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Music - CD Reviews - Review | by SuccoAcido in Music - CD Reviews on 01/12/2001 - Comments (0)
 
 
 
J Majesty, Starlet, Tied+Tickled Trio, Trüby Trio, Devics, Black Cat Music, The American Analog Set, Graeme Downes, New Bomb Turks, Françoiz Breut, American Steel, Remorse, Mutable, Gatto Ciliegia, Bron Y Aur, Spriggan, Semprefreski, Gatto Marte.

J Majesty, Starlet, Tied+Tickled Trio, Trüby Trio, Devics, Black Cat Music, The American Analog Set, Graeme Downes, New Bomb Turks, Françoiz Breut, American Steel, Remorse, Mutable, Gatto Ciliegia, Bron Y Aur, Spriggan, Semprefreski, Gatto Marte.

 
 

J MAJESTY/23/Some

E’ bizzarro come quattro musicisti, tutti originari di Salt Lake City, si siano ritrovati a formare una band a New York, in mezzo a circa dieci milioni di abitanti. 23, che per chi non lo sapesse è il numero di maglia indossato da M. Jordan, di cui evidentemente i membri della band sono fans, è un Ep utile a spezzare il silenzio tra il loro omonimo debutto di un anno fa ed il nuovo lavoro di prossima uscita. Dei cinque pezzi di cui è composto, “No school”, il primo brano, era già presente sul disco d’esordio. Si tratta di power rock tirato e piacevole, per quanto poco originale. I pezzi inediti, invece, mostrano una maggiore tendenza alla ballata ed alla melodia, esemplare in questo senso è “Harvest” una canzone “sul ciclo vitale di una pianta” ed altrettanto avvincente (!). Molto meglio “Foxy mamacita” un delirio di suoni elettronici su una base ritmica ossessiva che ricorda certi divertenti cazzeggi “ ‘a la kraut”, grazie alla sua ironia è sicuramente il vertice del disco, per il resto piuttosto anonimo. Speriamo che per il futuro sappiano mettere a frutto queste intuizioni.

Salvo Senia

STARLET/Stay on my side/Labrador

In barba ai puristi che non accettano remissioni di peccati, la musica vive anche di generi coniati "ad hoc" dalla stampa specializzata.Ciò che è stato, mediaticamente parlando, del grunge, del crossover-nu metal, del trip hop, e del post rock, ora è del Neo Acustical Movement (N.A.M. per gli amici) che quei secchioni dei giornalisti inglesi, New Musical Express per la precisione, hanno coniato per farci credere che ora “il silenzio è il nuovo rumore”, traducendo a piacimento il primo grande successo degli norvegesi Kings Of Convenience, capostipiti loro malgrado della nuova "big thing" europea.Per me che da tempo mi sono buttato sull’hard stoner è un po' pesante da digerire ma sarà... La presentazione che mi introduce questi svedesi Starlet cita proprio i Kings, insieme a Belle & Sebastian (scozzesi) e al N.A.M., come riferimento principale. L’approccio è quindi cauto, decido di dare tre-minuti-tre di spazio al primo brano che se non mia acchiappa subito brucio il cd!E parte “I’m home”, dimessa, confidenziale come tutto il disco, rubata al cassetto segreto di Robert Smith. Prova superata, continuo con la curiosità, confermata canzone dopo canzone, di aver scoperto in questo misconosciuto gruppo svedese un piccolo gioiello pop. Compatti e con le idee chiare come raramente mi capita di ascoltare, gli Starlet inanellano dieci canzoni di sorprendente freschezza e godibilità che consiglio a chi ha nel cuore gli episodi easy dei Cure e Rem, gli intrecci vocali di Simon & Garfunkel, la decadenza degli Smiths (“Internal affairs” sorretta da un tappeto di hammond è programmatica). Cos’altro? Che “From the one you left behind” è il debutto.

