Aa. Vv. Gypsies, Banda Ionica, Barrato, Bellicosi, Candidate, Caural, Cut, Cristiano De Andre’, Domine, Encre, Fluxus, Gotan Project, Herbie Hancock, Hope Sandoval & The Warm Inventions.
Aa. Vv. Gypsies, Banda Ionica, Barrato, Bellicosi, Candidate, Caural, Cut, Cristiano De Andre’, Domine, Encre, Fluxus, Gotan Project, Herbie Hancock, Hope Sandoval & The Warm Inventions.
AA. VV./Gypsies - I Nostri Zingari/Materiali Sonori
Merito a Materiali Sonori per l’opera di volgarizzazione musicale di culture “altre” che porta avanti con fierezza oramai da diverso tempo. Questa volta l’obiettivo è focalizzato sui Rom, sulla straordinaria abilità dei popoli zingari di intercettare e far propri i segnali provenienti dai luoghi attraversati e vissuti lungo il corso del loro incessante nomadismo, senza mai perdere il senso profondo di un’identità secolare. La raccolta spazia così dal canto muezzin di Taraf De Haidouks (con fisarmonica e violino che scorazzano su un boogie indiavolato in “Viens ma Jolie, sur le Pas de la Porte”) alla superba ed ardita commistione tra le quadriglie slavo-gitane della Kocani Orkestar e gli inserti cameristici dell’Harmonia Ensemble, dall’elegia funerea intonata da Ismail Saliev (“Djelem Djelem”) all’eclettismo di Note Manouche (i sali-scendi swinganti della chitarra in “Valse Adora” e la bossanova di “Souvenir”) sino a giungere alla fusion etnica di Cortjzo (la danza mediterranea di “Fakultet Macka”). Non mancano gli accenti politici (come ne “La ballade du Dictateur”), a testimonianza di una irriducibile volontà di schierarsi dalla parte degli oppressi, dei martoriati dalle guerre, dei diseredati del mondo. E tale sembra rivelarsi la ragione ultima di queste musiche: superare con onnivora voracità, le distanze sociali, i conflitti etnici per ricondurre l’uomo ad un’idea primigenia di fratellanza tra i popoli.
Davide Romeo
BANDA IONICA/Matri Mia/Dunya
Per quanti professano l’orgoglio di appartenere a questa Terra di Poeti, Emigranti e Truffatori che è la Sicilia, i dischi della Banda Ionica dovrebbero avere la valenza di un Testo Sacro, perché sono pieni di quei sentimenti assoluti di cui solo un cuore siciliano credo sia capace. Qui dentro il Dolore e la Gioia danzano abbracciandosi, come nel piroettare festoso di quelle feste popolari in cui il paganesimo rovescia, incantandola, la vocazione celeste al martirio, in cui i Santi ballano e diventano giullari di Dio e il dolore del sacrificio estremo viene esorcizzato perpetuandosi nelle gocce di cristallo che colano copiose da ceri immensi. Su questo nuovo disco, l’iniziale progetto della Banda di recupero del repertorio religioso-popolare siciliano viene deviato verso la forma canzone offrendosi spesso come scenografia per le passerelle degli ospiti coinvolti dal direttore Roy Paci, senza nulla perdere del suo equilibrio tradizionale ma ampliandone le prospettive. Come in quell’accorata preghiera che resta appiccicata in gola a Vinicio Capossela su Santissima dei Naufragati, o l’amore amaro narrato da El Mono Loco su Espirita o ancora lungo la dichiarazione di amore assoluto di Mi votu e mi rivotu che la voce di Cristina Zavalloni spinge fin sull' orlo di un melodramma Weilliano.
