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Music - CD Reviews - Review | by SuccoAcido in Music - CD Reviews on 01/11/2001 - Comments (0)
 
 
 
Swell, Queers, Strike Anywhere, Milemarker, Thalia Zedek, Sonna, James William Hindle, Mercury Rev, 500ft Of Pipe, Marmoset, My Own, Leonard Cohen, Superchunk, Pleasure, Tool, Geoff Farina, The Clean, Polar Aim, Groove Armada, Eva Kant, Burning Airlines.

Swell, Queers, Strike Anywhere, Milemarker, Thalia Zedek, Sonna, James William Hindle, Mercury Rev, 500ft Of Pipe, Marmoset, My Own, Leonard Cohen, Superchunk, Pleasure, Tool, Geoff Farina, The Clean, Polar Aim, Groove Armada, Eva Kant, Burning Airlines.

 
 

SWELL / Feed / Beggars Banquet
SWELL / Everybody wants to know / Beggars Banquet

Un divanetto imbottito, un tavolino con sopra un portacenere e un vasetto di senape, una vetrata con l’insegna: l’interno di un bar o di una tavola calda, questa la foto di copertina dell’ultimo ep degli Swell. Il ripiano lucido del tavolino e lo schienale blu del divanetto sono asettici, freddi, quasi innaturali, ma la luce che penetra dalla vetrata sembra portare con sé i colori e i rumori della strada. Rumori, suoni, melodie: le schegge nervose che punteggiano Feed e Like poverty, grida di bambini compresse nel tessuto ritmico di Glad to be alone, gli arpeggi chitarristici di Someday always comes, note di pianoforte nella stupenda …a velvet sun. La voce di David Freel si insinua tra le pieghe della musica per poi emergere, seduce l’ascoltatore per poi ipnotizzarlo. Meno di trenta minuti di musica, ma tutti di grande fascino: gli ascolti si susseguono ed ogni volta nuovi suoni ti catturano e nuove parole ti si incollano addosso. E mentre riascolti …a velvet sun osservi un’altra volta la foto di copertina e ti accorgi che il vasetto di senape sul tavolino è mezzo vuoto. Come in un racconto di Carver: quando nell’assenza puoi trovare il segno di una presenza, quando cogli la complessità delle cose semplici, quando dietro la banalità di un gesto si cela un desiderio impossibile. Un vasetto di senape semivuoto… e io voglio un sole di velluto.

E’ bene dirlo subito: Everybody wants to know è un gran disco. Peccato solo che le canzoni migliori avevamo già avuto modo di gustarle su Feed, qui riproposto praticamente nella sua interezza (manca solo la versione strumentale di Like a poverty, mentre Glad to be alone viene riletta e stravolta a tal punto da ricavarne due nuovi brani, Call me e Try me). Buono comunque anche il poco materiale finora mai ascoltato: nel brano di apertura, This story, la voce, la chitarra e il pianoforte ora si inseguono e ora si incastrano in un gioco mirabile di melodie e cambi di ritmo, mentre a metà dell’album lo strumentale I don’t think so introduce l’andamento pop di East n west e i caldi fremiti di Everybody wants to know. Un disco intenso e seducente. Un gran disco appunto.

Guido Gambacorta

QUEERS / Today / Lookout

Bene, assodato che lo stato di salute attuale di un gruppo che ha avuto, vi piaccia o no, il merito di avere segnato il corso del punk rock creando quindi un “prima” e un “dopo” almeno in corrispondenza di classici come “love songs for the Retarded” o “Don’t Back Down” sia perlomeno agonizzante, e questo disco ne suggelli, per chi non l’avesse capito, l’apice di una parabola negativa cominciata da tempo, assodato tutto questo, dicevo, stò disco non è malaccio. Un Mini cd a cinque pezzi - sputato fuori per giustificare un ennesimo tour europeo di un gruppo che in america suona a 200 dollari, e in Europa mette su 30 date a 4 milioni l’una, ripropone asetticamente e macchinosamente classici dai cui fasti i Queers di “Today” (per l’appunto) sono lontani mille miglia e con una line up che ormai cambia a un ritmo vertiginoso - costituito da una traccia che ha senso solo perche vi canta Ben Weasel, una cover dei beach boys, un paio di noiosissime ballate, e solo un episodio (“yeah, well, whatever”, pezzo d’apertura) che sebbene valga da solo l’acquisto del disco, contribuisce a riportare alla mente con maggiore nitidezza i Queers del bel tempo che fu. Mamma mia, che tristezza…