Francesco Imperato

TIED+TICKLED TRIO/Electric avenue tapes/Clearspot

I Tied+Tickled Trio provengono da Monaco di Baviera e non sono propriamente un trio, ma piuttosto un collettivo di sei musicisti comprendente fra gli altri anche i fratelli Micha e Markus Acher, membri dei bravissimi Notwist. I quadretti elettro-jazz-minimali del precedente “EA1 EA2” hanno lasciato spazio a brani lunghi e articolati, registrati in presa diretta in uno studio di Amburgo. Con “Electric avenue tapes” si ha la sensazione di ascoltare il duetto Herbie Hancock-Wayne Shorter remixato dalla Peace Orchestra (“United world elevator”), i Tortoise accompagnati da Archie Shepp (“Van brunt/van ness”) o ancora Ornette Coleman in sala prove con i Red Snapper (la conclusiva “Konstantinopel”). Le invenzioni free jazz di Ulrich Wangenheim al sax tenore e di Micha Acher al trombone sono immerse in ritmi elettronici che non risultano mai freddi o cerebrali, e sorprendentemente questo è vero anche là dove manca l’intervento dei fiati. E’ il caso dei nove minuti di “Sevastopol version”: un rumore, come di risacca del mare; un battito; poi microcellule di musica ambient; l’inserimento di scansioni ritmiche tribali; al disotto un impercettibile fruscio; infine un tintinnio disturbato da ulteriori interferenze, e quello che ne scaturisce fuori è una creatura sonora viva, in costante movimento, che avanza tra oscillazioni e improvvise spinte emotive. I Tied+Tickled Trio musicisti jazz, i Tied+Tickled Trio manipolatori elettronici, i Tied+Tickled Trio demiurghi di un suono digitale tinto di umanità.

Guido Gambacorta

TRÜBY TRIO/Dj Kicks/!K7

L’ultimo volume della serie Dj Kicks, firmato dal Trüby Trio (Rainer Trüby più i due Fauna Flash Christian Prommer e Roland Appel), è veramente cool! Ed ecco Nanni Moretti urlare indignato “Nooooo! Le parole sono importanti… Cool? Ma cosa vuol dire cool? Non si dice il Rainer, il Christian, il Roland: si dice Rainer, Christian, Roland…” Eh eh eh, caro Nanni, hai perfettamente ragione, ma prova tu se ci riesci a descrivere con un solo aggettivo questa compilation che amalgama in modo elegante bossanova, jazz ed house secondo quelle che sono le nuove tendenze in ambito dance! Il Trüby Trio ci regala una selezione di buon livello nella quale i momenti migliori sono intelligentemente distribuiti durante l’arco di tutti i suoi 78 minuti: subito all’inizio “High jazz”, proprio del Trüby Trio; più in là il groove sexy-accattivante di “Granada” degli Slowsupreme; poi il calore latino di “One and the same” e di “Colours” diluito nel ritmo che i Voom:Voom imprimono a “Ginger & Fred”; e subito dopo “Galicia”, techno ossessiva spruzzata di soul (!), ancora ad opera del Trüby Trio. L’ascolto di “High jazz” e di altri due bei pezzi, “Trascend me” degli Afronaught e “Some People” dei Korova, fa sorgere spontanea una domanda: è forse tornato di moda l’acid jazz?

