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Music - CD Reviews - Review | by SuccoAcido in Music - CD Reviews on 01/05/2002 - Comments (0)
 
 
 
Greyscale, Jim O’rourke, Joe Leaman, Kleinkief, Koop, Link Quartet, Minmae, Monkey Buzzness, Motorama, New Pornographers, Ohm, Onq, Piero Ciampi, Powers Court, Prime, Rechenzentrum, Sofa Surfers, Songs:Ohia, Soul Junk, The Czars.

Greyscale, Jim O’rourke, Joe Leaman, Kleinkief, Koop, Link Quartet, Minmae, Monkey Buzzness, Motorama, New Pornographers, Ohm, Onq, Piero Ciampi, Powers Court, Prime, Rechenzentrum, Sofa Surfers, Songs:Ohia, Soul Junk, The Czars.

 
 

GREYSCALE/Pietà‚ anima e corpo/Frayrecords

Primo singolo di due brani per i Greyscale, noiseband Toscana in cui milita anche il polivalente chitarrista dei violentissimi Nativist. Questa band si accosta a sonorità psichedeliche, acide e rumoriste, li accosterei alla scena noise italiana di gruppi come i primi Marlene Kuntz, Verdena, o Afterhours, ma molto più psichedelici e aggraziati. Pietà‚anima e corpo, la prima traccia risulta anche la migliore: possente, energica, e rumorosamente poetica, con qualche divagazione psichedelica; invece Venere il secondo pezzo, si avvicina di più alle sonorità dei già citati Marlene Kuntz, ma io ci vedo anche i Motorpsycho per alcuni fraseggi di chitarra. Attendo fremente il disco completo!!!!

Andrea Giuliani

JIM O’ROURKE/I’m happy, i’m singing and 1,2,3,4/Mego

Il titolo: tre movimenti di un solo momento. Momento còlto. Momento colto. O’Rourke ci dà la sua versione di minimal techno pura. Di elettronica da laptop assoluta. Di powerbook computer music alla sua altezza, alla sua grandezza, alla sua larghezza (di veduta, anche). Il minimale di qualsiasi natura vi si appiccica al cervello? Prediligete non solo gliccini ma sapete che potete innamorarvi di gliccioni? Non aspettate altro che di godervi estatici drillini ma soprattutto drilloni magistrali, azzeccati, composti, emozionanti? Perfetti?! Volete simbolicamente mandare in culo tutti quei biascicaintingoli che smanettano programmi quando si vede a prima vista che non sanno cosa farsene? O’ Rourke è felice. Fino ad uscire da sé direi. Dallo zio Jim vi aspettate la perfezione finale? Che devo dirvi? Tre suite (posso chiamarle suite?) che saranno annoverate in futuro tra i classici del minimalismo e tra i classici di un classico come O’Rourke? Capolavoro contenuto ed essenziale di minimalismo massimalista? Spostamenti di venti e di brezze e di aliti elettronici con conseguenza di brividi sulla pelle, soprattutto la pelle del cervello. Strumenti processati: ecco. Come tutta la musica registrata. Echi. Riflessi. Lo stendersi di non si sa che luce su deserti paradisi non artificiali della mente pronti a fiorire, a sbocciare. Vibrazioni che fanno bene. Che dire? Che dirvi …O’Rourke sta cantando. Sì, canta col cervello, come tutti i geni. Un disco fatto di rimpasti di improvvisata (spero) suonata e orchestrata dallo stesso Jim (credo), ripescati passati e filtrati e riusciti metamorfici fuori dalle macchine. Non so, ascoltatevelo, fatevi i vostri viaggioni. Dissetatevi all’ombra fresca belli contenti del caldo intorno … E one e two e one, two, three, four. Lezione assimilata. Sono simil lezioso? Ascoltate e dimenticate. Ascoltate e fottetevene.

