Alio Die E Nick Parkin, Helgoland, The Tinklers/X.X.O.O., Mogwai, Virgo, Paul Chain Experimental Information, Caboto, Lali Puna, Appleseed Cast, Saul Williams, Jan Delay, Sugarcoma, Björk , Seven Storey, Pentagram, Suicide King, Am/Fm, Steve Roach.
Alio Die E Nick Parkin, Helgoland, The Tinklers/X.X.O.O., Mogwai, Virgo, Paul Chain Experimental Information, Caboto, Lali Puna, Appleseed Cast, Saul Williams, Jan Delay, Sugarcoma, Björk , Seven Storey, Pentagram, Suicide King, Am/Fm, Steve Roach.
ALIO DIE E NICK PARKIN/Aquam metallicam/Musica Maxima Magnetica
Acqua. Dolce. Di mare. Oceano che sommerge, senza uccidere, che ti fonde ad una storia super-individuale. Lune che muovono maree, che regolano cicli vitali, e grembi in perenne rigenerazione. Ti sei addormentato nel Brodo Primordiale, nella placenta di una figa acquatica… Non so dire se sia bello. Credo che per certe cose i canoni di valutazione tradizionali finiscono nella fogna (ancora acqua!). Nick Parkin e un compositore multi-strumentista che vive a Londra . Un numero cospicuo di lavori all’attivo e collaborazioni con Stillpoint e T.U.U. Eclettico, compone Dance e scrive per compagnie teatrali (Tetsuro Fukuharas “Space Dance project”). Si incontrano con Stefano Musso – samples, percussioni, processori – in Italia, l’anno scorso in autunno e registrano questo enigmatico lavoro (Oct.2000 at Lunae Studio, Lunigiana), dopo un periodo in cui entrambi sbozzano strane pietre! E’ un’esperienza che nasce nel rumore, il frastuono più coinvolgente ed ipnotico mai udito. E’ una marea che cresce fino ad inghiottirti. Il risultato di due menti alla deriva, oltre il suono, oltre ogni organico costrutto armonico, oltre ogni Metodo, oltre la musica. La vera Musica. Sonica coagulazione basata sull’energia degli elementi. Un viaggio nella Vibrazione.
Joele Valenti
HELGOLAND/Dust/Music ‘a la coque
THE TINKLERS/X.X.O.O./S/t/Music ‘a la coque
Due singoli, due 45 giri in vinile come si usava “ai bei tempi”. Due progetti, profondamente, diversi, ma accomunati da un istintivo anticonformismo. Gli olandesi Helgoland, propongono un arzigogolato minestrone dada-plagiarista, molto vicino a certe cose dei grandissimi Nurse With Wound. Un continuo cut-up di suoni, tra improvvisi scatti orchestrali, nenie infantili, fughe jazzistiche, voci e rumori, in cui la fusione tra campionamenti e parti realmente suonate, é talmente compatta da renderne impossibile la distinzione. Riuscendo, persino, a mantenere una certa melodicità, spesso latente in progetti simili. Si attendono felici sviluppi. Sviluppi che, probabilmente, non avremo mai la fortuna di ascoltare dagli intestatari del secondo disco del lotto. Quest’ultimo, infatti, altri non é che la documentazione vinilica di un set registrato dai fratelli Jad e David Fair, sotto il nome The Tinklers, con membri sparsi degli Half Japanese, nel 1984. La valutazione per un disco del genere, sta tutta nella soggettiva capacità di rapportarvicisi. Personalmente, ho trovato il disco divertente e freschissimo, a dispetto dell’età anagrafica; ma considerarlo un bluff é legittimo. Il country-bestia, di morettiana memoria, tradotto da “capitan cuor di bue”: rozzissimo, delirante, monotono, ma capace di arrestarsi un secondo prima che si faccia strada il sentore di solfa. Le melodie, sembrano tagliate con l’ascia, da un gruppo di cavernicoli in vacanza a Nashville, ma ti restano addosso, anche più delle canzoncine tristanzuole degli Smog (che peraltro apprezzo). Ancora una volta, lo stupore indotto da un disco registrato quasi vent’anni fa, é l’amaro parametro con cui valutare la scialba, molle, stagnante, omologazione della musica odierna. A patto che non si consideri questo, cacofonico, elogio della follìa, come un banale divertissment... che non diverte per niente.