Franco "Lys" Dimauro
BARRATO/’Mmerrecano Siupesciò/Soul Craft Vacation House
Ottime notizie dall’underground italiano storto. I Barrato di ‘Mmerrecano Siupesciò testimoniano uno stato di salute ideale per i suoni deviati nella nostra penisola. Vinicio Amici, voce e chitarra dei Crunch, fugge temporaneamente dal progetto principale e si unisce a Max Buono e Andrea Giacalone (Megastore, Mute, Trinity Test tra le tante band) per continuare a sperimentare con il linguaggio noise-rock. In questo disco troverete una nuova, ritrovata commistione tra cantato in italiano e riff quadrati di scuola Helmet (“Cowboya” e “ Rinco Youth” prese dal mucchio), suggestioni liquide e percussive (“uh!!”), echi dei migliori June of ’44, quelli di Four Great Points, in “Sicuri Comodo”, riff violenti ed insolenti in “Transfuga” e “Voyeur Master”, la profondità in “Blueseza”. Fin qui è tutto musicalmente di alto livello ma dove la maggior parte delle band vacilla sono le voci e le liriche. Non in ‘Mmerrecano Siupesciò . Il modo di cantare di Vinicio con quella impostazione nasale un po’ strascicata, quel modo di stirare le parole, di declamarle, di urlarle a metà tra un saltimbanco ed un folletto fa realmente la differenza. Ma cantare cosa? Testi di acida realtà come quello di “Scotta Boicotta”, quadretti di stupidità giovanile in “Rinco Youth” e la riproposizione di “Postcard” ripresa da “ Worth Mentioning” dei Crunch anno 1998 e ridata a nuova vita con il nome di “Voyeur Master”. Rudy della Vacation House ci ha visto, o meglio sentito, bene accasando presso di sè questo ennesimo esempio di ottimo rock italico sopra le righe. Recita l’iniziale “ uh!”: << il mio mezzo è fragile quanto ordinario, sempre allerta sempre pronto, purtroppo indispensabile, ora, subito, facile >> e necessario.
Francesco Imperato
BELLICOSI/Torino Rock’n’roll Starz/d.i.y.
Incredibile a sole 12.000£ un cd con 11 magnifici pezzi + ghost track + video “Nine years and a half in the life of…Belli Cosi” (chiara presa per il culo del video dei Metallica…) + 2 loro vecchi EP in formato mp3 + il loro sito. Preciso subito che io non riesco a capire come si fanno a leggere queste tracce multimediali sul mio pc, e quindi giudicherò soltanto i brani audio! E che dire…l’appoggio di 12 etichette nella produzione se lo meritano appieno! Loro si definiscono “nuovo rock italiano”, e magari fosse tutto così il rock italiano…sanno essere veloci e belli incazzati, mischiando hard-core e punk, passando per varie influenze rock, ska, folk, metal…comunque i pezzi sono tutti ben riusciti, i testi (tutti in italiano) commuovono, le voci urlate sono “ecceziunali veramente”! Vi segnalo GLI ANNI MIGLIORI che apre il disco ed è forse il pezzo migliore e più rappresentativo, e poi personalmente ho apprezzato molto anche LA MARCIA che è appunto una marcia in chiave punk. Unico consiglio che mi permetto di dare al gruppo, non fate troppi stop&go, frammentano l’ascolto!
Giuseppe Pugliano
CANDIDATE/Tiger Flies/White’n’black
Il passato è una brutta bestia. Se lo portano dietro tutti, non c’è niente da fare. Nel rock, poi, è un gran casino. Ci sono gruppi che il passato lo amano alla follia e non lo mollano più, artisti che lo odiano al punto da distruggerlo e fare qualcos’altro, musicisti che riescono a recuperarne lo spirito e il valore senza imitarne le forme. Ci sono perfino gruppi che dicono di fare cose nuove, di non ripetere il passato quando in realtà dal passato pescano a piene mani (un esempio? “Amnesiac”, l’ultimo disco dei Soft Mac… dei Radiohead). I Candidate amano il passato, e almeno in parte ne imitano le forme. Il risultato però è originale, fresco e godibilissimo. Nei quattordici brani di Tiger Flies c’è talento e passione. Tra rigurgiti westcostiani (“Avalanche”, che sembra proprio Crosby redivivo), ballate pastorali alla Ummagumma o Atom Earth Mother e lo spettro di Syd Barrett che riaffiora, soprattutto nella capacità di fondere nello stesso brano atmosfere dolci e macabre, si sente amore per la musica e voglia di farsi ascoltare. Non c’è aria di vecchio in Tiger Flies. E il trucco sta tutto nei presupposti: talento, passione, freschezza.
Isidoro Meli
CAURAL/Paint ep/Chocolate industries
Non essendo in possesso di “Initial experiments in 3-D”, prova sulla lunga distanza di Zachary Mastoon aka Caural, lascio che sia “Paint ep” ad introdurmi nell’universo sonoro di questo giovane hip hopper proveniente dalla zona di Chicago. Attraverso un’eccellente lavoro di taglia e incolla le 4 tracce qui presentate amalgamano basi hip hop belle grasse, scorie jungle, il fruscio della puntina che scorre sul vinile, divertimenti lounge-psichedelici, ritornelli pop e persino una chitarrina insolente che in “Red sunshine” arriva a solleticare le orecchie quando meno uno se lo aspetta. Il tutto condensato in 20 minuti! A dir poco gustosa la copertina, curata dal graffitista inglese Kid Acne, dove sono raffigurati due spiritelli che escono dalle casse di uno stereo portatile con microfono in mano, grosse catene d’oro al collo e il berretto ben calcato in testa: l’immagine standardizzata del rapper chiamata ad illustrare la musica di chi invece interpreta con fantasia le infinite possibilità di un genere troppo spesso incasellato in schemi rigidi e obsoleti.