Guido Gambacorta

DEVICS/My Beautiful Sinking Ship/Bellaunion

I Devics appartengono alla medesima nicchia dei Black Heart Procession, persone che fanno dell’oscurità la dimensione ideale e dalla stessa ne carpiscono tutte le sfumature possibili per poi tramutarle in dolenti ballate, in poche parole la colonna sonora ideale all’avvicinarsi della notte, ma a differenza dei “pinguini” di San Diego i Devics hanno un arma in più, questa si chiama Sara Low novella dark lady dotata di fascino e mistero, capace di essere aggressiva e sensuale, una sensualità che attanaglia l’ascoltatore trascinandolo magicamente nel mondo corvino suo e dei suoi Devics. In “My Beautiful Sinking Skip” Sara è pregevolmente seguita dal resto del gruppo che la supporta con crepuscolari arrangiamenti che sin dalla prima traccia “Heart And Hands” accompagnano la singer con delicati tocchi di carillon e pianoforte disegnando paesaggi fascinosi e inquietanti abitati da timidi sprazzi di luce che rendono il tutto “quasi” rassicurante, stesso discorso per il valzer maligno della title track, per la passionalità di “You In The Glass” e “The Man I Love” e per la ballad per piano e voce “Why I Chose To Never Glow”. Prima abbiamo accennato alla timida luce, e “I Broke Up” ne rappresenta l’unico spiraglio palpabile in un album dove ogni singolo episodio meriterebbe una menzione in particolare, ci troviamo avanti persone che rendono oscura anche la più luminosa delle giornate. Non mi sento di aggiungere altro, ora sta a voi decidere se farsi accompagnare o meno da questi menestrelli in nero. …..il buio sta scendendo…avete deciso?

Gianni Avella

BLACK CAT MUSIC/Hands in the estuary, torso in the lake/Lookout

Qualcuno li ha definiti come un improbabile ma originale via di mezzo tra Smiths e AC/DC, roba da fantascienza e da ridere, che però ci azzecca sulle coordinate stilistiche del quartetto californiano, totalmente intriso di intensissimo dark rock’ n’ roll. I Black Cat Music, qui al loro primo album dopo un paio di demo e varie partecipazioni a compilation su Lookout, realizzano un disco perverso, sanguigno, parecchio complesso. Niente punk rock solare sparato a mille, sbarazzino e teen trova spazio in questo "hands in the estuary, torso in the lake" quanto piuttosto un viaggio lungo undici tracce nelle lande più oscure dell’animo umano. A condurre questo validissimo progetto ci pensa Brady le cui melodie malate possono accostarsi, per rendere un’idea, all’anima nera di Ian Svevonius dei Make Up o alla schizofrenia del Nick Cave epoca Birthday Party. Seppure riaffiora il fantasma dei Jane’s Addiction in “ williamsburg bridge song”, sorretta da un giro di basso avvolgente che dirige i continui cambi d’atmosfera, è puro rock'n roll marcio e tribolato il marchio di fabbrica di B.C.M., sia esso bello tosto e tirato come in “the princess dress” o nella title track, sia più introverso e riflessivo, vedi “most perfect day, ever”, o “the dirty penny”, e morboso blues nella conclusiva “at the end of all...”. In definitiva, al di là delle parole, Black Cat Music si è rivelato una gran bella scoperta, non passeranno inosservati, ci scommetto.

Francesco Imperatos

THE AMERICAN ANALOG SET/Through the nineties: singles and unreleased/Emperor Jones

Questi poco più di sessanta minuti di musica basterebbero a condensare tutta la breve storia dei texani American analog set dato che, dopo quattro album ed un ep, la band non ha mutato pressoché nulla del proprio modo di suonare. Smussate le asperità degli esordi e coltivate le tendenze più pop, i cinque analogici di Ft. Worth-Austin, “licenziati” da Emperor Jones, suggellano il cambio di scuderia con questa raccolta di b sides edite su vinili ormai introvabili, singoli (pochi) e pezzi live. La qualità indubbia di una tale antologia traspare dall’agrodolce ballata “The only living boy around”, open track risalente al periodo “The golden band”, dalle note della sempre magnifica, anche in versione accorciata (radio hit?!?), di “Magnificent seventies” (che appariva in “From your livingroom…”), e dalle malinconiche suites inedite “Waking up is hard to do”, “Thin fingers” e “It’s alla about us”. “On my way” trasuda pop raffinatissimo, peculiarità della band dagli esordi, mentre l’ipnotica e psicadelica “Where did you come from” ha un retrogusto My bloody Valentine; non mancano neppure le parentesi elettroniche, di lusso! (il remix in chiave trip hop di “Don’t wake me”, dilatato ed estatico sottofondo sonoro). Senza nulla togliere alle conclusive tracce live, risalenti alle sessions dell’ottobre 1997: una fusione (direi, anzi, un medley ultradilatato) di pezzi dei vari album che offre momenti irresistibili ed elettrizzanti (“Gone to earth”), divagazioni psicadeliche (“Mellow fellow”), ovattati sofismi pop che ricordano i Galaxie 500 più intimisti (“Two way diamond”, con tanto di voci di pubblico, noncurante e maleducato, in sottofondo) e tenere svisate folk dai lineamenti spettrali (“ii”). Senza ombra di dubbio “Through the nineties” rappresenta un valido compendio per una band che, pur restando nettamente in ambito underground, ha saputo, in questi ultimi anni, farsi ben volere da critica e musicofili.

