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Music - CD Reviews - Review | by SuccoAcido in Music - CD Reviews on 01/05/2002 - Comments (0)
 
 
 
The Emo Diaries Chapter Seven, The Jon Spencer Blues Explosion, Truman’s Water, Woven Hand, Xiu Xiu, Xxxxx, Zabrisky, Zen Circus, Zero-H.

The Emo Diaries Chapter Seven, The Jon Spencer Blues Explosion, Truman’s Water, Woven Hand, Xiu Xiu, Xxxxx, Zabrisky, Zen Circus, Zero-H.

 
 

THE EMO DIARIES CHAPTER SEVEN/Me Against The World/Deep Elm

Etichetta sinonimo di emo core la Deep Elm arriva al settimo capitolo delle Emo Diaries confermandosi label “sensibile” per eccellenza. Tra le 12 inedite proposte trovano spazio le emo-zionali sorprese dei Time Spent Driving, Bifore Braille gruppi che non intralciano la tradizione dei vari Last Days Of April, Applessed Cast ecc.., il blues sgangherato dei Seven Head Division e il cantautorato (à la Hayden) dei Drive Til Morning, ma le sorprese arrivano con I This Beautiful Mess e One Starving Day: i primi (gia un album per la Deep Elm) sono fautori dell’ennesima variazione sul tema Radiohead (quelli prima della svolta) con la loro “Racing The Mosiac” zeppa di melodie e cantato che più emo non si può, con i One Starvin Day invece ci allontaniamo da genere emo nello specifico per concentrarci sulla parola emo x quello che è, cioè emozioni, e la loro mini suite “Animus” coniuga “quasi” alla perfezione la perenne angoscia dei Neurosis con le lande desolate dei Godspeed Your Black Emperor generando inquietudine e ansia, non sono emozioni queste!? Considerando poi che sono italiani (della “mia” Napoli in questo caso) la loro proposta è quantomeno interessante. Con loro si chiude questo settimo volule delle Emo Diaries, Peace and emo.

Gianni Avella

THE JON SPENCER BLUES EXPLOSION/Plastic Fang/Mute

Primo. Il presente è stato decretato ‘disco del giovane alternativo’ dalla trasmissione Tropical pizza in onda su radio dj in seconda serata martedì 23 aprile, esattamente prima che io mi decidessi a scrivere queste righe. Pregasi coloro responsabili, di andarsi a sentire, per esempio, qualche pezzettino dei Pussy galore quando c’era anche Hagherty oltre Jon Spencer per rifarsi le orecchie, le idee, e magari una vita. A parte che hanno detto: “ Questa è una band particolare con due chitarre, senza il basso, come i Doors che non avevano il basso… Beh forse questa è una nota un po’ tecnica…” …ma lasciamo perdere…Secondo. E’ un disco dove anche ogni sempreverde amante del vecchio rock più radicato, più classicheggiante, più tradizionalista, più riconoscente nello spirito e formalmente debitore alla matrice anche soul, blues e rithm ‘n blues, potrà trovare un pezzo da amare. E il bello è che ognuno si innamorerà almeno di un pezzo. E fra tre anni magari potrà sempre rivalutarne un altro. Parleremo di Rolling Stones no?! Terzo. Questo disco odora dei Rolling Stones (eccoci appunto) più miticamente lerci lontano un chilometro. Puzza (non troppissimo) di rock ‘n roll sanguigno. Quarto. Secondo me è proprio pura attitudine rock (e ricapitolazione di una storia personale) stragrezza però iperpodotta e pronta al lancio commerciale su larga scala. Le chitarre, la batteria, la voce stessa, il loro suono registrato (o meglio la registrazione del loro suono, diciamolo via: la produzione del loro suono) parlano di questo.Il Fango (lo stragrezzo sanguigno e viscerale, il suonare di quegli strumenti in quel modo [non il suonare del disco, verificare dal vivo] l’attitudine, la storia personale, i dieci yeah a fila di uno che porta la cintura di Elvis e se lo può permettere) certamente e la Plastica (la iperproduzione, la ricerca e lo studio di un prodotto appetibile a livello popolare, le foto in cui ci viene mostrata la cintura di Elvis) chiaramente. Quinto. La copertina-libretto interno del cd è graficamente uno spettacolo. Non ho visto quella del vinile ma se la riproduce esattamente rispettando le dimensioni è veramente una delle più belle degli ultimi tempi. Sesto. Sarà mai tirato in ballo in futuro questo disco, discutendo di Nevermind dei Nirvana? A me piace di più questo, al resto pensate voi. Vabbè il 1991 è l’anno che il punk sfondò, fece il botto. La storia (bo?!) ha già fatto. La storia (ribo?!) è già stata fatta. Anzi già interpretata (doppio ribo?!). Al resto pensate voi. PS: Ma come sono messo? Non mi piaceva Cobain a sedici anni e mi piace Jon Spencer a 27 (triplo, anzi quadruplo RIBO?!).