Giovanni Vernucci

JOE LEAMAN/Fried sponge/Gammapop

Terza prova per questo ruspante trio modenese che rispolvera con un certo coraggio dal più recente passato suoni ed umori che nell'anno di grazia 2002 potrebbero apparire, quantomeno sulla carta, irrimediabilmente datati e poco appetibili per un consumatore di post-rock, now wave o electro-pop. La loro è, difatti, una miscela, a dire il vero, ben calibrata tra hard-rock, psichedelia e suggestioni folk, ovvero un recupero sincero del grunge più ombroso e visionario. Il punto è, però, proprio questo: nonostante l’impegno profuso, i Joe Leaman rimangono legati ad un canovaccio arcinoto e già battuto che li relega purtroppo al ruolo di simpatici epigoni. Il suono oscilla tra gli Screaming Trees maturi di “Sweet oblivion” ( le cadenze epiche di “Parkinson” e la ballata atmosferica “Three weeks of rainy days” ) e la concitazione rabbiosa degli Afghan Whigs ( i baccanali trascinanti di “Sponge” e “Inside the lake”, quest’ultima impreziosita da un finale che è a metà strada tra un salterello medievale ed una giga irlandese ), mentre il cantato di Giancarlo Frigieri tenta di emulare, con risultati non sempre all’altezza, il baritono esistenzialista di Lanegan e il registro sardonico di Dulli. L’estenuante tour de force di “Page/plan” chiude il lavoro in maniera ambiziosa, tra tocchi di vibrafono, arpeggi psichedelici e contrappunti orchestrali. La sensazione alla fine è che i Joe Leaman abbiano peccato per eccesso, profondendo a piene mani onestà, enfasi e mestiere, nel tentativo di sopperire ad una penalizzante mancanza di soluzioni personali ed originali.

Davide Romeo

KLEINKIEF/D'amortelocanto/Srazz

Meglio iniziare con un consiglio: ascoltate questo disco nella notte, dovunque e con chiunque voi siate, vi potrete godere in toto il terzo lavoro dei veneti Kleinkief uscito per i tipi della attivissima Srazz. I ragazzi cantano d'amore e di morte secondo l'accezione romantica della indistinguibilità tra i due concetti. La direzione musicale cambia ancora rispetto alla rabbia ed al rumore del precedente 'Colori, Dolciumi, Fotocopie' (Dischi Woland/Srazz, 1999). Soffici melodie intimiste si propagano in ogni dove ricordando a volte le melodie sbilenche dei Flaming Lips (‘le fragole’), i Mercury Rev sognanti dell’ultimo periodo, i Belle & Sebastian in alcuni labili passaggi. Poste le basi, l'extra sta nei particolari. L'intro di piano che è 'kiz', l’onda di mellotron su cui è costruito ‘emporio’, le polifonie vocali della bassista Elena Vianello e del chitarrista Thomas Zanes (‘i giardini’) sono frammenti di cuore che si spezzano davanti al totale abbandono fisico e psicologico verso la persona amata (‘thomastarlovexpress').La bolla di sapone dentro cui pulsa ‘bamboline di cera’ ci restituisce quell’aura zuccherosa che i Kuntz hanno perso un po' per strada e che si infrange sulla necrofila ‘doriansong’ ( ...mi sto scopando dorian grey... canta all’infinito il ritornello). Sembra che di imprevisti la strada di ‘D’amortelocanto’ non ne preveda, troppo bello per essere vero, siamo quasi di fronte ad un capolavoro. Lo sapete, io mi emoziono quando la semplicità suona le corde del mio cuore burbero e sono ultracerto che non sarò il solo a dedicare ad i Kleinkief una bella teca nel proprio empireo spleen-pop. L'obiettività sembra andarsi a fare benedire se non fosse per la constatazione che le vocals soffrono dell'effetto 'distanza' rispetto alla musica. Nel complesso del lavoro è il classico pelo nell'uovo e personalmente penso sia stato un effetto voluto. Se volete un altro motivo di tanto elogio, ascoltate attentamente il lavoro certosino delle tastiere (analogiche, digitali e pianoforte), non svolgono solo un normale lavoro di arrangiamento ma costruiscono, aprono, introducono, sorreggono, ci sono! Potrei dire che fanno da sole metà delle canzoni. E distorsioni qui non ce n’è, non servono, c’è già così tanto da far venire piccoli brividi alla schiena se si è ben disposti nell’umore…