Alessio Bosco
MOGWAI/EP + 6/Chemical underground
MOGWAI/My father my king/Pias/Rock Action
MOGWAI/5 track tour single/Chrysalis Music
Fans dei Mogwai mano al portafoglio, perché fioccano le uscite della band scozzese: ben quattro nell’arco di pochi mesi, contando anche la ristampa di “Kicking a dead pig” segnalata su Succo n. 6. Del lotto che vado a recensire adesso il prezzo più pregiato è rappresentato senz’altro da “EP+6”, almeno per chi non è già in possesso di tutti i primi eps pubblicati tra il 1997 e il 1998 per la Chemichal underground. L’etichetta inglese ha provveduto finalmente a ristampare in un unico cd “4 satin ep”, “Mogwai : ep” e “No education = No future (fuck the curfew)”: in tutto dieci tracce con l’aggiunta di una parte multimediale che include immagini, salvaschermo e il video di “Stanley Kubrick” diretto da Brian Griffin. Tre sono i brani che si fanno apprezzare più degli altri: “Superheroes of bmx”, che amplifica stati alterati di coscienza; “Now you’re taken”, dove si affaccia timidamente Aidan Moffat, e poi “Xmas steps”, passi diretti con decisione verso “Come on die young” e il suo capolavoro “Xmas song”. Assolutamente da avere pure il singolo “My father my king”: un’unica maestosa traccia, già presentata nelle esibizioni live, nella quale i consueti saliscendi emozionali vengono dilatati per oltre venti minuti! E per concludere “5 track tour single”, che come indica il titolo è un mini messo in circolazione dai Mogwai durante le date della loro ultima tourneé e che ora è possibile reperire non nei negozi di dischi ma solo sul sito ufficiale del gruppo. Si tratta di tre delicati quadretti strumentali, nel primo dei quali figura alla chitarra anche David Pajo, e di due pezzi registrati dal vivo, “You don’t know Jesus” ed “Helicon”, racchiusi in un documento che ha il pregio di fotografare i Mogwai più bucolici accanto a quelli più rumorosamente inquieti.
Guido Gambacorta
VIRGO/Virgo/SPV/Steamhammer
L’estrazione metal dei due musicisti coinvolti in questo singolare progetto non deve confondere le idee a chi si avvicini ignaro all’ascolto del CD in questione: qui di metal non c’è proprio traccia! Infatti il vocalist André Matos, alla sua prima uscita discografica post-Angra, ed il polistrumentista-produttore Sascha Paeth, già in forze con i power metallers Heavens Gate, si cimentano in un (pop) rock sinfonico la cui matrice si può chiaramente far risalire agli indimenticati Queen ed al pop-rock anni ’80 in generale. Sin dall’opener “To Be”, che si dipana come una sorta di nuova “Innuendo” con tanto di chitarre acustiche in stile spagnolo, il lavoro è infarcito da una serie continua di richiami più o meno espliciti alle sonorità ed alle atmosfere del quartetto inglese. I brani che compongono questa sorta di “tributo” sono molto belli, e mi sento di segnalare in particolore “Take Me Home”, dove fanno capolino anche i Supertramp; la sbarazzina ed orecchiabile “Baby Doll”, presente sul disco anche in versione videoclip; la ballad sinfonica “No Need To Have An Answer”, con fraseggi di chitarra in puro stile May ed un finale in crescendo arricchito da cori gospel che ritornano anche in “River”; o la conclusiva e bluesy “Fiction”, dove il fantasma di Mercury e soci è veramente tangibile. Da segnalare anche “Street Of Babylon” un simpatico “scivolone” nella disco stile Donna Summer con tanto di arrangiamenti orchestrali. Probabilmente il disco non è un monumento all’originalità, né un imprescindibile capolavoro; magari talvolta la voce di Matos, più adatta a sonorità ben diverse, risulta un po’ fuori luogo (ferma restando la sua buona prestazione), ma ciò non toglie che per gli amanti di un certo rock sinfonico e patinato questo disco risulta un più che piacevole ascolto.