Guido Gambacorta
CUT/Torture/Gammapop
Ennesima conferma in casa Cut: il gruppo d’adozione bolognese ci regala altre quattro frizzanti schegge rock, giusto per non farci disabituare alla buona musica. Prosegue il percorso d’allontanamento dallo stereotipo Punk/rock n’ roll iniziato con l’esordio di qualche anno fa. Torture suona complessivamente più riflessivo, meno “estremo”, è punk nello spirito più che nella forma, le voci hanno guadagnato più spazio, mentre è oramai perfetta la simbiosi tra le due chitarre. Sebbene considerato una postilla al disco precedente (Will u die 4 me?) l’ep brilla di luce propria, mi sono pienamente riconosciuto nella titletrack (“your love for me is like torture…”), e con mia sorpresa ho canticchiato “Sign ‘o’ the times” di Prince, che nella versione originale non mi ha mai detto nulla, ma che qui è riproposta in una veste inedita ed originale. Come se non bastasse ci sono anche due tracce cd-r con i video della band! Serve aggiungere altro?
Salvo Senia
CRISTIANO DE ANDRÈ/Scaramante/Edel
Primo punto: parliamo di un disco magnifico. Lo dico subito perché il discorso è complesso, e alla fine se uno legge una recensione è soprattutto per rispondere all’odiosa inutile ridicola domanda: “Ma com’è ‘sto disco?” La risposta è all’inizio. Disco magnifico. L’artista in questione si porta dietro un macigno inconcepibile. Si, perché De Andrè non è un cognome famoso qualsiasi, è molto di più. E’ un simbolo tatuato sulla pelle di milioni di persone che hanno sudato rugiada all’ascolto di canzoni memorabili e dischi supremi, e che hanno amato Fabrizio, e non come si amano gli U2 o i Pink Floyd o gli Stones. Nossignori. Scordatevi il fanatismo. Qui parliamo di amore vero, dell’amore che si ha verso i fratelli, i genitori, verso gli amici di famiglia. Perché Fabrizio De Andrè non era una celebrità o un intrattenitore o un personaggio. Era una persona. E ora quel cognome riporta alla persona, all’uomo, all’artista, e inevitabilmente tutti hanno paura. Paura che venga sgualcito, o peggio squarciato. Paura che possa identificare un personaggio, prima che una persona. Ma Cristiano De Andrè è un artista, un musicista. E una persona. E allora non c’è bisogno di paura, si può ascoltare e apprezzare e magari amare, come si amava il padre. “Scaramante” è bellissimo. C’è molta musica (e molti strumenti, perché Cristiano è prima di tutto un polistrumentista di grandissimo livello), siamo dalle parti di “Anime Salve” (che il nostro aveva contribuito ad arrangiare), e c’è una personalità che molti si sognano. Ci sono pezzi capolavoro come “Fragile Scusa” e “Buona Speranza” e “Il silenzio e la luce”, un paio di episodi pop (“Lady Barcollando” e “Le quaranta carte”) di gran classe e una scrittura sempre raffinata e particolare, mai lasciata a se stessa. Perciò lasciate perdere i commenti entusiastici che si concludono con un “però non è come suo padre”, qualunque sia il significato di questa frase. I paragoni di questo tipo sono inutili e sbagliati. Le classifiche servono per il mercato e per il capitalismo, non per l’arte, né tantomeno per le persone. Grandissimo disco.
