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Music - CD Reviews - Review | by SuccoAcido in Music - CD Reviews on 01/04/2002 - Comments (0)
 
 
 
Lo-Fi Sucks!, Log, Roy Paci & Aretuska, Slugs, Spoonies, Stephen Merritt, Subsonica, Suck And Spit, The Fall, Velma, Wood, Zen, Zero Tolerance For Silence.

Lo-Fi Sucks!, Log, Roy Paci & Aretuska, Slugs, Spoonies, Stephen Merritt, Subsonica, Suck And Spit, The Fall, Velma, Wood, Zen, Zero Tolerance For Silence.

 
 

LO-FI SUCKS!/Temporary burn-out/Suiteside

Buone nuove dal panorama indie del nostro Stivale. Si rifanno vivi i Lo-Fi Sucks!, qui alla quarta prova, ed è un bel sentire. Pierpaolo Rizzo, mente ed anima del progetto, amplia rispetto al passato lo spettro sonoro, concedendosi un uso misurato ed appropriato di gadgets elettronici e dotando buona parte dei brani di un appeal quasi pop. La sequenza iniziale si rivela la più suggestiva: apre le danze il piano elettrico soffusamente psichedelico di “Disappeared 2” (che contiene samples ritmici da Yuppie Flu e dagli stessi Lo-Fi Sucks!), segue la splendida “67-73”, con un arpeggio sognante di chitarra, il contrappunto efficace dell’organo e la languida eco di un violoncello (suonato da Elena Diana dei Perturbazione); “All beautiful angels”, con quel suo ritmo zoppicante, scodella un memorabile ritornello, mentre “But I feel fine thank you” (batteria mandata in loop, canto sensuale e pulsioni acide di organo e chitarra elettrica) è probabilmente il pezzo in cui meglio si fondono la componente indie e gli inserti d’elettronica. Dopo tante meraviglie, qualche lieve caduta è inevitabile: non pagano le pose da shoegazers (i vuoti e i pieni, a dire il vero, piuttosto anonimi di “Drop-outs bus”), né seduce il perfetto mid-tempo alla Pavement di “Little wonder’s lost”. Qualche sorpresa la riservano ancora il finale ipersaturo di “Me and Nick Drake” e le dilatazioni di “No place like home”, tra West Coast e Chapel Hill (con un prezioso fraseggio d’organo doorsiano). Alla fine questi sonici genovesi dimostrano, tutto sommato, di avere ben metabolizzato trent’anni di suono indie, senza tuttavia dover rinunciare alle proprie personali visioni. Magnifico il lavoro in sede produttiva di Fabio Magistrali.

Davide Romeo

LOG/Every time a bell rings an angel gets his wings/Bad Taste

Che la Scandinavia non fosse più soltanto terra di gerghi rock brutali lo si era capito oramai da tempo. Alla schiera dei gruppi nordici che professano il credo musicale del “Quiet is the new loud” ( il manifesto programmatico dei Kings of Convenience ) possiamo adesso aggiungere i Log. A dire il vero, la loro proposta, pur “quieta” in termini di attitudine, affonda le radici non tanto nel recupero di una tradizione acustica, quanto nell’elaborazione di una canzone quasi progressiva che sembra prendere spunto dallo slowcore di Codeine e Low, come dalle frange più malinconiche del pop inglese. Si respira un’aria autunnale, brumosa tra i solchi di questo disco. Il songwriting non manca di personalità, i testi sono piccole confessioni da cui traspare forte un senso di solitudine e di fallimento, ma è proprio questo mood depresso che a volte incespica in strutture tese a privilegiare l’escursione chitarristica fine a se stessa (come in “Yellow lights mean slow down, not speed up”, con un insistito uso della slide) o code classicheggianti a dir poco superflue (il finale della altrimenti suggestiva “ In cold blood”). Altrove, invece, canto e inserti strumentali vivono di un miracoloso equilibrio (“The passage”), anche se forse il momento di massimo raccoglimento è proprio il più spoglio (“The bastards have landed”, per voce e chitarra arpeggiata come fosse un banjo). Il suono dei Log vive, dunque, di un conflitto a tratti fecondo, a tratti irrisolto tra tentazioni post e poesia cantautorale.