Francesco Imperato

KOOP/Waltz for Koop/Compost

Con la benedizione di Gilles Peterson e dei Jazzanova ecco dalla Svezia l’ultima sensazione in ambito nu-jazz e forse mai come in questo caso definizione fu più azzeccata, perché la musica dei Koop sembra davvero perfetta per essere suonata in qualche fumoso jazz club europeo. Merito di una produzione particolarmente attenta nel lasciare in bella evidenza gli strumenti suonati (il vibrafono su tutti), creando in tal modo atmosfere pastose ed avvolgenti. L’elettronica al servizio del jazz quindi e capita il contrario solo in “Relaxin’ at club f****n”, dove il sassofono scuote il tappeto house steso da Magnus Zingmark ed Oscar Simonsson (i due Koop, appunto). Una manciata di piccole-grandi canzoni intrise di esotismo, quando protagoniste sono le soffici voci di Cecilia Stalin e Yukimi Nagano, oppure soul oriented, se a cantare sono i due fenomeni Earl Zinger e Terry Callier. “Waltz for Koop” è delicato e piacevole come una carezza. E come una carezza ti sfiora fugace: appena 35 minuti distribuiti lungo l’arco di 9 tracce.

Guido Gambacorta

LINK QUARTET/Episode One/Animal

Corre veloce il nuovo disco del Link Quartet, come quelle auto che sfrecciavano sulle autostrade di certi telefilm americani, anni fa. Stiloso, elegante, ricco di quel fascino di innocente malizia di certe beat-dancers con gli occhi cerchiati di nero corvino e le mini barcollanti sotto cinturoni a cinghia larga. Un tributo al suono vintage di uno degli strumenti più affascinanti di tutta la storia del rock, lo stesso che dominava i primi dischi del James Taylor Quartet o, + indietro, di Booker T. and the M.G.'s.. Un disco capace di trascinarsi dietro tutto l’immaginario di cui è corroborato: spy movies, beat party, cocktails e quant’altro. Una sapiente scelta di covers a cui si aggiunge l’ormai celebre Link Theme e a cui questa edizione spagnola somma i tre pezzi dell’ormai perduto primo singolo (Alfa Romeo Giulietta, Moira, la prima versione del loro Theme). Fanatici dell’Hammond-sound, zitti e in religioso silenzio tuffatevi in questo favoloso cinemascopio del Link Quartet.