Marco Sannino

STRIKE ANYWHERE / Change is a sound / Jade Tree

MILEMARKER / Anaesthetic / Jade Tree

La Jade Tree, etichetta di Tim Owen attiva da quasi 10 anni in campo punk e hardcore, può vantare la scoperta di ottime band quali Promise Ring e Joan of Arc (bellissimo il loro esordio, 'A portable Model' del '97), nonché una notevole coerenza per quel che riguarda le strategie commerciali - come si legge sul sito della label, la Jade Tree non si è fatta travolgere dall'ondata di New Punk a metà dei 90s, non ha pianificato alcuna manovra tattica per entrare nel mainstream e se ne stata ancorata all'underground americano assieme a pilastri post-core quali Touch'n'Go e Dischord. Caro Tim Owen, perché l'hai fatto? Perché le mie orecchie si devono sorbire questo strazio di Strike Anywhere? Magari nella nicchia dell'hardcore e del punk new school questi riuscivano ad entrarci... un po' di culo e questi ti diventavano i nuovi H2O (mamma mia...), altro che underground, ti facevi un pacco di soldi! Ma ti rendi conto che questa roba non la si riesce ad ascoltare per più di 2 minuti? ma che senso ha un punk così scombinato, questi cambi di tempo ogni 10 secondi che ce ne stanno più che su un disco math-rock, questa cretività che a confronto i NOFX sono grandi artisti (!)? E questi Milemarker? La proposta è sì più originale - wave, emo e un pizzico di gothic con sonorità hardcore - ma anche questi, dopo due canzoni smetti di ascoltarli, semplicemente perché non dicono nulla, perché sono piatti. Beh spiacente, ma sono bocciati entrambi. Non ho ancora ascoltato gli Owls, ma dell'ultimo Tim Kinsella non so se c'è da fidarsi...spero solo che i Pedro The Lion (in uscita tra poco) aiutino un po' l'etichetta, perché al di là del successo commerciale di questi dischi (nei generi di nicchia c'è sempre un po' di gloria anche per le peggio cose...si vedano anche alcune recensioni entusiastiche di altre testate...) la proposta musicale è davvero bassa.

BakuniM

THALIA ZEDEK / Been here and gone / Matador

Ogni decennio ha le sue dame nere e l’indie rock statunitense in vena di rigenerazione ne cerca una da tempo. Polly Jean Harvey ha abdicato da tempo quindi il trono è rimasto vuoto per un po’. Chan “Cat Power” Marshall è stata risucchiata dalle stesse crisi esistenziali di cui canta, e allora chi si propone? Una nomination non può che andare a miss Thalia Zedek, già ben conosciuta come voce dei Come, al momento messi in naftalina, che si propone con questo secondo”Been here and gone”. E se è vero che la gestazione è stata lunga, con mamma Thalia alla fine contenta e soddisfatta, molto meno lo sono stato io che ho ascoltato innumerevoli volte sto ciddì, annoiandomi a morte. Lento, di quella lentezza che ti infastidisce (e sì che, per intenderci, il rock di capolavori della lentezza ne ha partoriti…), pretenziosamente noir e delicato, confidenziale come lo può essere una mosca che ti ronza nell’orecchio, sofferente come un blues cantato da un condannato a morte. E la voce di miss Zedek non aiuta per niente la digestione di “Been here and gone” tanto è nasale, “particolare” per essere politically correct, così monotona che rasenta il lamento. Tutto da buttare insomma? Quasi. Si salvano giusto un paio di tracce nel finale, “ Desanctified” e “ 10th lament”, che è una canzone strumentale, quindi fate voi…E non aiuta neanche l’esecuzione di “ Dance me to the end of love” del buon Leonard “pipistrello” Cohen a risollevare il mood complessivo. Miss Zedek rimandata alla prossima. E’ consigliabile l’entrata in studio con un bel sorriso sulla faccia, aiuterà lei e noi.