Filippo Boccarossa

GRAEME DOWNES/Omonimo/Matador

Disco d’esordio per Graeme Downes, leader nei neozelandesi Verlaines che tra gli anni ’80 e metà dei ’90 hanno rappresentato il rock di punta di questo lontano arcipelago. Storia con forti discontinuità quella dei Verlaines, per diversi anni in trio e solo nell’ultimo periodo quartetto, psicologicamente dipendenti dal personaggio di Downes la cui leadership incontrastata ha da sempre influito sulle scelte della band. Leggendari nella storia dei Verlaines sono rimasti lo stop forzato per permettere a Downes di terminare un dottorato di ricerca, così come lo scioglimento definitivo del gruppo per una cattedra, accettata dallo stesso, all’Auckland Institute of Technology. A distanza di ben quattro anni il cantautore neozelandese ritorna in pista e lo fa nel più poetico dei modi, concependo questo album, frutto di due anni di lavoro, che racchiude buone canzoni musicate complessivamente con gusto. Sin dalla title-track, Downes mette a nudo la sua arte compositiva fatta di una voce solitaria da moderno ‘crooner’ e una chitarra, spesso accompagnate da un piano e una batteria campionata. Il disco ondeggia in modo equilibrato tra reminescenze indie (su tutte, “cattle, cars and chainsaws” perfettamente ponderata tra ritmiche percussive e aperture melodiche = grande noise, e “ day of the dead” che sembra rubata al repertorio dei Pixies), momenti cantautoriali più introversi e acidi come la splendida “song for a hollywood road movie” e “ Gucci” (si riferisce per caso al noto stilista??!!), incursioni jazzy per la verità di dubbio gusto come “coal porter” e “ mastercontrol”. Fa di tutto un po', Graeme Downes, assaggiando vari terreni e mostrando tanto eclettismo compositivo che a volte perde la strada di casa. Buona la prima.

Francesco Imperato

NEW BOMB TURKS/The big combo/Dropkick

Oh cazzo! I New Bomb Turks a raccolta: una bomba. Una manciata di covers ("Feel it" dei Motorcycle Boy, "Jivin' sister Fanny" degli Stones con Fifi dei Teengenerate alla lead guitar, "Job" dei Nubs, "Fuck it" dei Left" e "Eyes of stan" dei Pagans con i fratellini Hellacopters ai cori, NdLYS), qualche b-side e alcuni estratti da "Scared straight" e "At rope's end" a completare questa antologia messa su mentre il gruppo si preparava a dare alle stampe l'ultimo "Nightmare scenario" (in formazione c'era ancora il grande Bill Randt). Un disco che te lo ficchi dentro e ci viaggi l'America a tempo record. Veloce e tosto come una palpata di chiappe sulla metropolitana. Rock 'n roll giovane e triviale che non "lima" un cazzo, sputato fuori con la stessa ingordigia con cui i quattro di Colombus hanno inghiottito per anni Germs, Avengers, New York Dolls e Heartbreakers. Va giù d'un fiato, come una buona bottiglia di tequila, lasciandoti lo stesso alito da mangiafuoco e lo stesso sorriso beone da rincoglionito in bermuda e camicia hawaiiana. Paola Perego che si masturba con un vibratore a 380 volts. Non credete a chi vi dirà una sola parola in più su questo disco costringendovi al solito pallosissimo e ritrito girotondo di nomi, rimandi, ricordi e cazzate assortite: andate dal vostro negoziante, tiratelo fuori dal mucchio e portatevelo a casa. Stop.

