto dall’energia e potenza letteralmente devastanti, incendiarie. A guidarlo è l’indomita ‘pantera’ nera Lisa Kekaula, la reincarnazione vivente di Tina Turner e Aretha Franklin. Definiti giustamente come gli “MC5 guidati da Tina Turner”, i Bellrays raccolgono in effetti tutta l’eredità dell’immortale sound di Detroit, via Stooges ed MC5, combinandola con una strepitosa anima (e voce) soul. Siamo in presenza di una vera e propria “soul-punk revolution”, come essi stessi amano definire il loro approccio alla musica, un’incredibile mistura di hard e punk al servizio di un’anima nera. Ha visto bene la Poptones che, volendo bissare il successo della recente raccolta dei garage-punkers svedesi Hives, non ha voluto farsi sfuggire questa bella occasione: pubblicare una raccolta contenente i migliori episodi dei primi due albums ufficiali della band losangelina, Let it blast (1998) e Grand Fury (2001), usciti su etichette di difficile reperibilità per il mercato europeo. E’ così che abbiamo la possibilità di ascoltare l’incontenibile assalto punk-soul di Too many houses in here e Fire on the moon, poste in apertura d’album. In tutto 14 brani più la ghost-track Have a little faith in me, una soul ballad in puro stile Motown anni ’60. Se prima avevate dalla vostra la giustificazione di una difficile reperibilità dei loro albums, adesso avete tutto a portata di mano. Approfittatene.

Gabriele Barone

CONSOLE/Live at Centre Pompidou/Payola

Ennesimo capitolo della saga Notwist (Martin Gretschmann dietro le macchine di Notwist e Console ed autore o coautore di tutte le otto tracce incluse in questo live) ed ennesimo piccolo gioiello di elettronica strumentale e stratificazioni post-kraftwerkiane. Durante il concerto qui documentato, tenuto il 9 febbraio 2001 al Centre national d'art et de culture Georges Pompidou di Parigi (a partire dalle 21, 52 minuti e zero secondi fino alle 22, 48 minuti e 42 secondi, come viene precisato all’interno del booklet), i Console hanno eseguito anche “Crabcraft”, il pezzo sul quale la voce di Björk ha poi ricamato la splendida “Harm of will” nell’ultimo “Vespertine”. La musica dei Console racconta di una passeggiata in campagna sotto l’ultimo sole estivo; dell’attesa di una telefonata consumata pigramente in casa con il televisore acceso e lo sguardo assente; di un lungo viaggio in treno passato ad osservare lo scorrere del paesaggio attraverso il finestrino; di lettere scritte e mai spedite. E la bellezza del disco sta proprio in questa sorprendente forza narrativa.

Guido Gambacorta

DISCOLOR III/MizMaze/Lizard

È difficile prevedere una Nuova Mitologia… Gli Déi muoiono e rinascono – coerenti alla loro weltanshaung – con velocità telematica. Déi telegenici, bella pelle e chiappe toste. Difficile prevedere le dinamiche del mercato – tutto sempre più commerciabile, codificabile…Saturazione da last new sensation. Per l’Italia, però, è sempre un discorso a parte. Che sia negativo è solo una estrapolazione arbitraria. Anzi, credo che da più punti di questo microcosmo arrivino segnali a bassa frequenza, vibrazioni di rinascita. Sarebbe ipocrita celare la mia ammirazione per la Mizmaze dietro freddo cipiglio professionale. Tracimerebbe comunque. È rara la dedizione passionale con la quale il titolare segue le sue iniziative editoriali. Fede Bambinesca. Veniamo al dunque: Discolor è Limo, al secolo Stefan Lienemann. Ci troviamo in piena cultura psichedelica, ma quella che ri-legge trasversalmente, mai dedita a pose e rigurgiti autoreferenziali…È il terzo capitolo, la più recente delle sue avventure lisergiche, a seguito di una copiosissima discografia… ricordiamo lo space rock di Shiny Gnomes, l’elettronica straniante e kitsch di Weltraumservice e il retaggio pop Fim Froil…L’eclettico polistrumentista di Norimberga in questo non-luogo fuori dal tempo – via dallo sclerotico scandire lineare – ci fabbrica una subliminale coscienza del Tempo, quello cosmico del fluire circolare… Gli elementi caratterizzanti sono sempre presenti. Ma la visione sembra essere informata da un livello addizionale, da una più ampia sfera sensuale. Si viaggia su un chitarrismo fuzz-feedback, uno sciame in subbuglio! Spirali d’eco e riverberi fanno il solletico agli strali più sommersi della nostra coscienza, quelli sotto la veglia, che ci tengono legati agli altri, anche quando dovremmo perderci. E poi macchine a lavoro, come musica tra pianeti, micromoog, sitar, intuizioni acuminate… Contaminazione in Technicolor. Siamo in un’era di perdita di collegamento collettivo. E questa è Mitologia. Se ne fa esperienza col cuore.

Joele Valenti

ERIC MINGUS/Too many bullet…not enough soul/Some

Quando ci si trova davanti a nomi come Mingus, Coltrane ecc. si sente quasi il dovere morale di cominciare a fare i paragoni. Frasi del tipo “ma suo padre era tutta un’altra cosa…” non ci riguardano e non ci interessano. Qui valutiamo solo il lavoro della gente, forse immeritatamente, per vedere se c’è musica o no. L’unica cosa che voglio dire sull’argomento padri-figli prima di parlare del disco è che credo nella genetica. Anche se non c’entra niente con Charles, Eric ha ereditato da lui la cosa più importante: la capacità di interpretare il bisogno del momento e cercare di appagarlo. Così come il padre ad un certo punto ha cambiato jazz fino ad allora giunto al bop (ascoltate “Reincarnation of a love bird” e probabilmente non tornerete più indietro), così il figlio già in Em..Uhm cerca un’altra strada che passa anche per il soul, ma un soul per niente moscio, energico che non teme sconfinamenti nel rock. La felice collaborazione di uno che in tutto ciò che ho detto ci rientra benissimo, Elliott Sharp, non fa altro che dare al disco un’ulteriore iniezione di vita che oggi è più facile trovare in produzioni marginali anche meno ortodosse quali, per esempio, la migliore elettronica del Nord Europa. Non sto a dirvi traccia per traccia di cosa si tratta. Al termine del disco sarete appagati. Un disco che lascia una sensazione.