Francesco Imperato

SONNA / (We sing loud) sing soft tonigt / The Temporary Residence

Questo disco è semplicemente imbarazzante, è talmente brutto, insulso che non so da dove cominciare. Vogliamo iniziare dalla copertina slavata e anonima? Cos'è minimalismo? Rigore? Sintomatico mistero? Vogliamo continuare con le sei pallosissime tracce del cd? Tutte uguali, tutte tristemente, rigorosamente uguali. I Sonna non sono altro che una cimiteriale caricatura dei Dirty Three, dei Tortoise, degli Scenic: sei strumentali sciatti, vuoti...vorrebbero essere poesia e sono noia, noia mortale.

Fanfarello

JAMES WILLIAM HINDLE / S/T / Badman Recording Co.

L'apparizione di James William Hindle nel tributo a John Denver "Take me home", pubblicato dalla Badman, aveva fatto intuire il talento di questo giovane folk singer inglese. L'incredibile capacità di Hindle di far convivere il folk inglese con elementi country è ora svelata nella sua interezza nell'album d'esordio omonimo. Due covers inimmaginabili e irriconoscibili - nella migliore tradizione del personaggio al quale è inevitabile accostare James William Hindle, Mark Kozelek - "I started a joke" (Bee Gees!!!!!!!) e "Less of me" (Glenn Campell) e sei canzoni che riportano alla mente Nick Drake e i primissimi American Music Club compongono un cd, impreziosito dalla collaborazione dell'ex batterista degli American Music Club, Tim Mooney, dalla splendida voce di Paula Frazer dei Tarnation ("Sparky Marcus") e dalla produzione ad opera del boss dell'etichetta Badman, Dylan Magierek. Gli arrangiamenti perfetti, le corde di una viola e di un violino fatte vibrare meravigliosamente ("Masks"), la voce fragile e tragica di Hindle ("The list of you & me") e testi sinceri e romantici ("...see how the day can make you blue it gets me thinking that I don't know you......watching the way of all my eyes to make you bitter to make you cry........) accompagneranno, nei lunghi pomeriggi uggiosi che questo malinconico autunno porterà con sè, l'ascoltatore, facendogli immaginare la desolata campagna inglese coperta da una coltre di nebbia e un viso accarezzato dalla brezza proveniente dalla baia di San Francisco.