Davide Romeo

ROY PACI & ARETUSKA/Baciamo le mani/Viceversa

Che cosa hanno in comune una vecchia canzone di Luigi Tenco, un brano di Charlie Parker, la sigla de La domenica sportiva e un pezzo di Ennio Morricone per la colonna sonora di Giù la testa? Assolutamente niente, verrebbe da pensare, ma uno è costretto subito a ricredersi non appena “Baciamo le mani” ha finito di ruotare nel lettore cd. Roy Paci e i sei Aretuska (chitarra, basso, tromba, trombone, sax tenore e batteria) hanno sfornato un disco rocksteady piacevolissimo, nel quale la scelta di standards quanto meno insoliti e un certo gusto per le citazioni si sposano perfettamente con fantasie danzanti e SKAtti latini. Dani dei Macaco, Bunna degli Africa Unite e Meg dei 99 Posse prestano la propria voce rispettivamente in “Grande la media noche”, “The duse” e “Se stasera sono qui” e i risultati migliori li raggiunge Dani in un mambo ispanico illuminato dal sole di Sicilia. Ma sono gli strumentali composti dal solo Roy Paci, “Loski nerds”, “Magnificat” e soprattutto “Peretto”, i tre pezzi ai quali è veramente impossibile resistere!

Guido Gambacorta

SLUGS/Slugs/SuperLove

In un mondo perfetto gli Slugs potrebbero rischiare davvero di dominare le charts. Non quelle di qualche sfigato rock show di provincia, piegate al gusto di oscuri speakers divenuti idoli di minuscoli gruppi carbonari. Ma quelle "serie", eleganti passerelle che invece abbondano di divetti soul/pop che fanno canzoni con lo stampino arrugginito smaltato di antiruggine ad uso e abuso popolare. In un mondo perfetto un pezzo come I see you potrebbe cacciare a calci nella zona pelvica quel soul sozzone di Sweet Baby di Miss Macy Gray, Ciofi & Anna diventare il tema di Velvet Goldmine con quei coretti androgini figli del Bolan che sapete, Bikers vs. Truckers azzerare tutte le attese per questo cazzo di album dei Guns 'n Roses che si aspetta solo per poter finalmente dire che fa cagare, You' ll never know farci ricordare che di blues è ancora possibile piangere e morire. The Slug e Dario Argento urlare al mondo che non abbiamo più bisogno dei Boss Hog e che Cristina è molto meglio guardarla in orizzontale e la ghost track che sotto l’albero di Natale anche il grind sembra uno spiritual. Ma per nostra fortuna, malgrado qualche politico a volte tenti di farcelo credere, non siamo in un mondo perfetto e questa roba resterà ad illuderci che anche in questo inferno è possibile tirar fuori dei piccoli capolavori di perfezione.