Franco "Lys" Dimauro

MINMAE/My Quiet Life/Black Bean and Placenta Tape Club

Da noi quando si sente un buon gruppo sconosciuto si dice “eh… se questi fossero americani di strada ne farebbero!”. I Minmae (anzi il Minmae, ché ormai è sempre più Sean Brooks da solo a far tutto), che sono americani di Portland, di strada non ne fanno granché, se per strada intendiamo gente pagante ai concerti e dischi venduti, ma ogni nuovo disco è sempre migliore del precedente e peggiore del successivo. Ultimamente poi, al Brooks sembra essere presa una mania di ri-raccogliere, riorganizzare, raggruppare e impacchettare i propri motiv(ett)i d’orgoglio ad uso del distratto ascoltatore che si fosse perso qualche compilazione o qualche 7” - i Minmae sono responsabili di una decina di 7”, di tre cd e non si contano più le apparizioni su compilation. Ecco allora che My Quiet Life vi dà l’opportunità di ascoltare canzoni dalle più diverse provenienze: cinque delle undici tracce sono già edite (la prima “no end, no end”, per dirne una, già stava sul 7” split con i nostrani Morose) e le restanti stupiscono per varietà di stili e tecniche di registrazione - dallo studio al vetusto 4-piste. Il lavoro dei Minmae è così eterogeneo che i dischi paiono un disperato tentativo di sintesi, ma ogni volta qualcosa scappa, qualcosa straborda. Il biografo che volesse mettere un po’ d’ordine si procurerebbe anche la recente raccolta di registrazioni casalinghe Since (Before) Inertia uscita su cassetta per la Morc e su CDr per la Tape Mountain, si scaricherebbe il bellissimo Minmae best of A thru N disponibile in mp3 dal loro sito (http://www.minmae.com) e si accorgerebbe che alcuni pezzi sono in comune, altri no, altri non li trova da nessuna parte. La versione di “cris with no h” presente sul disco, per esempio, è del tutto diversa (direi anche del tutto peggiore) di quella uscita sulla nostra compilation You Cannot Hold DIY, It Is An Adjective; chi mi assicura che anche tutto il resto non sia incompleto, sparso e disperso in versioni migliori su dozzine di compilations? Sean sta cercando di mettere insieme il suo “disco definitivo” ri-incollando le tracce di sé che ha sparpagliato per il mondo, pensa che sia già lì, sfatto, solo da ricomporre. E allora ci prova e riprova con grande sforzo, come il lanciatore del peso sessantottino in copertina, ma per quanto mi riguarda i Minmae sono più simili a quella supertettona che saltando su una mina disseminò gradite frattaglie ovunque ci fosse posto. Un disco di canzoni, grazie al cielo, per quanto a volte rimangano appena abbozzate in frammenti a bassa fedeltà di un paio di minuti come, diremmo, i Guided by Voices o i Pavement. Per fortuna qualcuno scrive ancora i “motivetti”, contro l’attuale empia tendenza verso i lunghi pezzi strumentali “post”, di cui del resto anche i Minmae sono talvolta vittima (“i’m getting out of forensic”, “autumn festival”). È lo stesso autore ad ammettere di avere due anime, quella pop e quella “drone/experimental”, scomoda dicotomia che speriamo riesca a risolvere al più presto (che è un po’ quello che stanno cercando di fare tutti di questi tempi, no?). Non aspettiamolo fino al prossimo full-lenght, seguiamone piuttosto le gesta sulle compilations e sui 7” che continuano ad uscire, ed aspettiamoci novità perché se i Minmae ora stanno “raccogliendo”, probabilmente hanno in mente di ri-seminare.

onq

MONKEY BUZZNESS/Mustango/Cardyotonic/Freakshow

Chitarre sbrandellate e batteria, secondo una logica minimale che inaugurata dai Cramps è stata adottata un po' da tutte quelle bands (dai Pussy Galore e Gories fino agli Immortal Lee County Killers) che hanno cercato di piegare il rock 'n roll alla sua dote di essenzialità. Obiettivo che pare primario anche per questo terzetto piemontese che impiega al meglio le poche risorse che si è imposto di adottare intrecciando al caos delle corde, elettriche e vocali, di Giovanni Inverno e Mr. FF il drumming essenziale ma abrasivo di Gianluca Gozzi ed elaborando una forma non inedita ma abbastanza personale e "complessa" per costruire brani rock 'n roll sfilacciati e ricchi di imperfezioni attorno a quel concetto di ripetitività erotica che era propria del blues ma che costituiva anche il postulato esoterico di bands come Velvet Underground o Spacemen 3 (per limitarci a territori limitrofi a quelli dei Monkeys, ma il discorso dovrebbe estendersi a dismisura, dal jug spiraloide degli Elevators al wall of sound dei Ramones, dalle febbri psicotiche dei Seeds al picchiettare del piano sul Metallic KO degli Stooges, NdLYS). Vicini allo spirito di bands come '68 Comeback o Gibson Bros., i Monkey Buzzness si impegnano dunque nell’ennesimo riadattamento del fangoso blues rurale alla voracità famelica della giungla urbana (le stesse emozioni che dovette provare Dylan sgommando sulla Highway 61 se è vero che The Preacher sembra evocarne l’eco zozzo e sporco) con un gusto acido anarchico che solo il mio ormai svezzato orecchio mi costringe a giudicare cautamente, ma che è un germoglio di semi veramente cattivi. Ma se stravedete per il r 'n r che ti resta appiccicato addosso non esitate a buttarvi tra le braccia del Mustango.

