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Music - CD Reviews - Review | by SuccoAcido in Music - CD Reviews on 01/11/2001 - Comments (0)
 
 
 
Elysian Fields, Badly Drawn Boy, Bonnie Prince Billy, David Singer, Fuck, Exilia, Missselfdestrrruction, Narcolexia, Alibia, Proteus 911, Quadraphonic.

Elysian Fields, Badly Drawn Boy, Bonnie Prince Billy, David Singer, Fuck, Exilia, Missselfdestrrruction, Narcolexia, Alibia, Proteus 911, Quadraphonic.

 
 

ELYSIAN FIELDS / Queen of the meadow / Flower Shop

Ci può essere inizio migliore per un disco? "Black Acres" è una di quelle canzoni che farebbero diventare un santo anche Totò Riina: un vero melodramma da night club, un night pieno di fiori e odori: viola celeste, l'anima di Julee Cruise (ma anche di Jessica Rabbit) alla voce, è come stare a piedi nudi su un campo d'erba, accarezzato dalla dolce brezza della primavera. Tutto è terribilmente serio in questo disco, gli arrangiamenti rigorosi, il viso di Jennifer Charles ti fissa tetro dalla copertina, sembra buttarti addosso tutte le colpe del mondo. Francamente non so se si tratta di atteggiamento paraculo, il manager protrebbe averle detto: "Jennifer, fai a faccia feroce". Comunque la ragazza è indubbiamente dotata di un discreto songwriting, la sua vocina sensuale, da gattina morta riesce quasi ad emozionare una vecchia canaglia come me, specialmente quando al posto delle onnipresenti spazzole che fanno tanto fumoso e fatiscente, si sostituisce un bel 4/4 d'altri tempi e così "Bend of Mind" finisce per somigliare alla Siouxie di Slowdive e rimane il miglior pezzo del disco, sicuramente una spanna al di sopra di "Tides of the Moon" che è in fin dei conti una ballatina che piacerebbe anche ai Vj di Mtv. Vorrei ulteriormente bestemmiare dicendo che "Hearts are open graves" è rock americano classico, appena celato da un arrangiamento delicato ma quell'andamento ritmico mi ricorda perfino Bonnie Tyler. Insomma se volete comprare questo disco compratelo, io al settimo pezzo comunque sbadigliavo alla grande.

Fanfarello

BADLY DRAWN BOY / The hour of the bewilderbeast / Beggars Banquet

Da un po’ di tempo si parla della nuova scena rock inglese, una fucina di talenti nutrita a pane e folk e ispirata dalle risacche psichedeliche fine sixties. Per prima è venuta la Beta Band, con tre E.P. e un album da Monty Python in acido (e in questi giorni è uscito il secondo, bellissimo lavoro), poi una miriade di gruppi più o meno interessanti, gli Arnold, gli Ultrasound, gli Electric Fries, i Super Furry Animals (anche loro tornati di recente sulle scene con l’ottimo ‘Souljacker’). Mancava il talento principale, quello una spanna sopra gli altri, ed ecco arrivare questo “ragazzo disegnato male”. The hour of the bewilderbeast è il suo secondo lavoro, dopo un primo album passato inosservato, ed è un album perfetto. Dà l’idea di un taccuino pieno di appunti e abbozzi deliziosi, trovati casualmente in qualche cassetto polveroso o nei vicoli sporchi della vecchia Londra. La chitarra accenna timidi arpeggi e la voce segue insicura, come se avesse paura di essere sentita. C’è quest’aria di calda intimità, nei pezzi più dolci (Pissing in the Wind e Once around the block) come in quelli più collassati, e gli interventi degli altri strumenti rafforzano questa sensazione ‘amichevole’ (tra gli amici convenuti ci sono anche i ‘Doves’, autori lo scorso anno del magnifico ‘Lost Souls’). Alla fine ci si appassiona, alle storie di Badly drawn boy e alle sue canzoni strascicate. C’è un’anima, dietro queste canzoni strascicate. Non so se appartengono alla nuova scena rock inglese, e non so nemmeno se esiste, questa scena. Francamente non mi interessa. L’importante è che venga fuori buona musica, e quest’album ne è pieno.