Isidoro Meli
DOMINE/Stormbringer Ruler/Dragonheart/Audioglobe
Il mio album preferito dei Domine rimane l’esordio “Champion Eternal” del 1997, incontaminato esempio di epic/power metal fedele alla tradizione degli eighties con le sue melodie evocative innestate su un sound oscuro, cadenzato e sobriamente barbarico. Nel precedente “Dragonlord” ed in questo “Stormbringer Ruler” il gruppo toscano corregge invece un po’ il tiro verso le tendenze attuali, mediante un approccio più sinfonico e l’uso delle classiche cavalcate melodiche con doppia cassa. L’operazione riesce, soprattutto su quest’ultimo Cd, in maniera più che dignitosa e la band dimostra di saper ancora graffiare con ottimi brani come l’opener “Hurricane Master” o “The Fall of the Spiral Tower” (forte di un’interpretazione vocale di Morby davvero notevole) nonché con un diffuso afflato eroico/manowariano e nessuna sensibile caduta di tono. Forse da due metalhead doc come i fratelli Paoli (fondatori e menti dei Domine), avrei sperato di sentire dei lavori più metallicamente integralisti, tuttavia non si discute la professionalità di quanto proposto e la sua possibilità di entusiasmare ascoltatori meno reazionari del sottoscritto.
Salvatore Fallucca
ENCRE/S/T/Clapping
Dietro la sigla Encre si nasconde Yann Tambour, giovane musicista francese di belle speranze, che ha esordito alcuni mesi or sono con un lavoro di notevole fascino, realizzato in perfetta solitudine. Otto tracce di trip-hop evoluto, in cui il suono, all’interno di ciascun brano, si arricchisce inaspettatamente di nuovi elementi secondo un processo di stratificazione che in più di un’occasione genera squisite meraviglie: basti pensare alla chitarra quasi western che colora di spleen le atmosfere acquatiche di “Or” o alla tromba nostalgica che in “Air” si adagia su una batteria jazzata, mentre il piano disegna figure memori di Satie. Tambour riesce spesso lì dove molti presunti prodigi dell’elettronica falliscono, ovvero nell’impresa di far convivere in modo equilibrato chincaglieria elettronica e strumentazione organica, dando prova di possedere un senso straordinariamente filmico del mezzo sonoro: ne sono testimonianza le trame orchestrali di “Nocturnes” ( con un finale epico scosso da loops disturbanti degni degli Autechre ) e l’etereo pianismo di “Une nuit à ciel ouvert”. Come se non bastasse, a conferire un piglio fatalista al tutto provvede il recitativo suadente, noir del francese, piuttosto simile, in verità, al celebre bisbiglio di Tricky ( “Foehn” con quel suo andamento bluesy potrebbe essere un outtake da “Pre-Millennium Tension”). Non mancano riferimenti quasi cameristici come nel quadretto esistenzialista di “Burlington, Vermont”. Nel complesso, dunque, un’opera già matura, senza sbavature e che lascia intravedere per il suo autore un futuro radioso. Le produzioni cinematografiche non se lo faranno scappare. E, ahimè, nemmeno i pubblicitari.
Davide Romeo
FLUXUS/Fluxus/Furious Party
Non ci vogliamo credere. E’ veramente un peccato, perché un disco come Pura lana vergine (1998) era un vero formidabile campioncino del rock nostrano. Noise-core-sticazzi mai derivativo (alla faccia dei vari One Dimensional Man), viscerale, vibrante, monolitico, con alcuni pezzi (Giro di vite, col suo riff stregonesco perennemente ascendente, Latte, Lacrime di sangue) e molti strumentali da far gridare al miracolo. E invece, dopo quattro anni, eccoci davanti a questa porcheria. Perché di porcheria trattasi, per quanto l’apertura Nessuno si accorge di niente faccia quasi sperare bene. Ed è inutile pararsi dietro gli schermi di fantomatiche “scelte artistiche”. Perché non è una “scelta artistica” abbandonare quell’urlato sanguinante in favore di una voce clonata dai peggiori gruppuscoli adolescenziali, come dei Marlene Kuntz regrediti alla fase Nirvanale. Come non è una scelta artistica tentare di darsi un contegno smozzicando trucioli di tromba (Roy Paci) e lasciandoli qua e là con noncuranza. Non un’idea, un guizzo, un esperimento, nei dodici pezzi di questo disco omonimo. Le chitarre deficienti, inserti campionati da fare invidia ai peggiori Subsonica, arpeggi con acne juvenilis, come dei Verdena qualsiasi: ma almeno i Verdena sono giustificati, perché sono bestie. Loro non dovevano farlo, avevano mostrato di avere capacità illimitate. Comprate Pura lana vergine, distr. Il manifesto, costa pochi euro e vale mille di questi dischetti.
Francesco Giannici
GOTAN PROJECT/La revancha del tango/Ya basta!