Franco "Lys" Dimauro

MOTORAMA/See you at Bouledogue/Motorama

Quello che accomuna Gus, il decenne protagonista del b-movie americano di Barry Shils da cui le Motorama prendono il nome, forse non ci è dato sapere. Lui ha una sola ossessione: completare una collezione di figurine trovando quelle con le lettere che gli permettono di comporre la parola MOTORAMA e vincere così 500.000.000 di dollari. Ma una piccola ossessione penso che nasca in chiunque si trovi ad ascoltare questo godibilissimo bijou: sperare che le ragazze in questione trovino un numero sufficiente di pezzi per far sì che possa nascerne un vero e proprio cd. Un'essenzialità ( soltanto voce, chitarra e batteria )e una gustosa genuinità che premiano assolutamente. Una vera e propria esplosione adrenalinica di energia allo stato puro. Si tratta di soli tre brani( di cui uno è una cover di "DAY AND NIGHT" degli Half Japanese ), ma lo stravolgimento che si subisce all'ascolto è tutto da provare. Dirette, dure, grintose, arrabbiate e non solo da ascoltare. Infatti, ai tre pezzi si aggiunge il video di KING COBRA, notevole in tutto il suo complesso e vincitore del premio 2000 per la migliore fotografia al M.E.I. di Faenza, la manifestazione dedicata al clip italiano. Beh, sì, perché dimenticavo di dire che queste scatenate bad girls sono italiane. Più promettenti di così...

Antonella Fontana

NEW PORNOGRAPHERS/Mass Romantic/Matador

Capita sovente che i supergruppi o presunti tali si rivelino una cagata pazzesca, roba buona per rimpinguare le tasche di qualche casa discografica e dei musicisti coinvolti, spesso a serbatoio creativo scarico e che in tal modo possono garantirsi un po' di introiti e di visibilità tra uno spot promozionale e l’altro. Succede invece che qualche volta, raramente (e questo non fa che dar valore aggiunto a quanto stiamo per affrontare, NdLYS), passato il timore di trovarsi faccia a faccia con l’ennesima strombazzata superband, ti ritrovi tra le mani un disco in cui la somma degli addendi equivale, anzi supera, il risultato previsto. Oddio, non che qui dentro ci siano chissà quali stelle del pop, si tratta pur sempre di gente che ha referenze maturate in piccole sotterranee glorie indie-rock, peraltro canadese. Che equivale a dire un po' + a nord di dove le piccole cose diventano grandi (gli Strokes, per dirne una...). Roba tipo Zumpano, Neko Case and her boyfriend, Limblifter, Destroyer...poca cosa, se confrontata alla carica power pop che sprigiona da questo disco, in origine stampato su Mint Records un paio d’annetti fa e che ora la Matador si fa carico di esportare per il mercato europeo. Dio la abbia in gloria: Mass Romantic si appiccica al lettore come una chewing-gum che si allunga con il rock' n roll sbilenco di Jonathan Richman e Soft Boys, si gonfia di power pop marca Blondie-Pretenders-Models (quando il microfono passa alla bella Neko e i sintetizzatori fanno furore) ed esplode in mille bolle blu a forma di Kinks, Violent Femmes, Pixies, Hell on Wheels. Chitarre che saltellano un po' ovunque, voci sovrapposte, tastierine vintage, un wall-of-sound tipicamente seventies. Per chi mastica già 'sta roba, Letter from an Occupant, Jackie ma soprattutto la title track e The slow descent into alcoholism avranno sintomi contagio immediato, per tutti gli altri l’infezione mi auguro abbia effetti non meno dannosi.Io mi ci accompagnerò l’estate, usandolo come antiparassitario contro tutta quella merda fintosudamericana che presto ci soffocherà l’etere.