Paolo Lo Iacono
PAUL CHAIN EXPERIMENTAL INFORMATION/Container 47/New LM
Il 19 Dicembre 2001 Palermo ha avuto il piacere di ospitare un concerto dello storico musicista pesarese, una occasione in cui Paul Chain, accompagnato da Massimo Recchia (betterista degli OJM) e Stefano Are (bassista dei Rollercoaster), ha mostrato l’ennesima sfaccettatura della sua multiforme personalità cimentandosi con chitarra, tastiere e voce (contemporaneamente) in un set, interamente improvvisato, in cui un poderoso wall of sound sabbathiano si fondeva con digressioni lisergiche in un magma sonoro che, al di là di svariati passaggi confusi o transitori (inevitabili in un’ora d’improvvisazione), ha creato un’atmosfera ipnotica di notevole suggestione. Tale preambolo per prepararvi all’ascolto di questo Experimental Information, per l’appunto il più sperimentale fra i “Containers” che il nostro utilizza come sistema di suddivisione per le sue numerose produzioni discografiche (spazianti dal doom allo space rock passando per lo stoner il progressive e quant’altro). Nel Container 47 troviamo infatti 15 tracce anch’esse all’insegna della più pura improvvisazione, con una parte iniziale (i primi 7 brani) quasi essenzialmente pianistica rimembrante il prog. più crepuscolare (certi Atomic Rooster o i nostrani Jacula) ed una seconda parte invece in cui chitarra, basso, voce e batteria si abbandonano ad acide svisate psichedeliche con sprazzi di anarchia musicale di derivazione punk/noise. Denominatore comune di tutto ciò è l’ammaliante alone spettrale che il nostro riesce ad infondere alle sue composizioni e che si può provare a seguire come un filo d’Arianna nella sua labirintica e spesso spiazzante espressione artistica.
Salvatore Fallucca
CABOTO/Nauta/Scenester
Mi capita sempre più spesso di imbattermi in formazioni italiane che possono dare del filo da torcere a tanti grossi nomi di oltremare, trovando in patria quello che ultimamente mi sembra di non riuscire a trovare altrove. Buon segno. Ultimi, ma solo in ordine cronologico di tempo, sono questi Caboto che il mare lo hanno attraversato non solo metaforicamente per stampare un nome di etichetta in fondo al loro disco di debutto. E' infatti per la californiana Scenester che esce questo Nauta, discone post con i controcoglioni splendidamente registrato e ancor meglio suonato da gente che sa trafficare con i propri strumenti come pochi possono. Siamo in un territorio di confine. Jazz, progressive, math rock, post rock, un'autentica pioggia pneumatica che ti rimbalza addosso (Samsa) o che ti tintinna sulla nuca (Afterland) e poi quel gioiello di esuberanza ritmica che è Take off and drift, vera valvola di fuga verso ciò che non è più "dopo" ma "oltre" ciò che abbiamo ascoltato. Roba che i Tortoise non riescono più a dire se non balbettando.
Franco "Lys" Dimauro
LALI PUNA/Scary world theory/Morr Music
Sembra proprio che le cose più interessanti nel panorama della musica elettronica provengano in questo momento dalla Germania: The Notwist, Tarwater, To Rococo Rot, Mouse on Mars sono solo alcuni dei nomi di una scena che attinge tanto dal jazz quanto dal kraut rock anni settanta sviluppando poi sonorità che spaziano dalla techno minimale al pop sofisticato. I Lali Puna incidono per un’etichetta berlinese ma provengono da Monaco di Baviera, dato che fanno parte della grande famiglia Notwist/Tied+Tickled Trio/Console, con l’onnipresente Markus Acher qui insieme a Christoph Brandner, Florian Zimmer e Valerie Trebeljahr. Affini ai Notwist nella capacità di adagiare perfettamente le parti cantate sulle trame elettroniche e più simili ai Tied+Tickled Trio quando architettano pezzi strumentali adatti per qualche dancefloor alternativo (“50 faces of”), i Lali Puna possono comunque contare su un elemento assente sia nella musica dei primi che in quella dei secondi, vale a dire la voce femminile di Valerie, capace di trasformare algide alchimie sintetiche in ballate del livello di “Nin-com-pop”, “Bi-pet”, “Scary world theory” e “Lowdown”. I pezzi acquistano poi grande forza evocativa, e si rivela compiutamente l’originale cifra stilistica del gruppo, quando Valerie anziché cantare le proprie liriche, le recita lasciandole sospese tra i battiti della drum machine (“Middle curse”, “Don’t think”, “Contratempo”, “Come on home”). “Contratempo”, cantata in portoghese anziché in inglese come le altre, sembra indicarci, insieme a “Vai viver a vida” di Rae & Christian e alla versione portoghese di “Hit the road Jack” nell’ultimo dei Mo’ Horizons, che il portoghese è stato ormai eletto da djs e manipolatori elettronici come lingua ufficiale per conferire un tocco di calda malinconia ai suoni artificiali creati dai campionatori. Deliziati dall’ascolto di “Scary world theory” dei Lali Puna, e qualche mese fa da quello di “Electric avenue tapes” dei Tied+Tickled Trio, non ci resta che attendere l’imminente ritorno dei Notwist.