Franco "Lys" Dimauro

SPOONIES/Bock/Psychotica

SUCK AND SPIT/Spittle/Psychotica

ZERO TOLERANCE FOR SILENCE/S/t/Psychotica

La Psychotica records staziona a Taranto ed è oramai da tempo punto d’incontro, nonché promotrice, di una serie di collettivi sonori che partendo dal noise approdano spesso a lidi post e impro, una sorta di comunità, in cui i membri di ciascun ensemble si prestano a collaborazioni reciproche. Negli ultimi mesi la Psychotica ha sfornato tre lavori che sembrano avere il loro minimo comun denominatore nella figura del chitarrista Psichic, sorta di eminenza grigia attorno al quale ruota buona parte dei progetti dell’etichetta pugliese. I Suck And Spit, che si fregiano della presenza del batterista dei Cut, sono probabilmente i migliori del lotto: i cinque strumentali che compongono “Spittle” sono carichi di una tensione a tratti irrisolta ed implosa, talvolta votata a sfociare nella furia e nella concitazione. Il basso disegna atmosfere da thriller, mentre le chitarre, l’una che blatera distorta sullo sfondo, l’altra tesa come un fascio di nervi a ricamare dissonanze, tentano la strada di una difficile dialettica. In alcuni momenti l’eccessivo ricorso a rumorismi free crea un effetto quasi parodistico che, a dire il vero, mal si concilia con lo sforzo messo in atto dal combo di restituire compiutezza ai brani. Quanto agli Spoonies, “Bock” offre una serie di micro-concerti per scordature metalliche, in cui, nonostante la presenza di ritmiche sostenute, si respira un’aria monocorde e piatta. Squarci di inventiva solo nelle rasoiate quasi funk di “You fantastic”. “Zero Tolerance For Silence” (omaggio ad un lavoro atipico di Pat Metheny nel solco della “Metal machine music” di Lou Reed) è, infine, frutto di una serie di improvvisazioni, raccolte in frammenti più o meno brevi, che nella volontà della formazione dovrebbero rappresentare la fotografia “di quello che siamo stati in un momento irripetibile della nostra esistenza”. Al di là dei lodevoli intenti, ciò che traspare dal pastiche di marasma percussivo, sconquassi disarmonici e reiterazioni è un senso di forte autocompiacimento che contrae in modo irrimediabile la portata del progetto. E la manipolazione di “In the name of the holocaust” di John Cage, che chiude il lavoro, sembra suonare più come un modo per attribuirsi una patente da avanguardisti che non come sincero omaggio all’indiscusso maestro losangelino.

Davide Romeo

STEPHEN MERRITT/Eban & Charley/Sketchbook

Stephen Merritt è, senza dubbio, uno dei più grandi autori pop degli ultimi lustri. Nei suoi numerosi travestimenti (innanzitutto gli straordinari Magnetic Fields ed a seguire The 6ths, Future Bible Heroes e Gothic Archies) il Nostro ha dato vita ad uno sterminato canzoniere in cui Phil Spector e Human League, Abba e Johnny Cash vanno meravigliosamente a braccetto. L'operazione compiuta da Merritt ha un che di enciclopedico, quasi che il suo obiettivo sia quello di creare una sorta di mastodontico archivio della memoria pop, in cui l’eco di mille melodie passate risuoni eternamente godibile e suggestivo. “Eban & Charley”, primo lavoro che l’artista realizza a suo nome, è la colonna sonora dell’omonimo film d’esordio di un regista indipendente, tale James Bolton, che narra con stupito pudore una storia di omosessualità e pedofilia. Le composizioni dell’opera sono per lo più miniature strumentali nelle quali Merritt, vestiti per una volta i panni dello sperimentatore, dimostra di destreggiarsi abilmente tra sinistre cineserie (“Drowned sailors”) e pianismi quasi ambient (“Mother”, “Mother remembered” e “Greensleves”). Su tutte si elevano la splendida “Cricket problem”, che dietro una selva di versi d’uccelli ed un ritmo sintetico nasconde la dolcezza di un carillon, e “Stage rain”, pezzo realmente avanguardista con inserti di musica concreta. Un discorso a parte meritano le canzoni vere e proprie, a partire dalla seducente serenata morriconiana di “Some summer day” e dal canto d’intensità religiosa di “Maria, Maria, Maria” (due capolavori immediati), senza dimenticare “Poppyland” e “Water torture”, brani degni dei Magnetic Fields, in cui Merritt si riappropria del suo ruolo di menestrello sognante. Un piccolo gioiello di pop adulto.