La visione di “Tangos, l’exile de Gardel”, film franco-argentino della metà degli anni ’80 sugli esuli argentini a Parigi durante gli anni della dittatura di Pinochet, permette di comprendere esattamente che cosa rappresenta il tango per gli Argentini: molto di più di un ballo, il tango è il canto di un popolo intero, un sentimento collettivo, un vero e proprio inno nazionale, l’espressione di un profondo attaccamento alle tradizioni di una terra che per gli Argentini all’estero è destinata a diventare luogo della memoria e della nostalgia. Il tango si gonfia di morbide rotondità, incontra l’house e il dub, ed approda infine nei dance clubs europei grazie allo svizzero Christoph Mueller, all’argentino Eduardo Makaro e al francese Philippe Coher Solal, quest’ultimo fondatore dell’etichetta "Ya Basta!" e supervisore musicale per registi quali Bertrand Tavernier, Lars Von Trier, Nikita Mikhalkov. A tracciare un forte legame con l’Argentina è non solo la rilettura di temi cari ad Astor Piazzola e Gato Barbieri, ma anche l’utilizzo di frammenti campionati da discorsi di Ernesto Che Guevara ed Evita Peron. La settima traccia, “Capitalismo foraneo”, suona come una denuncia della depauperazione subita dall’apparato produttivo argentino ad opera dei monopoli capitalistici stranieri e, alla luce della recente crisi argentina, assume il sapore di una triste premonizione. Disco di malinconie struggenti, di ritmi ondeggianti, di significati politici, di languori erotici, “La revancha del tango” ha ottenuto un meritato successo di pubblico e critica; c’è però da aggiungere che questo è uno di quei classici casi in cui un gruppo rischia di essere vittima delle sue stesse intuizioni: difficile infatti immaginare quali possano essere le direzioni percorribili dal Gotan Project in un eventuale secondo capitolo discografico se il terzetto in futuro non vorrà adagiarsi sulla semplice riproposizione della formula utilizzata per “La revancha del tango”.
Un caleidoscopio di grooves jazzati. Questo è “Future 2 future” ed esemplifica perfettamente l’idea “Be still”, magnifico brano soul cantato da Imani Uzuri e reso leggero, quasi etereo, dal sassofono di Wayne Shorter e dal basso acustico di Charnett Moffett. Incontriamo poi gli scratches di Rob Swift in “This is Rob Swift”, mentre il basso di Bill Laswell e la voce narrante di Dana Bryant conducono “Tony Williams” nei territori abitualmente esplorati da Ursula Rucker. E i quattro Hero moriranno forse d’invidia appena avranno sentito cosa riesce a fare Chaka Khan in “Essence”? “Herbert part 1” ed “Herbert part 2” provano ad ipotizzare la world music del 2030, con il tam tam e il canto tribale dell’etiope GiGi sciolti nei beats programmati da Carl Craig; impronte jazz e lontani echi jungle negli strumentali “Black gravity” (A Guy Called Gerald dietro il banco di produzione), “Ionosphere”, “Alphabeta” e “Virtual hornets”. Ah, mi stavo dimenticando: dirige Herbie Hancock.
Guido Gambacorta
HOPE SANDOVAL & THE WARM INVENTIONS/Bavarian fruit bread/Rough Trade
L’avevamo lasciata tra le note crepuscolari di “Among my Swan”, ultimo capitolo della dolce saga Mazzy Star. Hope Sandoval allora era ritenuta un piccolo lusso inutile, la voce sensuale e delicata che arricchiva le architetture sonore di Dave Roback. La critica non è mai stata tenera con loro: Roback era colpevole di aver fatto parte del Paisley Underground, scuola tutta chitarre & nostalgia per gli anni dei fiori; lei era la cantante bella e senza cervello. Poco importa che i tre album dei Mazzy Star fossero stupendi e almeno uno indimenticabile (“So tonight that i might see”). Solo belle canzoni, per i critici. Come se non importasse. Chissà cosa penseranno adesso dopo avere ascoltato “Bavarian fruit bread”: “Oddio, solo una manciata di capolavori voce e chitarra. Ma che schifo!” Perché Hope Sandoval non è senza cervello, e sicuramente non è senz’anima. Le canzoni sono tutte meravigliose. Questo disco supera i tre Mazzy Star attraverso una semplicità disarmante. Solo voce e chitarra, e qualche brillio di organo e piano e xilophono, come in un sogno del Lynch più romantico. E’ musica avvolgente come la notte più buia, e calda come la voce di Hope. Hope, speranza. E quindi consolazione. Calore. La voce di un ritorno alla vita.
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