Guido Gambacorta
APPLESEED CAST/Low level owl part I/Deep Elm
APPLESEED CAST/Low level owl part II/Deep Elm
Diciamo subito che certe "opere" mi mettono già in una cattiva disposizione d'animo: 108 minuti di musica. Siamo dalle parti di Sandinista! o quasi. Dunque, o sei un genio e allora io mi inginocchio e tu mi sodomizzi oppure credi di esserlo e allora io ti prendo a calci nel culetto e ti mando a spalare ossa e ti tolgo la cittadinanza, qualunque tu abbia. Detto questo, gli Appleseed Cast, nonostante una discreta fama in ambito emocore, non sono né i Clash né i Pink Floyd, non hanno né la bulimia multirazziale dei primi né la visionarietà dei secondi. Continuando per analogie diciamo che questi due volumi di Low Level Owl sono per la scena emo ciò che Mellon Collie degli Smashing fu già per il grunge: la scossa progressiva è talmente intensa da rappresentare, più che una evoluzione logica, un appesantimento gravoso e plumbeo che, lungi dal far decollare un intero fenomeno, lo zavorra a terra. E come quello sancisce inequivocabilmente come certe posizioni della critica nei confronti della musica progressive dei 70's siano tutte da rivedere. Se si rabbrividisce ancora oggi al "passaggio" di Van Der Graaf Generator, King Crimson, Pavlov' s Dog o Soft Machine, non si capisce perché poi si celebrino certi recenti mausolei musicali come capolavori assoluti. Analogamente si dovrebbe riflettere come l'alito prog di quegli anni sia diventato di recente, l'anello di raccordo di tutte le musiche di derivazione rock: Smashing Pumpkins, Radiohead, GYBE, Tortoise, A Silver Mt Zion, Jackie-O Motherucker, Appleseed Cast sono qui a dimostrarlo. Io onestamente mi diverto pochissimo, ma varrebbe la pena approfondire la questione. Musicalmente, per chi non avesse familiarità con il vocabolario dei Semi di Mela, diciamo che siamo dalle parti dei Mogwai, arpeggi dilatati e tastiere quasi liturgiche. Se non avete un debole per queste storie qui evitate di avvicinarvi a questi due dischi, correreste il rischio di addormentarvi a metà del primo e quindi non riuscireste mai ad infilare il secondo nel lettore. Se invece vi piace farvi trasportare da queste pesantezze, rischiate pure. Io vado a riascoltarmi Faster Pussycat!Kill!Kill!