Davide Romeo

SUBSONICA/Amorematico/Mescal

Un disco che ha fatto propria la lezione dell’ultimo album dei Tiromancino, La descrizione d’un attimo. La canzone italiana che per stare al passo guarda sé stessa e si rimette sulla strada e annusa quello che c’è in giro senza remore. Almeno questa è l’impressione che si ricava prestando attenzione al risultato della produzione delle canzoni e dei suoni che compongono Amorematico. Ma il lavoro che ci sta dietro appare più complesso e l’esito più sfaccettato. Questo non vuol dire sminuire il fresco songwriting dei Tiromancino né tantomeno le vincenti scelte di produzione della loro opera più riuscita. Certo è che ogni traccia di Amorematico vive del recupero, dell’utilizzo e dello sviluppo organico di ritmi e sonorità che affondano le loro esistenzialità nel mondo dei club e del djing ballereccio e d’ascolto più alla moda, in modo più palesemente lampante. Fare questo è oggi necessario per un disco che ambisce ad occupare un posto d’onore nell’ambito del pop italiano. Posto d’onore che si merita perché tutti quelli che hanno partecipato alla produzione del disco (i Krisma, Rashid, dj Roger Rama, aka Minimal Funk) devono averci messo sinceramente ‘del loro’, facendo fruttare nel miglior modo possibile le proprie esperienze e compiendo contemporaneamente un passo, per niente più lungo della gamba, in avanti. Lo dimostrano le melodie, le brillanti ed azzeccate scansioni ritmiche, l’attualità dei suoni, l’energia, l’ispirazione, la convinzione e la sicurezza con cui il tutto è suonato e va a confezionare, è bene sottolinearlo, il terzo disco dei Subsonica; fatidica meta che si sa essere approdo e snodo cruciale nel percorso di una band. La cosa che soggettivamente più mi è piaciuta del disco sono le quattro tracce finali dove vengono ripescati alcuni momenti dell’album che rifunzionalizzati, detournati e rimescolati vanno a comporsi in saporosi e interessanti pezzi dalla fattura e dalla resa spiccatamente techno, ma è solo un giudizio personale. Questi pezzi mi sono piaciuti in sé e mi è piaciuta l’intenzione dell’esperimento che apre così nuove possibilità e chiavi di lettura sia per l’ascolto di questo disco sia per il futuro. (Magari anche per il futuro di gruppi che basano il loro sound essenzialmente su strumentazioni elettriche). Diciamoci anche che queste cose, che so…gli Almamegretta ad esempio, in concerto le fanno benissimo, e dal vivo, da tempo. I Subsonica non mi piacciono particolarmente e l’unica volta che li ho visti dal vivo mi hanno entusiasmato poco e a tratti, ma è bello sapere che esistano continuando a riuscire a muoversi tra San Remo, Mtv, le onde FM, le classifiche di vendita e i gli stessi centri sociali dove hanno cominciato. Restando ben saldamente ancorati e fedeli alla loro radice underground e torinese.

Giovanni Vernucci

THE FALL/Are You Are Missing Winner/Cog Sinister

I principi, si sa, di fronte ai risultati valgono poco. Un groviglio poco organizzato come quello di Are you are missing winner, ultima forse frettolosa fatica dei pluridecennali Fall, va contro i principi post-punk per cui “caos è bello”. Quello che con più accuratezza sarebbe diventato un dignitosissimo disco, alla pari con i suoi immediati predecessori, rimane un quadernetto di appunti presi alla meno peggio: gli strumenti sono incartati, fissi, e il carisma immancabile di Mark E. Smith, insieme a qualche pezzo più riuscito, non salva la baracca. My Ex-classmates’ Kids avrebbe potuto essere un perfetto anthem, e Gotta See Jane una filastrocca garage; e una Bourgeois Town, col suo cantato lingua-in-bocca e il suo riff promettentissimo, rischia di diventare paradossalmente l’imitazione dei loro stessi epigoni (Girls vs. Boys in primis). Più accuratezza, si diceva, e anche una produzione migliore, magari: il suono è confuso, piatto, non fa onore al mito che si incarna. E i miti se si incarnano male fanno brutta figura. Solo per fan accaniti della band, altrimenti ripiegare su più sicuri lidi, a cominciare dal recente The Unutterable.

Francesco Giannici

VELMA/Panoramique/M:narsitik)