Isidoro Meli

BONNIE PRINCE BILLY / Ease down the road / Domino

Poche righe per parlare di Will Oldham...bell’impresa…beh, precisiamo due cose innanzitutto: Oldham è stato forse il cantautore folk più importante e più influente di tutti i 90’s. Con lui il suono della tradizione americana più classica, che va dal country al folk passando per Leonard Cohen, Johnny Cash, Neil Young, è tornato incredibilmente ad essere d'attualità. Attenzione però: la sua non è stata un'operazione di ripescaggio in senso 'innovativo', ovvero di adattamento di una certa tradizione a suoni e strutture contemporanee. Egli ha semplicemente arricchito strutture classiche - prese pari pari - con elementi insoliti, nuovi, originali. E ve ne sono due in particolare: la 'sua' voce, e i 'suoi' testi (entrambi inconfondibili). Iniziamo dunque con la prima. E’ evidentissimo: Will Oldham è stonato. O meglio, 'sceglie deliberatamente di stonare' (perché a volte la voce la tira fuori, e come...). Ma ragazzi, qui non si parla di No-Wave o Post-core, generi o sotto-generi dove la stonatura e l'esecuzione vocale 'strana' sono all'ordine del giorno... qui si parla di folk classico! Egli non stona pezzi disarticolati, furibondi e sperimentali, ma canzoni che si potrebbero considerare piccoli classici della canzone d'autore americana...e con che classe…Non si sa come, ma la sua voce non risulta mai sgradevole. Anzi...Proprio questa peculiarità nel cantato porta l'ascoltatore ad andare oltre la 'melodia', per scovare i piccoli singhiozzi e l'intonazione particolarissima con cui Oldham si posa sulle strutture semplicissime e quasi 'minimali' dei suoi pezzi. Nei testi ritroviamo poi un'altra sua dote, ovvero un'intelligenza lucidissima: le sue parole sono uno sguardo intimista sull'umanità tutta, personaggi senza collocazione sociale o storica, soltanto analizzati alla luce dei legami che li relazionano ad altri individui (in particolare il partner e i familiari) ad essi correlati. Se i più critici troveranno da dire sulle musiche, di sicuro pochi potranno negare la bellezza, la forza visionaria e la capacità d'introspezione presenti nelle sue liriche. Bene, fatte le giuste premesse possiamo ora dare spazio al presente: l'ultimo lavoro di Oldham è Ease Down The Road, uscito a marzo, ed è un disco splendido. E' sempre il solito Bonnie Prince Billie di I See a Darkness, solo meno malinconico, più 'sereno'. Di certo più vicino che mai al country (Ease Down The Road), e abilissmo nel confezionare melodie immortali (King At Night), splendidi controcanti (At Break of Day) e delicate sonorità quasi celestiali (Careless Love). Come al solito un disco unico, come unico è il suo autore, un personaggio immerso nel periodo d’oro della sua carriera, ma che nel frattempo è già diventato un classico…davvero imprescindibile.

BakuniM

DAVID SINGER / The cost of living / Deep Elm

Se vi siete trovati a vostro agio tra le stanze di "Figure 8" (Elliott Smith) e "The movement towards you" (Jett Brando) gradirete di certo una capatina tra le accoglienti mura di "The cost of living". Il rifugio è modesto ma arredato con gusto sopraffine, mobili d'epoca (diciamo....la Liverpool del 67/68?) e in qualche vano anche moderne tappezzerie assortite (diciamo..gli Eels strambi di "Beautiful Freak"??). David Singer è un pacioso ragazzone di Chicago, armeggiatore di strumenti tra le fila dei Kid Million e ora alle prese con questo suo primo lavoro solista. Ha una capacità di scrittura misurata ma efficace in cui l'introspezione tipica di certe produzioni emo viene smorzata da un taglio pop deciso che rievoca certe delizie inglesi dei tardo sessanta (i Beatles dicevo ma anche certo Dave Davies e John's Children, NdLYS) e capace di donarci gioiellini come "That' s not me". Magari un paio di episodi peccano di eccessiva autoindulgenza ma è probabile che il prossimo disco su cui David pare stia già lavorando e in uscita sempre per Deep Elm possa fugare i dubbi residui e donarci la grande classe di questo nuovo folksinger della generazione modem-connected.