Giovanni Vernucci

TRUMAN'S WATER/Truman’s Water

SOUL JUNK/1942/Sounds familyre

Truman's water. acqua di Truman. Truman's acqua.Truman Truman. acqua acqua. Boh? Ma sì, mi andava di iniziare questa recensione in modo stupido, così da sintonizzare le vostre apertissime menti sulle frequenze stra-strambe dell'ultimo lavoro dei trumans. Strambo poi forse nemmeno come i precedenti, basti prendere l'iniziale 'miss spaceship' che tira in ballo l'aspro e ai tempi socialmente apprezzato post-core che fu di rodan e june of 44. Ma poi arriva 'who owns the sun' ed è di nuovo delirio noise-psichedelico, suoni urtanti e schegge chitarristiche impazzite che procedono tra voce sommersa, demenze psych e rumorismi aciduli.questi truman's water hanno confezionato alcuni tra i dischi più folli dei 90's - last but not least l'ultimo fragments of a lucky break - senza mai concedere nulla alla sopportabilità-gradevolezza di tale accozzaglia di rock da prudersi. però attenzione, non per questo i nostri vanno sottovalutati. Da ciò che ho letto su di loro in questi ultimi anni infatti mi sono sempre parsi una specie di band minore, di simpatici e folli sperimentatori di serie b, quando invece il loro rock è degno di entrare in un olimpo splendente costellato di rutti e peti a fianco di vecchi pazzerelli come butthole surfers o thinking fellers. spruzzatine no-wave (self-censured), deliri psych-minimali alla god-co (limping towards oblivion), marcette spaziali a metà tra colossamite e nando meet corrosion (failure to quit), addirittura finale a sorpresa con una ballatona country-lunatica per chitarrine storte (sun tastes like fire)... Beh, che altro potevamo chiedere ad un disco noise nell'anno di grazia 2002? Discorso un po' diverso per i Soul Junk, band dell'ex-chitarrista dei trumans. Invasatissimi di religione (uno dei membri è insegnante di catechismo) e autori di una serie di ottimi dischi quali 1950, 1951, 1952, ci propongono un ep di sei pezzi, che ci spiazza letteralmente infatti si intitola 1942. Ballate quasi a-capella pennellate di farfisa (like inside the soul junk cathedral) si trasformano in sparate indie-punk del dopo bomba, dal sapore vagamente pavementiano (israel and the limping hip), e poi che tipo questo cantante, un Mike Patton ubriaco che mentre canta si fa i gargarismi, e ancora jazzettino, tastierine, coretti della giungla e melodie sixties perfettamente confezionate (fascinating smells). Insomma, due band tutte da riscoprire, i primi folli noisers psichedelici e spaziali, i secondi imbattibili nel confezionare ritornelli immortali e atmosfere giocattolo. Se avete esaurito i cataloghi di Skin Graft e K Records sapete dove andare a parare.

BakuniM

WOVEN HAND/Woven Hand/Glitterhouse

C' è un cuore nero che batte nel petto dell’America, che si agita, inquieto e fosco. Scuro e torvo, sta sepolto dentro la sua stessa carne e ci parla di cieli immensi, sperduti come solo certi cieli americani sanno essere. E che quando si gonfiano di nubi, sembrano cotone imbevuto di petrolio, e le saette che gli squarciano le viscere sono cicatrici al neon che si aprono e ricuciono facendoci sentire piccoli e perduti. E' la stessa America delle copertine degli Eagles e dei Grateful Dead, ma solo dopo che l’Hotel California ha spento le sue luci per sciogliersi nella lugubre salsedine arrugginita dell’Hotel Montana (Blue Pail Fever) e dopo che un triste killer dal volto sfregiato ha lasciato Jerry Garcia e compari esangui sulla banchina polverosa del loro Workingman' s Dead. E' la stessa, spettrale e malata, descritta nei dischi del Black Heart Procession (un cuore nero, dicevamo...), Hugo Race o di Nick Cave quando usava l’inchiostro per abbeverarci l’anima, piuttosto che firmare liberatorie per mandare la sua immagine su MTV. Funerea e luttosa, come quella dipinta dentro i dischi degli Sparklehorse. E' l’altra faccia della No Depression, quella cantata dai Woven Hand, è l’ultimo country della Terra (Wooden Brother), intonato da cowboys senza nome appesi ai rami (Story & Pictures). Poco conta che dietro questa sigla si celi una delle menti del nuovo alternative country americano (per la cronaca il leader dei 16 Horsepower, David Eugene Edwards, NdLYS), i Woven Hand sono un’altra cosa, autori di un disco grandissimo, che si abbarbica al cuore e te lo succhia come un pomodoro, non fateveli sfuggire, per niente al mondo.