Franco "Lys" Dimauro

OHM/Raw Ohm/Mizmaze/Snowdonia

Il deserto, oltre l’universo. I corrieri cosmici attraverso le lande sabbiose del Texas. Cortocircuito dimensionale tra spazio e terra, suono e rumore, caos e silenzio. Microsegnali nascosti, pulsioni, soffi elettronici, menadi danzanti su cariche elettriche disperse nel vuoto, atmosfera disgregata e tumbleweed sospinti dal vento... rifrazioni abbaglianti di luci galattiche, il futuro rivelato nel passato (o viceversa): il mellotron come ipotesi di progresso; il progresso come teoria d’involuzione. Funghi magici alieni, in sostanza. Cinque apparizioni improvvis(at)e, riprese amatorialmente ed in attesa di approvazioni scientifiche; in notti rosse ed afose; su palchi carichi come astronavi di strumentazioni, più o meno, esoteriche. Flussi di coscienza in forma di ondulazioni sonore, praticamente. Tastiere ossessive e tamburi a sostenerle, tra chitarre narcotiche e basse frequenze, fiati e feedback. Traiettorie spaziali scosse da improvvise accellerazioni e subito frenate e condotte, giù, in vortici abbissali; in preda ad alterazioni lisergiche provocate da droghe remote o da indigesti krauti al ketchup. In assenza di gravità, in assenza di tempo: un disco che sarebbe uscito IDENTICO, anche trent’anni fa. Con tutti i pregi e i difetti del caso....e intanto Florian Fricke, dalla terza dimensione, sorride compiaciuto.

Bosco

ONQ/The supreme weight/OuZel

ONQ/Dasein ohne Leben/Orphanology

Laugh like a clown apre grandemente: tastiere e dream-pop orrorifico. E si continua benissimo, alternando progressioni ardite e turbinose (The supreme weight, Reset), frenate dissonanti (Worst woe), ortodossia lo-fi e tessuti chitarristici altrettanto ortodossamente postrockisti (Takeover). In Here come the nostrils Jacopo Andreini fa il Tom Waits de noantri con orchestrina e tric-trac, riportando un po’ di freschezza in un finale appena calante. Nel complesso, i quindici minuti iniziali redimono ampiamente qualsiasi ingenuità e velleità successiva. Stimolante. Riguardo a Dasein ohne Leben, lo dicono pure loro, ci hanno rovinato Godspeed you black emperor!, Sigur Ròs, Arab Strap, Mogwai: non c’è traccia però, in Dasein ohne Leben, né dei sublimi crescendo godspeediani, né delle melodie caramellate sigurrosiane, né della vena melodica di un Arab Strap. In compenso c’è un bel po’ di noia presa in prestito dagli ultimi Mogwai. Mettono le mani avanti, i furbetti ONQ: pesano quanto una vita intera, questi pezzi stiracchiati (7 minuti in media) di Tortoise sotto Valium con voci altrettanto narcotizzate. E allora si è pure indulgenti con Nail Me Tonight, dal mood strisciante, e con Lament 2002, esplosione urgente, che fanno virare inaspettatamente verso l’alto la seconda metà. Da dipanare.

Francesco Giannici

PIERO CIAMPI/Andare camminare lavorare/BMG

La foto in controluce di un volto scavato, lo sguardo perso. Questa, contenuta nel libretto interno di “Andare, camminare, lavorare”, si aggiunge alle immagini che conservo di Piero Ciampi. Lo sto scoprendo piano piano, canzone dopo canzone, cercando di ricostruirne la vicenda artistica ed umana. Le sue canzoni mi coinvolgono, la sua voce mi stupisce, il suo modo di cantare è quanto di più onesto mi sia capitato di ascoltare. Ciampi ha pagato sulla propria pelle il prezzo dell’integrità morale, nelle sue parole si legge una vita sempre sul filo del rasoio. Ma Ciampi era anche lo sberleffo, l’anarchia, le donne, la fuga, il vino. Una personalità complessa, sfuggente e affascinante. Un artista poco conosciuto, però, perché i suoi dischi sono praticamente introvabili ormai da parecchi anni. La ristampa di “Andare, camminare, lavorare” colma solo una parte dell’imperdonabile oblìo in cui è stata collocata la sua opera da parte di chi ne detiene i diritti. La BMG, infatti, grazie anche alle pressioni degli organizzatori del Premio Ciampi, sembra solo ora propensa a rendere nuovamente disponibili questi dischi. Ha cominciato con uno dei più famosi, un album del 1975 che contiene brani straordinari, dalla canzone che dà il titolo all’intero lavoro a “L’amore è tutto qui”, da “Ha tutte le carte in regola” a “Il vino”. Fino a “Te lo faccio vedere chi sono io”, una delle mie canzoni preferite di sempre. Accostatevi al mondo di Piero Ciampi, ora che si può. Bastano poco più di sei euro.