Franco "Lys" Dimauro

FUCK / Gold bricks / Homesleep

I Fuck fatti a pezzetti. Proprio loro che di questo vivono, di tasselli schizofrenici di pop malfermo a metà tra Pavement e Guided By Voices. Gente a cui se chiedi di farti un pezzo che vada oltre i quattro minuti ti tiene il muso per un mese ma che sa scrivere una pop song perfetta anche con in mano solo un rastrello e un cucchiaio da caffè. "Gold Bricks" ovviamente ne è pieno. Belle pop songs lunatiche come i proprietari, che ti piangono addosso (il Lloyd Cole in camera coi Red House Painters su "Flapper", "Beauty remains" per solo basso e chitarrina, "Blind Beauty") o che ti scaricano monodosi di adrenalina giocando con giri di accordi micidiali ("Hide Face", "Situation", "Brazen") o con soluzioni irriverenti ("Agent 389", la cover di "She' s a rainbow" con tanto di cameo finale di Arthur Lee, le trombette di "Me so horny"). Geniali nella loro semplicità disarmante, le canzoni dei Fuck ti si appiccicano addosso come quelle chewing gums che stanno in agguato sulle panchine e che, tuo malgrado, ti diventano compagne di giornata. Un disco a corredo della loro discografia "maggiore" ma con pari dignità se non, oserei dire, superiore. Un (ap)plauso alla Casa che Dorme.

Franco "Lys" Dimauro

EXILIA / Rightside up / Nitelite/Universal

Produzione totalmente italiana ma dal taglio anglosassone per il primo album dei milanesi Exilia, un lavoro realizzato per attirare le attenzioni di un pubblico certamente non di nicchia, ma a mio parere destinato a ricevere maggiori consensi all’estero che non in Italia, vista l’endemica arretratezza nostrana nel cogliere le tendenze commerciali al di fuori dell’ambito delle discoteche. Lo stile di questa band s’inserisce a pieno titolo in quel territorio del rock dove energia e melodia tentano di fondersi, che è stato esplorato con successo, durante gli anni novanta, da gruppi statunitensi come gli Skunk Anansie, od europei come i Guano Apes ed Anouk. Il parallelo fra queste formazioni e gli Exilia è giustificato anche dalla presenza alla voce di una “front woman” dalle doti canore non indifferenti, capace di interpretare ed assecondare le esigenze di spartito e di aggiungere ai pezzi le giuste vibrazioni emotive. La prima metà dell’album, grazie in particolare ad alcuni episodi come Keep on Breathing, Rightside up ed Excuse me, lascia intravedere con più chiarezza le buone potenzialità del gruppo gruppo, sfruttando con intelligenza l’alternanza di alti e bassi energetici che questo genere musicale offre all’orecchio dell’ascoltatore. La seconda parte, introdotta da una cover di Venus delle Bananarama, risente forse di un’eccessiva ricerca della melodia e della “orecchiabilità” dei pezzi, che a tratti (Always with Me, Not Me) rischiano di sedare le buone vibrazioni della prima parte. In definitiva, se nella loro prossima uscita discografica gli Exilia sapranno sprigionare senza timori la carica che in questo cd hanno lasciato soltanto intravedere, potremmo trovarci davanti ad una band “da esportazione” di tutto rispetto.

Roberto Baldi

MISSSELFDESTRRRUCTION / Asimmetrica / Snowdonia

Ennesima uscita per la messinese Snowdonia, questa volta meno folle e caleidoscopica che in passato. I campani Misselfdestrucion sono autori di un onesto indierock (NO-ise-Wave?) con nessuna pretesa di sperimentazione, almeno me lo auguro, che potrebbe interessare tutti gli appassionati del genere…La musica, caratterizzata da chitarre vetriolitiche, accelerazioni, rallentamenti e bruschi cambi di tempo, è fortemente debitrice dei Sonic Youth del primo periodo, e non convince appieno a causa dell’eccessiva durata del disco, 64 minuti per 27 tracce, per cui alcune soluzioni risultano inutilmente ripetitive e monotone, oltre che già sentite. Tuttavia una decina di pezzi, tra i quali in particolare “Cingolato” e “Ultraviolenta”, si eleva notevolmente sopra la media e si ascoltano con piacere.

Salvo Senia

NARCOLEXIA / Transizioni / NLX Project/99 Rec.