Franco "Lys" Dimauro

XIU XIU/Knife play/Rue christine

Ecco qua un disco che pare fatto dal/di dolore vissuto. Dolore, sofferenza, vuoto abbandonato. Un ascolto agghiacciante ed amabile. Sorpresa per crogiolare i vostri umori neri nell’ombra e nel buio. Non so se la catarsi vi potrebbe arrivare ad arridere, a distendere. O se questa musica vi inghiotte e vi porta dentro. Rapendovi storditi. Niente paranoiette o depressioncine. Solo male patito. Ributtato fuori. Rigettato. Graffi esistenziali che affondano ferite. Doom. Pare proprio un disco partorito e non costruito. E una voce apposta per cantare questi stati, che è questo stato. La band arriva da San Diego ma questo suono vorticosamente nero appena screziato da argento e da qualche scaglietta di qualche strano, raro, colore, è molto più pesante e meno ingabbiato, più fantasiosamente e diversamente arrangiato, più vario, inaspettato, inusitato, di quello dei compaesani Black Hearth Procession. Dove questi usano drum machine e batterie acustiche gli Xiu xiu usano diavolerie elettroniche assortite, campanelli vari e gong preparati (sembra). Se i Black Hearth Procession faranno (o hanno già fatto) un Closer questi faranno (o hanno già fatto) un Pornografy. Viene da chiedersi che aria tiri là a San Diego. Che razza d’umore circoli. Dopo averlo sentito e risentito domandatevi: “Ma se questi il disco non lo facevano, se le canzoni restavano nella testa di chi le ha scritte e cantate, quanto gli sarebbero pesate? Fino allo scoppio?" Dopo averlo sentito, risentito e ririsentito aiutami a dire: “Bello, bello, bello”. Per chi si sente orfano dei Joy Division. Per chi andrà a piangere lacrime e anni su un fazzoletto viola al funerale di Robert Smith. Amen.

Giovanni Vernucci

XXXXX/xxx xxxx/xxx rec

Un intrigante ibrido di nullità e silenzio, autoesaltazione dell'impossibilità d'essere, un disco epocale, in tutti sensi. Gli xxxxx sono riusciti a non riuscire, addirittura nemmeno minimamente a provare. In un’epoca di surplus audibile il primo passo è il silenzio, ma il secondo è necessariamente il nulla. Provate ad ascoltare questo disco: non ci riuscirete. Sperimentazione e classicità, pop e avanguardia, ibridi esaltanti, dischi epocali. La fertilità creativa dell'epoca presente è spiazzante, disorientati in una selva di dischi meravigliosi, dischi scintillanti, dischi che rischiano, che spiazzano - tortuosi, finalmente alzano la testa, OSANO. Il supporto fonografico è passato attraverso tante piccole rivoluzioni, dall'analogico al digitale, dal vinile al Cd, dal rumore sporco al silenzio pulito, microwaves, free-noise, di tutto. Ora “tutto” è finito - è la volta degli xxxxx. Con questo nuovo e vecchissimo lavoro la band scaccia ogni fantasma passato, riuscendo nell'impresa enorme di sommare le mille scappatoie del presente in un unico sbocco epocale: un disco inesistente. S'è scritto che gli Nmperign sono la “nostra essenza”, ciò che veramente siamo. Specularmente gli xxxxx sono contraltare a tutto questo, a un rock auto-referenziale, ego-maniaco, a un rock vivo. Gli xxxxx sono il nulla. Attenzione, ora non fraintendete questa recensione con tante stupide speculazioni nichilistiche e intellettualoidi. Gli xxxx ci vogliono soltanto dire che l'essenza dell'essere umano è l'illusione dell'infinito, concentrata, schiacciata, compressa in un solo attimo, chiamato “vuoto eterno”. E' la non-presenza - il non presente - circondato da un futuro e un passato che non possono essere e non saranno mai. La storia del rock si chiude con questo disco, ovvero il sunto di ogni altra operazione in ambito culturale contemporaneo. Questo degli xxxxx è un lavoro che non ascolterete mai, naturalmente introvabile in quanto inesistente, ma che segna il culmine di quell'arte iniziata con 4'33'' di Cage e Maybellene di Chuck Berry. L'ultimo respiro, finalmente. Apologia del morire.