Giuseppe Marmina

MERCURY REV / All is dream / V2 Music

Per quel che riguarda le musiche giovanili, il decennio dei 90's iniziava con alcuni dischetti niente male: quel tripudio di rock al macello di Twin Infinitives, dei Royal Trux; le strutture e i suoni taglienti parlati-urlati post-core di Spiderland, degli Slint e... la bomba di noise al caramello di Yerself is Steam, disco di debutto dei Mercury Rev. Roba che nemmeno vi sto a commentare, piccoli capovolgimenti epocali, l'abisso...CERVELLI IN FIAMME…Nel 2001 dopo un decennio di rock mai visto prima - felicemente concluso con la pietra miliare Storm&Stress - si torna a tirare il fiato, che pacchia ragazzi! Beach Boys, Bacharach, colonne sonore da cinema Hollywoodiano, da Gene Kelly a Morricone! e poi musichette brasiliane, chanson a la franceise...CHE GIOIA! Già Jim O'Rourke con Eureka ci ha fatto capire che qualcosa poco quadrava, ancor prima elettronici come Cibo Matto, Air, e tutta la Lounge e la Cocktail ci hanno un po zuccherato il cervello, e ora via! Mercury Rev! altro che post-noise, evviva la canzone d'autore colma d'archi, evviva! Loro parlano di tradizione americana... ahimé non è America, è il Globo... le influenze derivano infatti dalla prima 'cultura' pensata x il pianeta terra (Hollywood, e il pop per le TV, per le Radio, l'INDUSTRIA culturale americana protesa verso il mondo...) CERVELLI AL McDONALD's. Dei Mercury Rev già saprete tutto, tutti voi lettori di SuccoAcido leggerete pure Blow Up, o Scaruffi, o chissà che altro... Beh io posso solo ripetere che le musiche di All is dream sono più che buone, che le idee pure sono notevoli (una tendenza all'onirico speculare rispetto alla psichedelia tutta, una vera colonna sonora per un fantastico e ipotetico mondo si sogni che fa invidia al miglior Moroder) ma...ahimé, il ripescaggio di certe musiche, il prevalere di una tendenza al superficiale piuttosto che ad un indagine satirica e ironica che si insinui in 'profondità', e poi la mancanza di una qualche 'identità...beh tutte queste cose fanno dei Mercury Rev e dei loro simili qualcosa di MORALMENTE RIPUGNANTE. - Il carrello è una questione morale. Godard - Americani ridateci il folk delle mille storie, ridateci il country dei ritmi pestati, ridateci il blues enorme dei vostri abissi e delle vostre anime... le VOSTRE radici. E certe cose snobbatele o, fottuti, omologatevi.

BakuniM

500ft OF PIPE / Dope deal / Beard Of Stars

Eccolo, il disco stoner che aspettavo. Artwork impeccabile e dentro, un suono che ti taglia in due, letteralmente. E te ne accorgi subito, non appena attacca il fuzz epilettico e furioso di "Detroit City" che i 500ft of Pipe hanno dedicato alla loro città d’origine: sono i Monster Magnet di Superjudge fusi con i migliori Fu Manchu. Devastanti. Un mealstrom di distorsione che ti inghiotte fin dentro le viscere della terra. Suoni di chitarra pressati e supersaturi come gas dentro una camera di compressione, roba che fende gli speakers e ti arrostisce le cavità auricolari, una bella voce finalmente lontana dai modelli Black Sabbath/Kyuss, un buon uso di tastiere vintage opportunamente filtrate e compresse per sopperire alla scelta di eliminare il basso dall’economia del sound del terzetto. Pura violenza elettrica incuneata tra le spire di nove brani e una cover immensa di "Sunshine Superman" trasfigurata in una ballatona cosmica, Donovan a cavallo del suo delfino che si trasforma nell’immagine del Dr. Spock che prende quota lampeggiante di luce riflessa. Puro nettare space rock, un delirio di onde elettromagnetiche che spumano come sale misto ad olio di paraffina. Se state cercando un’alternativa agli sbadigli di una scena che sta collassando su se stessa o se a quella scena volete avvicinarvi con la smania di venirne travolti, questo è il vostro disco.

Franco "Lys" Dimauro

MARMOSET / Record in red / Secretly Canadian

Chi non ha una macchina del tempo oggi? Se Jim O'rourke l'ha usata in "Eureka" per trasformarsi nel nuovo Burt Bucharach i Marmoset l'hanno utilizzata per tirare Syd Barrett fuori dal pantano e dalle grinfie della mamma. Insomma nessuno avrebbe da ridire se dicessi che questo "Record in Red" è il terzo disco ufficiale dell'ex punta di diamante floydiana. Trattasi di 13 canzoncine retrò, ma non riesco neppure a definirle neo-psichedelia, comincio davvero ad avere il sospetto che si tratta di Barrett redivivo. Pezzi come "Summertime is easy" ti fanno davvero rivivere l'emozione di "Dark Globe", dunque il tempo è davvero collassato? "F For Fake" diceva Orson Welles, chi riesce più a tracciare una linea di confine? Posso solo dire che questo disco ha classe, eleganza, fascino e mistero.