Guido Siliotto

POWERS COURT/Nine Kinds Of Hell/Dragonheart

Secondo album, dopo il debutto omonimo del 1996, per questa band statunitense guidata dalla cantante/chitarrista Danie Powers. Personalmente non riesco a condividere alcun entusiasmo per la tanto pubblicizzata voce da 4 ottave e _ di quest’ultima e considero ancora il suo songwriting a tratti farraginoso, tuttavia “Nine Kinds of Hell” fa sicuramente registrare progressi non indifferenti rispetto al suo mediocre predecessore. Lo stile del gruppo (fatta eccezione per i suoni di batteria) è rimasto dedito, e di ciò va reso merito, al recupero dell’autentico heavy metal anni ’80, risultando un incrocio fra il riffing serrato ma evocativo dei Manilla Road più aggressivi, atmosfere teatralmente orrorifiche alla King Diamond ed il power americano più granitico. Non tutto il Cd si mantiene sugli stessi livelli qualitativi nondimeno, in tempi di pseudo-defenders da cartone animato, brani di puro epic metal, cupo e arrembante, come le riuscitissime “Echoes of Silence” o “Devil’s Triangle” valgono ben l’ascolto di questo lavoro.

Salvatore Fallucca

PRIME/I don’t envy you/Rebelution

L’ennesimo prodotto heavy-rock in vitro di cui non si sentiva il bisogno: machista, distorto, furbetto nelle melodie banali. E particolarmente antipatico: il cantante che va nudo sul palco per emulare Morrison, il singolo prodotto dal puttanone Andy Wallace (Nirvana, Faith No More, ma anche Skunk Anansie, Limp Bizkit). Danno la squallida impressione di non essere neanche abbastanza pompati da arrivare al pubblico adolescente di MTV. Già morti.

Francesco Giannici

RECHENZENTRUM/The John Peel Session/Kitty Yo

Tra un paio d’anni qualcuno si deciderà a produrre per la televisione un documentario fantascientifico sulla vita nelle camerette dei giovani della futura generazione. La trasmissione avrà molto del videogioco, un poco della fotografia digitale animata, un poco del disegno architettonico. Per musicarla verrà chiamato un gruppetto formato da un paio di ragazze e un paio di ragazzi dal dna mitteleuropeo, svezzati in germania, vissuti gli anni della giovinezza in giappone, residenti nell’ultimo periodo invernale in Australia e nell’ultimo periodo estivo in Islanda. Una colonna sonora semplice ed assurda. Semplicemente assurda ma molto azzeccata. Come una fanfara spaziale. Qualcosa leggermente oltre il postambientechnodub che andava un milione d’anni fa nelle foreste pluviali ormai desertificate nel pianeta Caio o Sempronio della galassia del forse. Sarà pressoché simile a questo disco che i Rechenzentrum hanno sfornato per una serie storicamente gloriosa come quella delle John Peel Session. Mister Peel, uomo vecchio e saggio, competente ed appassionato, come uno psiconauta di segugio cyberspaziale spinge la ricerca e il suo fiuto verso il futuro. Verso il confine. All’orizzonte. Celeste linea. Filo nero. Impercettibile all’occhio umano nudo.