BakuniM

ZABRISKY/Orangegreen/Srazz

Hanno scelto il nome del loro primo full-lenght dai colori del Venezia ma non aspettatevi musica da curva sud, cori da stadio e testosterone a palla. I Zabrisky sono sì dei tifosi ma si auto-rilassano nel dopo partita ( e magari anche durante vista la situazione della loro squadretta :-)) suonando un pop rilassato, a volte indolente, perfetto per accompagnare qualche pigro pomeriggio primaverile. Le canzoni di 'Orangegreen' si rivelano debitrici di certa neopsichedelìa inglese dei primi anni Novanta e dello shoe-gazing di fine anni Ottanta che però i nostri asciugano della scarica rumorosa, eliminando a conti fatti l'elemento musicale-concettuale realmente interessante di questo sottogenere del brit pop. La band veneta sceglie un approccio retrò ed ortodosso che si rivela un'arma a doppio taglio: la curiosità iniziale per la ricerca melodica, la flemma tipicamente british, il jingle jangle delle chitarre, i coretti aperti, lasciano dopo diversi ascolti il posto al dubbio che manchi ancora qualcosa, che sì le canzoni sono ben suonate ma si rivelano nell'insieme ancora troppo rigide nel rispetto degli schemi. Appare giusto citarne un paio che sono saltate subito all'orecchio per il carattere intelligentemente pop.In 'she said again' i tempi sono un po' più spinti della media ed il cantato esce fuori dal registro confidenziale, mentre 'truth full of lies' ricama trame oniriche alla Stone Roses con inserti di hammond e voci avvolgenti. Per dovere di cronaca, 'Orangegreen' segue il mini cd autoprodotto 'Waterboy' ( lo stesso brano è presente nel disco ) registrato al Maximum Studio di San Donà di Piave da Geoff Turner dei Girls Against Boys.

Francesco Imperato

ZEN CIRCUS/Visitated by the ghost of Blind Willie Namington IV/Iceforeveryone

Malgrado il loro nome sia un taglia-e-cuci dal dizionario Husker Du, gli Zen Circus non sono un gruppo punk a meno che non vogliate adattare il termine all’attitudine stradaiola e rigonfia di energia suburbana che venti anni fa folgorò tre ragazzini di Milwaukee alle prese con una strumentazione da buskers e un repertorio di strapazzatecanzoni country e che ha fatto terra bruciata di quei tre pischelli toscani che esordirono con un’incerta frittura punk intitolata Chaka-Chaka trasformandoli nei più credibili eredi del suono Violent Femmes. E non solo lungo la nostra penisola. L’impressione è che i tre si divertano a crogiolarsi in quel paragone estetico fino a diventarne quasi vittime, come certi sosia che restano intrappolati nel loro ruolo e che mangiano sulle tavole che altri hanno apparecchiato. Ovverosia, sono pronto a scommettere che gli Zen Circus abbiano le qualità per suonare in maniera diversa, come si intuisce pure da certi passaggi di questo loro secondo album, ma che preferiscano molto semplicemente suonare come un Gordon Gano allegro e sbruffone. E il bello è che non si può neanche dar loro torto: primo) il disco scorre via che è un piacere e ha dentro roba contagiosa come di rado capita da queste parti (Drivin' in my car, Mexican Requiem, Easy as pie, Hillbilly Cab Driver, Chicken Factory, The green fuzzy thing con quel taglio sbilenco alla Summertime Blues, Where is my heart?); secondo) da inetto chitarrista qual sono vi posso assicurare che non esiste roba più divertente da suonare che non siano strumentali surf, riffs dei Ramones o le sporche canzoncine dei Violent Femmes. Ah, o quelle degli Zen Circus.

Franco "Lys" Dimauro

ZERO-H/new dead world/Frayrecords

Ottimo esordio quello degli Zero-h, che con New Dead World tirano fuori un disco maturo che non ha niente da invidiare alle più famose produzioni estere crossover.Ho scoperto con piacere che il dischetto è stato pre-prodotto dal mitico alfiere della musica industriale Geordie Walker, (Killing Joke, The damage manual, etc.), e questo mi sembra abbia influito molto positivamente sui suoni del gruppo. Il disco si presenta come un crossover coi controcazzi, influenzato in parte da gruppi di genere come Deftones per le parti più atmosferiche, e dai System of a down per le soluzioni di chitarre a tratti orientaleggianti come nelle canzoni Survive e Free. Gli zero-h sono guidati dalla bellissima voce della cantante Stè (Stefania), a tratti melodica come nella prima traccia Grendel, a tratti hip hop, (e qui mi ha ricordato i manhole/tura satana e i my ruin). Notevole il connubio basso-batteria che rende la ritmica sincopata, nervosa, e mai banale. Il risultato trasuda rabbia e frustrazione in musica, con testi che a mio parere ci descrivono questa Torino "molto poco da bere", piena di disperazione vissuta, incrinature nei rapporti sociali e familiari, che si spengono nelle strade buie piene di fuliggine all'ombra della mole antonelliana...

Andrea Giuliani

 


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