Fanfarello

MY OWN / Non wake up clocks / Ultraviolet

Che sorpresa questi francesini! Alla loro prima uscita su lunga distanza ci propongono un'ottima miscela di stratificazioni noise miste a riff post-core, partiture oblique e ben studiate, note che si incrociano quasi a formare arabeschi sonori dal gusto acido e a tratti darkeggianti, altrove stranianti, sghembe, allucinate. Molto vicini ai Blonde Redhead di 'In An Expression...' per intenderci, ma anche a certo slow-core dalle tinte fosche (gli Slint + languidi, i Mogwai di 'Come On Die Young'). Ballate dolci e ubriache (A link) si alternano a tappeti cromatici per metropoli futuribili, strati di rumore grezzo come plastiche e asfalto (Polymino), oppure alla danza macabra di microchips impazziti prodotta da un lisergico refrain di chitarra (Concrete). Unica pecca la voce, davvero troppo uguale a quella di Kazu Makino dei Blonde Redhead, e troppo 'dolciastra' per suoni che avrebbero richiesto qualcosa di più duro e graffiante. Bravissimi comunque.

BakuniM

LEONARD COHEN / Ten new songs / Columbia

“Ten New Songs” è il nuovo album di Leonard Cohen. Esce a nove anni di distanza dal precedente “The Future”. Le atmosfere sono quelle di “Various Positions”. Il tema del disco è la liberta interiore come rimedio all’ineluttabilità della sconfitta, e ci sono versi come: “L’amore continuava ad entrare/fino a che raggiunse una porta aperta/allora l’amore stesso/l’amore stesso se ne andò”, oppure: “Quando sono furioso, sorrido/Imbroglio e dico bugie/Faccio quel che devo fare/Per andare avanti/Ma so cos’è giusto; ma so cos’è sbagliato/E morirei per la verità/Nella mia vita segreta”. Leonard Cohen è l’ultimo dei grandi cantautori. E grazie a quelli come lui, la vita fa un po’ meno paura. Nient’altro da dire. Solo ascoltare.

Isidoro Meli

SUPERCHUNK / Here’s to shutting up / Merge/Matador

Nuovo disco per i Superchunk da Chapel Hill. La band, che è in giro dall’89, dopo essersi avvalsa di produttori “importanti” come Albini ed O’rourke, si rivolge questa volta a B.Paulson, in pratica una delle menti geniali artefici di Spiderland. Dopo ripetuti ascolti sono giunto alla conclusione che, in parte, Here’s to shutting up mi piace più degli altri dischi del gruppo. E’ più arrangiato e curato dei precedenti, direi quasi orchestrato, visto che all’interno delle composizioni si fa un massiccio uso di tastiere archi e fiati. Tutto questo rende le loro melodie pop più morbide ed accattivanti, talora arrivando a sfiorare un eccesso di zuccheri, a mio modo di vedere superfluo. Viceversa, nei momenti in cui il gruppo rispolvera le chitarre e la propria matrice indierock, come nella splendida titletrack o in “Art class”, viene fuori una musica che non a nulla da invidiare al loro passato e che avrebbe molto da insegnare a tante bands più giovani. Un album vario, che nonostante gli alti e bassi rappresenta una prova superata ma interlocutoria.