Franco "Lys" Dimauro
SAUL WILLIAMS/Amethyst rock star/Columbia
JAN DELAY/Searching for the Jan soul rebels/Buback,Grooveattack
Il 2002 è ormai alle porte e si avvicina il momento delle classifiche di fine anno; eccomi allora a recensire due dischi, usciti già da diversi mesi, che hanno ottime possibilità di entrare nella mia top ten 2001. Iniziamo con “Amethyst rock star”, disco prodotto da un certo Rick Rubin. E’ fuor di dubbio che l’attuale campione mondiale dei tuttologi sia Vittorio Sgarbi, il quale ci ha abbondantemente dimostrato di essere il migliore tanto come arrogante critico d’arte, quanto come politico assenteista, dongiovanni da strapazzo e rissoso intrattenitore televisivo. Se però negli anni a venire Sgarbi vorrà conservare il suo primato come mente più eclettica in circolazione dovrà iniziare a guardarsi seriamente da un ragazzo di colore chiamato Saul Williams, attore, poeta ed ora anche musicista. In “Amhetyst rock star” Saul Williams riesce a far convivere esperimenti di spoken words come “Our father” tanto con il rap metal alla Rage against the machine di “Om nia merican” quanto con pezzi di oscura e selvaggia drum’n’bass (“Penny for a thought” e “Coded language”, quest’ultima insieme a Dj Krust). Praticamente il disco che i Body Count e i Living Colour hanno sempre sognato di realizzare senza mai riuscirci: episodi come “Tao of now” (dove compare anche la voce di Esthero) e “Fearless” sono più che sufficienti per farci capire di che stoffa è fatto Saul Williams! Atmosfere ben più solari e rilassate in “Searching for the Jan soul rebels” di Jan Delay, membro degli Absolute Beginner, dalla scena hip hop di Amburgo: rime in tedesco srotolate su ritmi reggae-dub per un disco in grado di evocare più le spiagge della Giamaica che i quartieri di qualche metropoli americana od europea. Si comincia con “Sam Ragga Styler”, “Ich möchte nicht, dass Ihr meine Lieder singt”, “www.hitler.de” e si prosegue senza soste fino alla conclusiva “Die Party ist zu Ende”. La musica di Saul Williams e Jan Delay dimostra che il vero hip hop (non un suono o un genere, ma una cultura fatta di passione ed idee) non ha proprio niente a che vedere con le insulse forme di r’n’b tanto in voga oggi o con il rap pseudoincazzato in grado di comunicare messaggi solo a colpi di “fuck ya” e “kill ya”.
Guido Gambacorta
SUGARCOMA/What Goes Around/Music For Nation
E.p. in formato seminterattivo (una delle cinque tracce è in realtà un video “leggibile” solo attraverso il pc) realizzato da una band di teen ager a maggioranza femminile (ma guarda un po’ che novità!). Siamo di fronte all’ennesimo figlio di quell’incrocio bastardo fra cross-over, garage e stoner, rivisitato in quella chiave “poser” che contraddistingue le nuove generazioni: riff di chitarre essenziali e “dritti”, scolastiche aperture melodiche in forma di ritornello, voce maschile (qui sulle tonalità alla gorilla biscuits) e femminile (un misto di Shirley Manson dei Grabage e Sandra Nasic dei Guano Apes) che si alternano e si incastrano. Un prodotto ben curato in fase di incisione e mixaggio, molto gradevole all’ascolto, rivolto (sia detto senza alcuna ironia di fondo) ad un pubblico anagraficamente e/o attitudinalmente under 18, che vede nei Limp Bizkit e nei Linkin Park il massimo traguardo dei propri orizzonti musicali attuali. Prevista per la primavera l’uscita del loro primo album, sempre per la music for nation e sempre sotto la supervisione di Colin Richardson ( già produttore di Machine Head e Carcass).
Roberto Baldi
BJÖRK/Vespertine/One Little Indian
Björk respira.
Respiri affannosi, trattenuti, incerti percorrono “Hidden place” e “Cocoon”.
Le pareti macchiate dai ricordi.
Il soffio vitale di “Heirloom”.
Björk ride.
Un sorriso illumina “It’s not up to you”.
Freddo invernale.
Una risata appanna il vetro.
Nevrosi scolorite si insinuano sotto la pelle.
“Pagan poetry”.
La risata si tramuta in pianto.
Björk piange.
Lacrime (“Undo”).
Lacrime scorrono sul volto come perle iridescenti (“Frosti”).
Fratture.
Un lamento appena sussurrato (“An echo, a stain”).
Fuori nevica.
Björk tace.
Silenzio.