Franco "Lys" Dimauro

FRANÇOIZ BREUT/Vingt à trente mille jours/Bella Union

Ci sono opere che, dopo un primo positivo impatto, in seguito perdono il loro potere evocativo e deludono. Tutt’altro, con “Vingt à trente mille jours” di Françoiz Breut. Qui, dopo l’incanto iniziale, i ripetuti ascolti successivi sono una piacevole conferma, e consentono di scorgere aspetti che in un primo tempo restavano nascosti. Splendida voce, innanzi tutto, profonda e sincera. Atmosfere cariche di pathos e talvolta non prive di una certa ironia. Non mancano arrangiamenti sofisticati, cari a bands come Tindersticks e Calexico (c’è anche Joey Burns, voce recitante in una bella versione della classica “Chanson d’Hélène”), ma anche cose più sghembe alla Tom Waits, qualche apertura orchestrale e momenti di rarefazione che ricordano certi paesaggi sonori dei Portishead. Ma, soprattutto, si è in presenza di canzoni belle e ricche di sostanza, e qui il merito va a Dominique Ané, compagno della Breut e autore di quasi tutti i brani. Un disco che finora è passato un po’ inosservato, ma che sarebbe imperdonabile non degnare almeno di un ascolto, anche se potrebbe risultare fatale.

Guido Siliotto

AMERICAN STEEL/Jagged Thoughts/Lookout

Il punk rock californiano è in cerca di nuovi orizzonti e la storica Lookout, in prima fila in questo processo di ridefinizione degli stilemi del genere, punta parecchio sui californiani American Steel che con “ Jagged Thoughts” giungono alla seconda release. Il precedente “ Rogue’s March” si era distinto tra i migliori album pubblicati dall’etichetta americana nel ’99, alla cui uscita era seguito un massiccio tour dei nostri in compagnia di Murder City Devils, Alkaline Trio e Mr. T Experience. Un successone. Non si può dire lo stesso di quest’album carino, ascoltabile ma senza tante pretese, che indulge tra tentazioni di hit radiofonici, vedi la prima, irresistibile “Shrapnel”, e continuità ideologica con le radici punk. La coperta però è sempre troppo corta, e tira da una parte e tira dall’altra il rischio serio è di non far quadrare mai il cerchio, che è quello che hanno fatto gli A. S. concependo un album che non è né carne né pesce, o che è lo stesso, un album che è di tutto un po'. American Steel non osa andare oltre una riproposizione di frammenti sixties più di forma che di sostanza (“lonely all the time”), punk rock bello tirato e qualche slancio emocore (“ rainy day” e “A new religion”). Dategli un’ascoltata se vi capita, altrimenti fa lo stesso.

Francesco Imperato

REMORSE/Balance of visions/NoBrain

Acclamatissimo ritorno della band veneta a tre anni di distanza da “Handle With Care”, alla cui pubblicazione seguirono tour italiani con Burning Heads, Raw Power, Extrema e svariate partecipazioni a compilation. I Remorse continuano sul solco hardcore a tutto tondo, senza distinzione tra old o new school, anzi, loro precisano suonare hardcore all school. L’attaccamento al primo amore è ben evidente nella prima “fear by myself”, nelle cover di “state oppression” dei Raw Power, direttamente cantata dal singer originale Mauro Codeluppi ma i Remorse vanno oltre la uniforme monoliticità del genere e si aprono spesso e volentieri a soluzioni ritmiche più dinamiche (“ face scored with scars”, “silence kills”). Un disco nel continuum della tradizione.