Salvo Senia

PLEASURE / Forever / Sub Pop

Chi non ha una macchina del tempo oggi? Se i Marmoset l'avevano usata per trasformarsi nei nuovi Syd Barrett i Pleasure la utilizzano per salvare Marc Bolan da morte prematura. L'iniziale "Goodnight" è puro glam cabaret nello stile del riccioluto dinosauro, ma anche memore del Gavin Fridey più Kurtweilliano e il maestro Ziggy dove lo mettiamo? "Any Port in a Storm" è puro glam cabaret nello stile del maghetto con l'occhio di vetro, ma anche memore del Marc Bolan più ispirato e il maestro Gavin Fridey dove lo mettiamo? "Meet me in eternity" è puro glam cabaret rock nello stile del maschietto delle prugne vergini, ma anche memore del David Bowie più aggressivo e il maestro Kurt Weill dove lo mettiamo? David, Joshua, Andrew fanno una scorpacciata davanti ad una tavola imbandita, si staranno divertendo? Glielo auguro di cuore.

Fanfarello

TOOL / Salival / Volcano/Zomba

TOOL / Lateralus / Volcano/Zomba

Non si avevano loro notizie dal 1996 ed è quindi ovvio accogliere con entusiasmo il ritorno dei Tool, anche se Salival non è il vero e proprio successore di Aenima, ma un cofanetto contenente una videocassetta (o un DVD) con i quattro video fin qui realizzati dal gruppo (Aenima, Stinkfist, Prison sex, Sober) più un cd audio che raccoglie materiale live e due nuove tracce registrate in studio. Tra i sei brani registrati dal vivo, provenienti da quattro diverse esibizioni americane, spiccano in particolare Pushit e la cover di You lied, pezzo dei Peach, l’ex gruppo del bassista Justin Chancellor. Sono però i due inediti di studio a sorprendere: nella conclusiva Lamc la voce di Maynard James Keenan esprime tutto il suo pathos dopo che le orecchie dell’ascoltatore sono state violentate da sei minuti di percussioni industriali intervallate dalla voce femminile di una segreteria telefonica…e prima di Lamc la vera perla di Salival, ovvero la cover di No quarter dei Led Zeppelin! A distanza di più di venticinque anni i Tool riattualizzano in modo esemplare la versione zeppeliniana imprimendole il loro inconfondibile suono: si riconosce il fascino della canzone dei Led Zeppelin ma la traccia potrebbe benissimo uscire da Aenima, tanta è la potenza drammatica sprigionata da questi undici minuti di musica! Se questo è l’antipasto del nuovo album…Faccio appena in tempo a comprare Salival che esce nei negozi Lateralus, il nuovo attesissimo album di studio dei Tool. Apro il cd, stupenda come sempre la confezione, e pigio il tasto play del lettore: passano i minuti…è finito il primo attento ascolto…ripigio il tasto play ma il secondo ascolto è più distratto, riesco con facilità ad estraniarmi dalla musica e a pensare ai fatti miei (quando mai mi era capitato ascoltando Undertow o Aenima?); ho come la sensazione che questo nuovo lungo lavoro dei Tool richieda tempo per poter essere assimilato completamente. Passano i giorni e riascolto Lateralus solo un paio di volte prima di partire per Milano…il 30 Maggio i Tool suonano all’Alcatraz ed io sono lì, a godermi un concerto davvero incredibile: fantastica la scenografia (per tutta la durata dello show dietro i quattro musicisti vengono proiettate le opere video del chitarrista Adam Jones) e notevole la scaletta, con tanti vecchi successi (a dir poco eccezionali le versioni di Eulogy e di Sober) riproposti accanto ai nuovi brani. Il giorno dopo il concerto mi riascolto Lateralus, ma le mie perplessità iniziali non svaniscono: apre l’album il suono potente e geometrico di The grudge ma la canzone successiva, The patient, sembra uscire dal repertorio degli A Perfect Circle; il nuovo singolo Schism nulla aggiunge a quanto sperimentato in Aenima; l’inserimento di lunghi momenti strumentali convince nell’ipnotica Reflection mentre non fa che stemperare eccessivamente la tensione in Ticks & leeches, uno dei brani più aggressivi dell’intera raccolta. Un lavoro che alterna splendide tracce a momenti meno convincenti? No, non è questo il punto: Lateralus è un album omogeneo nel quale ciascun pezzo, singolarmente preso, risulta ben costruito ed ottimamente suonato… Ma è nel suo complesso che Lateralus delude: non riesce a coinvolgere emotivamente per tutta la sua durata, non ha insomma la stessa incredibile intensità di Undertow ed Aenima. Spengo lo stereo, interrompendo a metà l’ascolto di Triad. Quasi subito nei miei occhi affiora l’immagine di Maynard James Keenan curvo su stesso… Why can’t we not be sober? I just want to start this over. Why can’t we drink forever. I just want to start things over. Riaccendo lo stereo e metto su Undertow a tutto volume.