Guido Gambacorta
SEVEN STOREY/Dividing by zero/Deep Elm
Ecco il disco che può tentare di risollevare le quotazioni della Deep Elm, ultimamente in calo a causa di un eccesso di autoindulgenza che si respira in molte produzioni col suo marchio rotondo (vedi rec. degli Appleseed Cast su questo stesso numero). I Seven Storey hanno carattere e stile propri e poco a che spartire con tanta paccottiglia emo: diverso il loro background e diversi i risultati, Dio li abbia in gloria. Sono forti ad esempio i legami con certa new wave (a me è parso di sentire affiorare in più di un caso il ghigno di Andy Patridge e dei suoi XTC...) ma quello che colpisce è la fantasia ritmico-melodica in cui i tre ragazzi americani incuneano queste loro ascendenze, degna di gruppi come Fugazi e All e cresciuta in maniera esponenziale dai tempi di Leper Ethics, il tutto "trattenuto" dai timbri evocativi della voce di Lance Lemmers, a tratti vicino allo spleen epico dei vocalists di Alice in Chains o Days of the New (ascoltate pezzi come Paper and Quill oppure Enough Already per sincerarvene, NdLYS). Notevoli, sul vero senso della parola.
Franco "Lys" Dimauro
PENTAGRAM/Sub-Basement/Black Widow
Dispiace un pochino vedere tanta gente prostrarsi al genio dei Tool e ignorare o quasi un gruppo come i Pentagram. Attivi sin dai primi anni 80 (ma con le radici che affondano addirittura all' alba del decennio ancora precedente), i Pentagram possono considerarsi l'anello di congiunzione tra i Black Sabbath e in generale tutta la scena ossianica dei 70 e la progenie di gruppi retro-rock di cui son piene le pagine di questi anni, dai Cathedral ai Tool per l'appunto. Può ben vantarsi la nostra Black Widow di averli nel proprio roster tanto più perché la band americana continua, al di là del suo ruolo pioneristico, a mettere lo sputo sul naso di tante giovani bands di frikkettoni fuori tempo massimo. Il nuovo Sub-basement non ha cedimenti e si poggia su una coltre di megawatts da brivido, roba da far tremare il culo a Sua Vanità Marylin Manson e a tutto quel carrozzone di fanatismo esoterico che ha fatto di Re Caprone la più sciocca rockstar in circolazione (a proposito! Complimenti agli Slipknot per la splendida e fantasiosa copertina del loro nuovo album. A me non è manco venuto voglia di togliere il cellophan). Ora, nonostante i Pentagram non facciano nessuna apologia del Male e spendano il loro tempo in altre faccende che non in Messe Nere, pochi altri ne possono musicalmente rappresentare la Forza. Sub-basement prosegue ed evolve la scelta operata con Review your choices di portare dinamica e ritmo dentro il ferale clima doom. Per questo piacerà e non poco anche a chi segue la scena stoner, un po' a corto di idee ultimamente. Merito soprattutto del lavoro di Joe Hasselvalder che è, come sul precedente, MOSTRUOSO. E' lui a farsi carico di tutto il muro di suono in cui è immersa la voce gelida di Bobby Liebling e a caricare di fuzz ultracompresso il magma chitarristico che cola copioso lungo le pareti della camera di suono dei Pentagram, denso come sangue fertile. Nessuna concessione al metal tutto muscoli, make-up e niente cervello. Nu-metal? Non pensateci nemmeno e volgete il culo da un' altra parte.