Napoli. Fisiologica fucina di dramatis personae. Ce l’hanno nel sangue. NLX Project (etichetta del gruppo) e 99 Records congiuntamente producono questo mini cd dei Narcolexia. Transizioni è un rischioso tentativo di far coesistere, globalizzare materiali sonori già prosciugati a dovere in questi anni: techno, jungle, punk italiano. Passano due anni dal loro primo cd Sovraccarico Sensoriale e dal primo video Danza; due anni di concerti (circa duecento) e di sbattimento: esibizioni live a metà tra rave (e ci credo!) e spettacolo fisico ed impattuale. Macchine, percussioni, chitarre. Una voce sovente sopra le righe, per usare un eufemismo. Facciamo una specie di Robert Smith brutalizzato da un branco di coniglietti di peluche, a più riprese e per tutta la notte. L’attitudine è punk derivativo, ma la sostanza è un new glam magari inconsapevole e trasversale, andando da un rifferama alla Tigertailz (ma forse neanche li conoscono) al mood clamoroso…stile Pulp. Le canzoni: Fuori confine, dominata da un tratto mediterraneo, per non dire partenopeo, soggiacente alla techno tradizionale; jungle potente alla Ministry domina In apnea. Le covers: Salgalaluna (Manonegra), epurata da una visione impietosa. Morire (CCCP), non malissimo, anche se...Produci consuma crepa, sul tecnopunk caciarone è quasi un inno più che vivo spasmo, disagio sputato tra i denti serrati, come era ab origine.

Joele Valenti

ALIBIA / S/T / CNI

Ammetto di essere sempre stato un po’ prevenuto nei confronti del rock tricolore ed in particolare della scena pseudo-indie di Subsonica ed affini. Gli Alibia non mutano le mie posizioni a riguardo, inserendosi a pieno titolo proprio in quest’ultima categoria: voci e testi enfatizzati oltre misura, resi ancora più stucchevoli dall’alternanza maschile/femminile; produzione levigata e furbetta, molto attenta all’effetto speciale; chitarroni ed elettronica a braccetto in un nefasto incrocio tra Estra e Ustmamò. Limando certe asperità, poco adatte alle radio italiane, in futuro potrebbero aspirare al successo commerciale. Personalmente preferirei non dovermi più confrontare con loro. Ma in fondo, come dicono loro: “La verità è come un riflesso/è pura apparenza”. Sanremesi.

Alessio Bosco

PROTEUS 911 / Sinfonie dal Mondo delle cose perse / Ungry

La cover viola-nero del cd dà una certa idea da quale background il gruppo della Basilicata provenga…cinque tracce strumentali, soffici, liquide, basse, che guardano ai Mogwai, a quello che si diceva post-rock, più opportunamente, post-wave, che a tratti alzano la testa, ma senza esagerare. Purtroppo rimangono alcune pecche nella registrazione, a volte si perdono i medi e gli alti. Formazione a tre, batteria, chitarra/voce e basso, di impronta prettamente melodica ed intimista, che mostra delle potenzialità, ma ancora dei cliché.

Andrea Pintus

QUADRAPHONIC / Sei paesaggi nella pioggia / Autoprodotto

Scheggia impazzita proiettata su linee di erranza. E' il bassista dei Finisterre (Band Prog.) al suo secondo lavoro, che segue di un anno “Tecnicolor 2100”. Questo mini Cd (tiratura limitata) è progressivo, paziente ordito di rumori operato attraverso una fosca bruma autunnale. Profondamente autunnale. Elettricità per lo più. Che si fa paesaggio, Landscapes lunari. Negli esili suoni che si librano riconosciamo un incerto equilibrio poesia/rumore. Ciò che mi piace di questi ventitré minuti è il saggio gioco alla sottrazione, oculato, perpetrato con la potenza evocativa di un cineasta e una gioia per l’attesa zen: mantra fragile fatto di percussività elusive, dove ad una certa viscosità erotica subentrano-intorno al 14° minuto scosse elettrostatiche da paura (ascoltatelo in cuffia e poi guardatevi i capelli allo specchio!). Accelerazioni cardiache da ipocondria (sono pronto a giurare che sia un cuore il bum-bum in sottofondo) fughe gassose e un inquietante frinire da campo notturno. Paesaggi plumbei sotto una cappa satura di elettricità. Contatti: spirals@libero.it

Joele Valenti

 


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