Guido Gambacorta

GEOFF FARINA / Reverse eclipse / Southern

Percussioni etniche, sezione fiati, orchestra d’archi, inserti di musica elettronica…Niente di tutto questo in Reverse eclipse: qui c’è solo un cantautore con la sua chitarra acustica e la sua voce. Frammenti di vita vissuta raccontati su delicate trame blues venate di jazz; l’intervento occasionale di un’altra chitarra ad impreziosire l’atmosfera di impalpabile malinconia che percorre tutto l’album. In questo suo secondo lavoro solista Geoff Farina, ai più noto come cantante dei Karate, esprime a pieno tutto il suo talento: The left-handed way, Soon in tents, The rights e One percent sono canzoni che toccano il cuore. Colonna sonora ideale per le giornate di solitudine. I pensieri affogano nel vino rosso…una voce calda e avvolgente riempie il vuoto della stanza.

Guido Gambacorta

THE CLEAN / Getaway / Matador

I Clean sono una storica, per quanto sconosciuta, band neozelandese. Pur essendo attivi sin dall’ormai lontano ’79 hanno pubblicato solo quattro albums (questo compreso) ed una manciata di singoli ed Eps. Il trio, formato dai fratelli David ed Hamish Kilgour e da Robert Scott, con la propria musica, ha anticipato di qualche anno il boom del cosiddetto Lo-Fi, quello di Pavement, Guided by Voices e, soprattutto, Yo La Tengo (tra l’altro I.Kaplan e G.Hubley suonano come ospiti in un paio di tracce). Per lo più si tratta di un disco di “bozzetti” musicali di stampo tipicamente indie-pop: chitarre acustiche, batteria essenziale e timide voci, cui ogni tanto si affianca qualche altro strumento, ma nulla di particolarmente originale, e tutto caratterizzato da una registrazione piuttosto spartana. Sicuramente gradevole da ascoltare, potrebbe piacere a tutti coloro che amano la musica dei gruppi sopracitati, purtroppo però di dischi così ne abbiamo sentiti a bizzeffe!

Salvo Senia

POLAR AIM / Diaries of well known women / Christel Deesk/EMI

Mi ritrovo tra le mani questo disco dei Polar Aim, copertina carina con bandierona americana in primo piano, gabbiano svolazzante sul retro, atmosfere soft-marittime, e una data: 1998. Io di questi non ne ho mai sentito parlare, neanche voi suppongo...e mo che faccio? Beh, li recensisco...se poi è uscito 3 anni fa o l'altroieri poco importa…Belli i suoni di chitarra, mediocre la struttura sonora che richiama alla mente un rock classicheggiante trito-e-ritrito e un po di musica leggera (da Claudio Villa agli U2 passando per tutto il repertorio MTV possibile per intenderci...), buona la produzione con notevole attenzione alle sfumature di ogni suono (quelli delle chitarre soprattutto). Ai Polar Aim, progetto solista di Lincoln Fong dei Moose, manca il carisma e il piglio necessari per farsi apprezzare, per non far sì che si venga dimenticati nel giro di poco dal primo ascolto. Peccato anche per la voce...il timbro c'è, ma qua e là traspare un patetismo quasi nauseante...roba che anche l'Elvis Presley di Love Me Tender a confronto era un punkettaro very cool...