Giovanni Vernucci

SOFA SURFERS/Encounters/Klein

Alla stessa maniera dei disciolti Leftfield, che prendendo le mosse dal dub sono poi arrivati alla definizione del loro personalissimo techno-reggae, anche i viennesi Sofa Surfers utilizzano il dub come un mezzo per veicolare suoni e ritmi diversi all’interno della propria musica. “Encounters” quindi non va considerato né un disco strettamente dub né tanto meno un disco nu-jazz, come si potrebbe pensare per via della scena downtempo originata a Vienna da Kruder & Dorfmeister, ma fondamentalmente è un disco di hip hop industriale e di soul avveniristico letti in chiave dub (la matrice del disco, lo ripeto, è questa). Dodici canzoni (e uno strumentale) rese ancora più scure ed inquietanti dalle interpretazioni degli mc’s e dei vocalists coinvolti, tra i quali Dj Collage, Dälek, Junior Delgado, Mark Stewart e Jeb Loy Nichols (ma chi è che canta in “River blues”: Horace Andy catapultato nel futuro di Blade Runner oppure Finley Quaye che ha fumato un po’ più del solito?). Se proprio si volessero citare Kruder & Dorfmeister (…ad esempio certi passaggi al rallentatore di “Twisted tongue” e “See the light”), bisognerebbe allora immaginarseli con lunghe trecce rasta e un ghigno cattivo dipinto sul volto e magari proporli poi come autori della colonna sonora di un ipotetico secondo episodio cinematografico di Ghost Dog, con il samurai impersonificato da Forest Whitaker che si reincarna a Vienna. Potrebbero invece essere stati gli Smith & Mighty costretti a letto dalla febbre ad aver composto “Can I get a witness”, canzone che fa filtrare in “Encounters” un timido raggio di luce. Tutto intorno è buio, buio profondo.

Guido Gambacorta

SONGS:OHIA/Didn’t it rain/Secretly Canadian

L’anima lacerata di Jason Molina continua a non trovar pace. All’indomani della pubblicazione del live “Mi sei apparso come un fantasma” e di una raccolta di vecchi inediti ( “Protection spells” ), il cantautore americano consegna alle stampe questo “Didn’t it rain”. Ed è ancora abisso. Rispetto al quasi capolavoro “Ghost tropic”, vengono meno l’ansia sperimentale e gli screzi elettronici; la strumentazione torna, dunque, tradizionale, mentre il lamento di Molina è spesso doppiato dal controcanto di Jennie Benford. Sono sette i brani e costituiscono altrettante tappe di un calvario morale che oscilla tra due poli: quieta rassegnazione da un lato, disperato senso di angoscia dinanzi agli scacchi esistenziali dall’altro. Al primo si iscrivono la solenne elegia della title-track, cullata dal tintinnio dolce della chitarra, ed il breve aforisma di “Two blue lights”; al secondo appartengono il country&western di “Ring the bell” e “Cross the road, Molina”, esercizio, forse manierato, di enfasi drammatica quasi orchestrale. L’approdo non lascia spazio alla redenzione, ma solo ad una promessa salvifica ( le spirali di luce della conclusiva “Blue Chicago moon”, tra tenui bagliori elettrici, e rintocchi lontani di piano ). Fanno storia un po’ a sé i salmi cadaverici di “Steve Albini’s blues” e “Blue factory flame” che nella loro anemica andatura lambiscono la memoria del Neil Young più funereo, quello di “Tonight’s the night”. Quest’opera è un’ode ininterrotta e spettrale alla precarietà della vita.

Davide Romeo

THE CZARS/The Ugly People Vs The Beautiful People/Bella Union

Etichetta che ormai è sinonimo di qualità la Bella Union ci offre un altro viaggio nel magico mondo del pop di classe con la seconda prova dei The Czars, i quali fautori di un’elegante miscela di folk tinto jazz ci regalano momenti di pura poesia musicale, vedi “Rogers’s” e soprattutto l’eleganza jazzata per solo piano e voce di “Anger” episodio di toccante bellezza grazie anche all’ineccepibile interpretazione vocale del singer John Grant il cui timbro ricorda molto da vicino Tim Buckley e la partecipazione dei The Czars al tributo a Tim di qualche anno fa con la rilettura di Song To The Siren non può che confermare il legame con l’autore di Starsailor. Non mancano comunque le escursioni chitarristiche tanto care a chi produce il tutto, cioè Simon Raymonde (ex Cocteau Twins e proprietario della Bella Union) di “ What Used To Be A Human” e mentre la spensieratezza pop di “Killjoy” porta un timido sorriso merita una considerazione il cameo di Paula Frazer dei Tarnation in “Lullaby 6000” con la musa Buckley sempre in primo piano. The Ugly People Vs The Beautiful People è un’opera che accarezza il cuore con la grazia di chi non aspettava altro.

Gianni Avella

 


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