Totuccio

FRANÇOIZ BREUT/Françoiz Breut/Bella Union

é da poco che è stata ristampata la prima fatica della cantautrice francese che, appena quest’inverno, si è imposta all’attenzione di tutti gli amanti di un certo cantautorato intimista, acustico e dai testi poetici; e per di più si tratta di una voce femminile la cui lingua è, salvo qualche eccezione, il francese: un vero gioiello del genere, dunque, che possiede la raffinatezza e l’eleganza di un cammeo. Già i testi di Vingt A Trente Mille Jours si imponevano per la loro delicata poeticità (e, senza dubbio, un conoscitore del francese può meglio apprezzarli in tutta la loro pienezza e profondità) e per delle sonorità da cantautorato americano o inglese, ma da un idioma diverso dalla norma. Questo Cd or ora ristampato, a mio avviso, è di impatto più facile del primo, anche se, ancora una volta, colpisce per l’originalità dei contenuti, sia testuali che musicali. Da questo disco si sprigiona a volte una realistica filosofia dell’esistenza, come in “Le Don D’ Ubiquitè” o in “Everyone Kisses A Stranger”, dove si susseguono battute in inglese e francese in alternarsi di voce femminile e maschile. Il tutto graziosamente corredato da(i) disegni didascalici della stessa cantautrice. Per gli appassionati di voci femminili è questo un disco interessante che accosta la sua autrice ad altre colleghe, come Cat power o Tara Jane O’Neil, anche se, fatta qualche eccezione, l’umore complessivo è meno triste, ma all’insegna di un’accettazione malinconica e disincantata della realtà delle cose.

Tiziana Rosapane

GIRLS AGAINST BOYS/You can’t fight what you can’t see/Jade Tree

Sono come rinati, i Girls Against Boys, e c’è chi temeva - a ragione - di un loro collasso definitivo, dopo le preoccupanti avvisaglie di crisi che si erano manifestate in Freak on Ica (uscito sulla major Geffen). Fortunatamente, invece, il gruppo di Washington DC ha ritrovato la propria ispirazione in una dimensione, quella indie della Jade Tree, che gli è perfettamente congeniale. Il disco in questione racchiude il meglio dell’arte dei Girls Against Boys: unisce la rabbia e la tensione di Cruise Yourself con la cura formale di House of GVSB e gli inserti di elettronica di Freak on Ica (che in quest’ultimo però ne costituivano un limite), il tutto all’insegna di un post-punk energico, teso e nervoso, che si inserisce lungo la linea del noise chitarristico dei Sonic Youth, senza però appiattirsi sul modello di riferimento. La chitarra di Scott McCloud è tornata a graffiare come prima, la batteria di Alexis Fleisig ha ripreso la potenza e l’efficacia di un tempo e il basso di Johnny Temple è nuovamente in primo piano. Un gran bel disco, che farà ricredere seriamente quanti, invece, avevano sottovalutato le potenzialità del quartetto americano.

Gabriele Barone

GLUECIFER/Basement Apes/SPV

Ed eccolo, l'esordio "maggiore" per gli alter-ego degli Hellacopters. A suo modo, un momento storico, l'ulteriore legittimazione del movimento rawk 'n roll scandinavo a musica "di consumo" anche se mi pare giusto ridimensionare il fenomeno: è pur vero che gli Hives stanno facendo il cuore a brandelli agli inglesi ora che sono usciti su Poptones (e risollevando l' etichetta di Mc. Ghee da morte prematura e certa, NdLYS) e che i Glue e i 'Copters assieme a molti di quelli che sono rimasti appiccicati alla colla dei primi e alle eliche dei secondi riescono a vender più dischi che manco Wayne Kramer in tutta la sua carriera ma è pur sempre vero che le grosse cifre sono ben altri nomi a farle, dalle scorregge del nu-metal allo stagnante circuito ska-punk e che alla fine tutto il carrozzone nordeuropeo rimane privilegio per pochi. E che, credevate che tutto il mondo si fosse convertito agli Stooges e ai Cheap Trick o che Radio Deejay potesse passare Ramblin' Rose mentre voi sonnecchiate davanti alle pagine del Televideo? No, per Dio, il rock 'n roll rimane roba per intimi anche se il battage promozionale aiuta a smerciare qualche copia in più e i Gluecifer per l'occasione danno una ripulitina al loro immondezzaio dando un tocco glamour a buona parte del disco scelto per l’occasione (il singolo Easy Livin', il pop madreperlato di Round & Round, l’oscura cartilagine che sorregge Little Man, il rock sgusciante di It won't be in cui pare di sentire i Guns 'n Roses o i Cult di Wild Flower ustionati dal mellotron) ma certi schiaffoni rimangono tali anche se a mollarteli è un tipo col cravattino in pelle ben adagiato sulla camicia piuttosto che un punkabbestia borchiato e rattoppato di pezze e quindi ecco Reversed, Not enough for you o Shotgun Seat a ricordarci quello che i Gluecifer rappresentano ancora per l' impero r 'n r mondiale.

Franco "Lys" Dimauro

 


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