BakuniM

GROOVE ARMADA / Goodbye country (hello nightclub) / Zomba

Giunti alla loro terza fatica i londinesi Cato e Findlay compiono il loro capolavoro. Aiutati dai Richie Evans, Nile Rodgers e dal rapper Jeru The Damaya riescono a fondere depp house, soul, techno e reggae con risultati sbalorditivi. Tutti i brani del disco sono melodia per le nostre orecchie, tra gli altri “Healing” e “Little by little” dove Havens dà il suo tocco magico, ma a mio avviso due sono i brani davvero epocali: “Togne” che eleva la techno alla giusta dignità e il rap epicheggiante e ponderoso di “Suntoucher” che i Vam Eminent e Piff Daddy hanno sempre sognato di comporre.

Marcello Infantina

EVA KANT / Have some / Up Tones

EVA KANT / Stand up and kiss / Up Tones

Di questi tempi da oltreoceano arriva veramente ben poco di buono, per fortuna c’è la cara vecchia Europa. Proprio dal centro del vecchio continente, dalla svizzera per la precisione, arrivano gli Eva Kant. La musica proposta dal gruppo è influenzata dagli ultimi, sempre sottovalutati, Sonic Youth ma anche da bands quali My Bloody Valentine e Blonde Redhead, non lasciatevi però trarre in inganno, gli svizzeri non sono l’ennesimo gruppo di noise chitarristico senza personalità. A parte i cliché del genere, chitarre minimali e dissonanti, le voci, intrecciate o sovrapposte, disegnando linee melodiche molto conturbanti, dimostrano di aver ben appreso la lezione dei maestri e riescono ad aggiungere qualcosa di nuovo ad uno stile ormai più che consolidato. Laddove l’ep mostra il fianco a causa della ridondanza di alcune soluzioni e per l’ingenuità tipica, e quindi perdonabile, delle opere prime, “Stand up and kiss” appare più maturo, vuoi per una maggiore immediatezza dei pezzi vuoi per una sublime consapevolezza delle parti vocali. Chiude il disco uno strambo quadretto di pop deviato intitolato “Sky o lin”, molto interessante. Nell’era del post-cock-supercalifragilistica’-rock qualcuno con le idee chiare su cosa vuole suonare e come riuscirci.

Salvo Senia

BURNING AIRLINES / Identikit / DeSoto

Sono certo molti di voi (tutti?) ricorderanno i Jawbox, una delle più grandi indie bands dello scorso decennio, abili gestori della dissonanza chitarristica tipica di quegli anni che, quasi al culmine della loro carriera, presero "Cornflake girl" di Tori Amos e ne fecero un piccolo hit per le collage radio americane. Bene, J Robbins era la mente di quel progetto e i Burning Airlines, dalla fine di quello, il nuovo lavoro in cui si è imbarcato. Diciamo subito che il carisma dei Jaw era di tutt'altra pasta. La sapiente miscela di rumore e melodia abilmente messa in gioco dai primi viene qui diluita e ridotta ad una forma ammansita, edulcorata, innocua. "Outside the aviary" apre questo loro secondo disco e sembra di ascoltare gli All meno pirotecnici, altrove sembra di incrociare i Foo Fighters o qualche gruppo storico della Revelation, finchè non ci si inoltra addirittura in brani dal vago sapore english-pop (i primi XTC evocati in "A lexicon", il Morrissey che fa capolino su "The surgeon's house", NdLYS), pratica molto diffusa negli ambienti emo dove peraltro il disco verrà di certo apprezzato. A me ridatemi "Grippe" e "Novelty" per favore. Che dei dischi Deep Elm o Jade Tree ne ho già piene le palle.

Franco "Lys" Dimauro

 


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