Francesco Imperato

MUTABLE/Meatballs FlyingUnderground/Snowdonia

“Nel polo volano polpette sotterranee...” chi l'avrà mai detta? Duchamp in pieno delirio dada? Un Leary inacidito? O forse il Professor Mantegazza dopo i postumi del Vin Mariani? Niente affatto...la criptica sentenza fu pronunciata dall'ex presidente del consiglio Prodi quando il primo governo della sinistra si trovava agli sgoccioli...non c’è che dire: è incredibile quanto gli artisti più visioniari e deviati in Italia possano ispirarsi alla fonte inesauribile di politicanti e governanti...i Mutable se ne sono accorti, le loro menti ancora vibranti all'unisono con le avanguardie prodiche, musiche da cinema italiano pulsanti di Stereolab, elettroniche dei poverelli dall’efficacia disarmante, gli Starfuckers ubriachi dopo la vendemmia, le cervella di Fausto Balbo ammassate sul pavimento. E’ un disco che al primo ascolto lascia spiazzati, questo dei Mutable, perché tutte le influenze sopra elencate si ritrovano esplose - e in seguito ri-combinate ed eseguite - in modo pressochè aleatorio. Ma attenzione, perché quello che all’inizio pare un disco fragile e poco equilibrato lascia pian piano trasparire - ascolto dopo ascolto - un calore e una dolcezza senza pari nell’attuale underground italiano, nonché una compattezza e un controllo sul lavoro finito davvero frutto di una grandissima classe. Naif come ogni prodotto Snowdonia, i Mutable si propongono come pezzi d'arredamento ideali per camerette ammuffite, tane sfocate di mille slackers dell’ombra, fumanti e brufolosi. Citare i pezzi migliori? Impossibile. Vi potrò dire che “Melody Recliner” - pop infinito sporcato di piccoli rumori – beh non ci si stancherebbe mai di ascoltarlo, oppure che “Playmate” è la più grande composizione italiana di avanguardia rock dai tempi di Sinistri degli Starfuckers, o che i ritmi quadrati di “Terso” si incrociano con giri tortuosi alla Tortoise (che gioco di parole ragazzi), che “Dio, Questo Sconosciuto” è l’apologia di Radio Maria, che c’è di tutto qui dentro, da Cage a Eather Parisi. Piaciuto non poco anche a RockIt è stato ingiustamente snobbato da altri, ma non stateli a sentire…questo “Meatballs…” è senz’altro uno dei dischi italiani dell’anno.

BakuniM

GATTO CILIEGIA/Contro il grande freddo #2/Beware!

Come attraverso un rituale di passaggio, il Gatto si presenta con pochi secondi di ritmiche industriali per portarci in realtà in un ambiente saturo di geometriche melodie e strumentali tesi a scomparire e riapparire attorno ad uno stesso tema dilatato e contratto nei tempi finiti delle 13 tracce. L'impressione è che esista un'idea di fondo che si articoli ed esprima nel cd nella sua totalità. Musica che appartiene ad ogni luogo, che occupa ogni angolo di spazio disponibile, minimale ed intensa come scatti estemporanei estrapolati dalla nostra quotidianità. Come ricordarsi od accorgersi all'improvviso di gesti che ogni giorno ci scivolano via automaticamente, momenti con un'estetica propria, che passano spesso inosservati, ma che compongono la nostra esperienza.Post...