Franco "Lys" Dimauro
SUICIDE KING/New York/Munster
Attitudine riot e ribellione suburbana, questo in sintesi lo spirito incarnato dai Suicide King nell’ultimo lavoro “New York” in cui viene omaggiata la Grande Mela con un punk’n’roll rozzo e sporco. I SK godono oramai dell’aurea di cult band in America guadagnata in tantissimi anni di vita on the road condividendo il palco tra gli altri con The Ramones, Zeke, Nashville Pussy. Qui i SK si pongono sul solco storico del suono rock’n’roll di AC/DC, The Hellacopters, e perché no anche Motorhead, con la conseguenza di seguire filologicamente la lezione ( ed è un bene) ma di stancare sulla lunga distanza ( ed è chiaramente un male). Come porsi quindi all’ascolto di “New York”? Con la consapevolezza che sarà difficile arrivare alla fine del disco senza qualche sbadiglio ma che per la prima metà, diciamo fino alla quinta o sesta traccia di undici, è un piacere ascoltare gli sferragliamenti di chitarre e batteria che animano questo disco e che ne costituiscono il cuore musicale, sonoro e attitudinale. Citavamo all’inizio gli AC/DC non a caso. Nella track di apertura “get on up” o “shadow girl” sembra proprio di ascoltare la band dei fratelli Young, quei tre-accordi-tre sempre uguali carichissimi di energia; con quel quattro quarti che è passato alla storia; più groovy-blues alla MC5 invece “i don’t think so mentre “yeah” è sixties pop-punk allegro e scanzonato. Da citare assolutamente la bella cover dei Bay City Rollers, "money honey" e la finale “black magic junkie”, la mosca bianca di tutto il disco, in cui i Suicide King aprono a soluzione proto psichedeliche. Un bellissimo intro di piano elettrico, portante per tutta la durata del brano, ricrea il mood pacato e dimesso che si respira in qualsiasi piano bar di periferia pregno di puzzo di alcool e nicotina, e funge da volano per il decollo sognante del finale a là Doors. In due parole, un bel pezzo. In mezzo scorre un fiume di sudore e rabbia che a volte scade nella monotonia, a volte si riscatta efficacemente. Per concludere, “New York” è un disco a corrente alternata, AC/DC nel vero e proprio senso della parola.
Francesco Imperato
AM/FM/Getting into sinking/Polyvinyl
Probabilmente gli Am/fm volevano realizzare un perfetto album di quello che alcuni chiamano “pop deviato”. Sorvolando sul fatto che la categoria in sé è assurda poiché i termini che la indicano sono contraddittori, vediamo che gli ingredienti atti allo scopo ci sarebbero tutti: bassa fedeltà, coretti 60’s qua e là, melodie zuccherose, timbriche fastidiose, ballads ed un’aria molto slacker (tanto, tanto cazzeggio). Peccato però che il risultato non rispecchi appieno le intenzioni. Se da un lato, infatti, la matrice pop pare effettivamente assimilata e riproposta senza particolare creatività, la componente che dovrebbe essere deviante, costituita da cori improbabili, rumorismi, ed una drum machine estenuantemente ripetitiva, sembra quasi assemblata casualmente e messa a forza all’interno dei pezzi al solo scopo di renderli “più strani”. Il disco dura quasi tre quarti d’ora, e solo in alcuni tratti l’attenzione viene risvegliata da certe soluzioni, spiazzanti ma non brillanti. Alla fine quella che permane è una sensazione, nel migliore dei casi, di già sentito.
Salvo Senia
STEVE ROACH/Streams & currents/Projekt
Musica d’ambiente per ambienti disadorni. Note di chitarra in dissolvenza. Cerchi concentrici su acque salmastre. Immobilità in movimento. Frequenze elettroniche disturbate. Disturbi mentali. Soffi palpitanti attraverso radure desertiche. Sentimenti rarefatti. Se amate la musica ambient non perdetevi questo cd. A tutti gli altri posso solo dire che secondo me lavori come questi diventano interessanti se pensati come parte sonora di installazioni artistiche multimediali o se accompagnati almeno da una parte video destinata alla fruizione domestica. In mancanza di una traccia cd-rom, l’ascolto di “Streams & currents” risulta inevitabilmente riservato agli appassionati del genere o a qualche anima in pena che va alla ricerca di nuove esperienze sensoriali. Vi confesserò che la mia disabitudine a questo tipo di sonorità non mi ha ancora consentito di ascoltare il cd dal primo all’ultimo pezzo tutto in una sola volta: quando ci ho provato, già dopo quindici-venti minuti mi è montata addosso una tale voglia di sentire urla, chitarre chiassose, piatti in frantumi, colpi di pistola, ruggiti di leoni, sirene di ambulanza, schiamazzi di fruttivendoli al mercato, tutto tranne che fruscii ripetuti all’infinito insomma, che sono stato costretto a recuperare vecchie cassette dei Sepultura per risvegliare le mie orecchie dal torpore al quale Steve Roach le aveva condannate!
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