Gruppo strano quello dei Velma, in equilibrio tra minimalismo, le sincopi delle microwaves e certo post-post rock. Un freddo, "ciclico", reiterato picchiettare ritmico che incede ipnotico, solcato da rumorismi e beeps assortiti, qualcosa di assolutamente mitteleuropeo (malgrado un pezzo come Isme guardi apertamente, sopra coperta, alla bossa nova di altre latitudini) e che tradisce la bandiera del terzetto. Da dove potrebbe venir fuori il ticchettio metronomico di Encore se non dalla Svizzera? Quella di cui parliamo è la ristampa via M:Narsitik dell’EP Parole (2000, Stetic Records) con l’aggiunta di ben 8 remix che offrono prospettive interessanti dimostrando quanto, malgrado il rigore apparente che sottende al progetto Velma, la materia sonora di cui professano abilità sia ampiamente malleabile e geneticamente modificabile. Splendida la Orange Carrots ad opera dei Pluramon per voci sovrapposte, synths circolari e note di piano profonde e rade, così come abbaglia lo splendore acustico che avvolge Isme nella rilettura di Ma Cherie for Painting, il dub narcotico con cui Kohn rivestono Vitamine, poi rivitalizzata di tribalismo sintetico da Terre Thaemlitz (del giro Mille Plateaux) a chiusura del disco. Attenti: se non siete educati a questa roba, vi sembrerà ostico entrare nel mondo dei Velma, anche se i rmx segnalati possono spianarvi la strada, piena di belle sorprese.

Franco "Lys" Dimauro

WOOD/Tired words & neurotico symphonies/green

Rimangono fedeli al loro nome i Wood sfornando un secondo album (il primo si chiama ‘Songlines’ ed è del 2000 uscito per Green records/ Cycle recs.) che tira randellate di legno massello. Proposti da certa stampa specializzata come band di emo-core italiano, mi trovo molto più d’accordo con chi li ha definiti la band hardcore più rock del momento. Come loro stessi hanno tenuto a precisare nell’intervista che leggerete in questo numero, i Wood l’emo non sanno neanche dove stia di casa. Per loro meglio parlare di quella zona franca pulsante di furia hardcore, nutrita con riffing di puro metal ridotto all’osso e lanciata nell’iperspazio emozionale con slanci semplici ed efficaci (vedi “Riders”). Si, si, forse la definizione già esiste ma non importa, forse i Wood hanno qualcosa degli At The Drive In e odorano di Fugazi ma non MI importa, un cuore rosso carminio che pompa sangue a litri non è cosa da tutti. Suonano noisy, pestano, spaccano ed addolciscono le menti con il sistema del bastone e della carota. Vuoi uno zuccherino? Eccoti “My Transmission” messa alla fine, così ti rilassi dopo sette brani belli pieni e ti viene di nuovo voglia di farti del bene, magari con i testi alla mano. E scopri che anche qui i ragazzi di Verbania ci sanno fare, in molte situazioni/ istantanee ti ritrovi ed elabori finalmente la tanto attesa frase “ ma allora sono un gran gruppo!!”. Magia del trasporto emotivo.Questo e molto altro hanno i Wood di "Tired Words & Neurotico Symphonies" che per necessità di battuta non è possibile esprimere a pieno. Nel disco ce n’è abbastanza per chi voglia scrollarsi di dosso un po’ di tristezza cantautoriale alternativa (a che? A Jhonny Cash?) che va tanto per la maggiore adesso. Ascoltatelo, guardatelo, c’è pure una traccia multimediale e, ovviamente, compratelo.

Francesco Imperato

ZEN/Pornstar/High Tuned

Forse, per fortuna, non tutti sanno che S.Remo non ospita solo il festival "maggiore", ma anche un "qualcosa" che fastidiosamente è stato chiamato Sanremo Rock Festival & Trend. Ed è dalle pagine di una delle mie riviste preferite, TV Sorrisi E Canzoni, che apprendo che uno dei gruppi che il nostro caro direttore mi ha spedito da recensire, e che si era disperso nell'oblio della mia camera sotto una pila di cd masterizzati, gli ZEN, hanno vinto insieme ad altri tre alfieri della scena giovane Italiana, la palmetta d'oro della manifestazione. Romani, tra i 18 ed i 21 anni, devono gloria e contratto ad un singolo scaricato da 65000 persone su Vitaminic, "(This is) the end of the world", a dir il vero anche a suo modo accattivante, ma, come tutto il cd in bilico tra grunge, seventies e cross-over stile Korn e Limp Bizkit, già sentito altrove e piattuccio nelle idee e nei suoni. A conclusione cito testualmente dal suddetto TV Ammenicoli e Contenziosi, il Subsonica pensiero fatto verbo:<>.

Andrea Pintus

 


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