Andrea Pintus

BRON Y AUR/Between the 13 & 16/Beware!-Burp, Wallace

Ha basi concettuali nell’improvvisazione tout court il nuovo capitolo dei Bron Y Aur, licenziato stavolta dalla sacra triade Burp, Wallace e Beware. E l’esperimento è pienamente riuscito a giudicare dalla freschezza con cui queste otto tracce scorrono e si sviluppano nei tortuosi gran canyon del free rock. Ad un primo ascolto sembrerebbe che i Nostri abbiano compiuto una svolta netta rispetto al primo omonimo disco che trasudava di psichedelia ma a ben ascoltare i due dischi sono legati a filo doppio almeno nei punti di partenza (psichedelia e free form) per poi approdare su terreni-altri. Scorci di una matrice seventies sono ancora ben visibili nella lunga ma inesorabile evoluzione di “ Das Ure Loch” e nell’arpeggio di chitarra acustica ( sembra un campione preso da un qualsiasi disco degli Zep tanto è rappresentativo )che si fa strada, a forza, nella settima traccia-dal-titolo-impossibile-da-scrivere, tra le incursioni dei fiati monotonali di Andreini e Ricci, ma sono solo le ultime resistenze ad una metamorfosi che con lo scorrere del disco richiama agli ultimi Don Caballero o agli A Short Apnea, per rimanere a casa nostra. Non a caso, dietro il mixer siede Fabio Magistrali che degli ASA è lo smanettatore principale. Metamorfosi quindi che avviene lasciandosi semplicemente andare, e il risultato si “porta il cervello” con estrema naturalezza e serenità. “Between..” si dispiega piano piano, si srotola con la stessa piacevole lentezza con cui, ad esempio, si aggiungono i tanti piccoli particolari che fanno bello un quadro.

Francesco Imperato

SPRIGGAN/Doormate/Edwood

Doormate è l’ennesima conferma, di come la scena noise catanese abbia, col tempo, raggiunto caratura e peso di livello internazionale; una via alternativa ad un suono che in tanti casi è già stereotipo, ma che nella provincia etnea ha dato vita a realtà uniche, apprezzate anche, e soprattutto, oltreoceano (retorico ricordare gli Uzeda su Touch & Go). E questi ragazzi di Acireale offrono nel proprio esordio, il personale tributo all’asse Shellac-Slint-Fugazi. Facendolo nel migliore dei modi: cavalcando accordi saturi con la capacità seduttiva di chi usa gli strumenti come protesi estrema del proprio corpo (valga per tutti il trittico d’apertura, già edito: Welcome, Doormate e A lost chance); fratturando il ritmo in continue variazioni di tempo ed umore; costruendo percorsi lunghi e tortuosi che da Ian McKay, approdano ad una sorta di moderna, ipnotica, pschedelia, che personalmente ricondurrei ai Motorpsycho (Boogie’s girlfriend) o ai June of ’44 (A few minutes). Serio, competente e maturo: un esordio eccellente. Un gruppo come gli Spriggan potrebbe appartenere, tranquillamente, alla scuderia Dischord, invece di sbattersi per trovare un’etichetta sull’ingrato territorio patrio.

Alessio Bosco

SEMPREFRESKI/Ci vediamo all’inferno/Gonna Puke

Allora, questo disco è come avere il cervello al posto dell’acceleratore in una fuoriserie! Spinge, spinge, spinge che è una potenza dalla prima alla sedicesima canzone, e io godo, godo, e stragodo ancora! Il lettore ciddì è fuso, il disco ormai è ridotto ad una poltiglia di plastica puzzolente e penso che metterò tutto in conto a questi cinque palermitani ma benedetto il giorno che mi hanno recapitato ‘sto disco! E’ il secondo che fanno, a distanza di due anni dal primo ma di eoni nella qualità! Quello era un bel disco di punk rock, questo è una ordigno di punk rock scuola Descendents e Angry Samoans, lercio e sudicio come una qualunque piazza dopo il mercatino, suonato a mille, con i pezzi attaccati l’un l’altro, registrato alla grande e con una furia dentro spaventosa, un’onda d’urto deflagrante! E c’è pure..sshh..si alla fin.. e zitto! Altrimenti non c’è piacere, e che cazz..! Vabè, tornando a noi.. Se ancora non avete avuto il coraggio di gridare in faccia alla tipa che vi fa sbavare “Stai ancora con quel pirla” allora vomitategli in faccia il testo di questa canzone e la sveglierete da un lungo sonno, se dove vi date una ‘punta’ con gli amichetti vostri ci sono delle presenze fastidiose o puzzolenti o entrambi, tipo freak e mangiatori di fuoco, allora “Bongoloide” e “Dread” saranno le vostre armi per fare allontanare loro con cani, scimmie, tamburi e tutto; o se semplicemente volete fare i tochi e consolare la pischella che vi viene a chiedere una spalla di conforto (salvo poi tutto il resto), mettete su “Non devi piangere” di Alberto Camerini resuscitata dai Semprefreski e se non ve la da io mi faccio monaco! E se ancora non vi basta, accattatevi u ciddì così loro ne possono fare subito un altro con la stessa acidissima copertina, gli stessi testi scorretti, le stesse fighissime foto!

Francesco Imperato

GATTO MARTE/Pieroino/A&R Production

L'Italia canora è piena di felini: ci sono felini che nessuno ricorda, peraltro giustamente, (Gatto Panceri), felini abnormemente sopravvalutati dalla stampa nazionale (Gatto Ciliegia), gatti autocompiaciuti (My Cat is an Alien) e poi ci sono i Gatto Marte che non esiterei a tenermi in casa sul divano, anche se guardandoli sul retro-copertina non sono proprio delle Pussycat, sembrano piuttosto sei gattoni di strada dall'aspetto poco curato, insomma non è gente che perde il proprio tempo dall'estetista questa...Se c'è un CD per cui battersi con il coltello tra i denti in questo momento è proprio "Pieroino". Diciamoci brutalmente la verità: questo disco non venderà una mazza perché siamo un paese di merda in un pianeta di idioti. Provate a guardare il sito di www.rockit.it, qualcuno ha lanciato un referendum sul miglior disco italiano, ebbene ci sono state oltre 100 risposte...voi direte: chissà quanti nomi, adesso vado a dare un'occhiata! Ma dove andate dove? Leggerete per 100 volte: Afterhours, Estra, Cristina Donà. A prescindere dal valore di questi musicisti io penso: come cazzo si spiega tanta uniformità di gusti? Tanta pecoraggine nel seguire quel che è ufficialmente "alternativo" (con tanto di bollo WEA)? La verità è che stiamo allevando una generazione di idioti con il mondo a portata di click e tutti a blaterare di Mp3...ma l'Mp3 non doveva far aumentare le proposte? Liberare la musica dal bieco sfruttamento commerciale? Diffondere la cultura a 360 gradi? Tutte balle, una volta c'era magari quel commerciante di dischi che dall’alto della sua esperienza ti consigliava qualcosa di "nuovo", "bello", "stimolante" ecc...adesso questi ragazzini imbecilli sono soli davanti ad uno schermo a scaricare o la canzone di qualche spot pubblicitario o solo quello che viene pompato da chi ha più soldi. Chi ha tanta forza interiore e curiosità per muovere il culo e andare, come si faceva una volta, a cercare dischi come questo capolavoro (e la parola non è eccessiva) dei Gatto Marte? Tu adesso leggi questa rece e nel migliore dei casi andrai a cercare l'MP3 in rete, non lo troverai e bon, passiamo al prossimo. Il risultato sarà solo perdere l'occasione di ascoltare un CD bello come le migliori prove della Penguin Café Orchestra, sperimentale come Renè Clair nel periodo dada, poetico e malato come il Rohmer di "Pauline alla spiaggia". I Gatto Marte sono innamorati dei propri strumenti, li accarezzano, fanno correre le note avanti ed indietro nello spazio e nel tempo (perché solo i fessi vivono solo il presente): i film di Alberto Sordi, le colonne sonore di Rota, gli spogliarelli filmati da Jesus Franco.Emozione allo stato puro.

Fanfarello

 


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