Low, Pj Harvey, David Holmes, Karate, Faraquet, Q And Not You, Shipping News, Radiohead, 90 Day Men, Third Eye Foundation, U2, Amon Tobin, Dj Food, David Grubbs, Trans Am, A Short Apnea, Cut, Yuppie Flu.
Low, Pj Harvey, David Holmes, Karate, Faraquet, Q And Not You, Shipping News, Radiohead, 90 Day Men, Third Eye Foundation, U2, Amon Tobin, Dj Food, David Grubbs, Trans Am, A Short Apnea, Cut, Yuppie Flu.
LOW
Things We Lost in the Fire
Tugboat/Wide
Low. …m. ...Parliamo d’altro. Il sonno. Una necessità credo. V’è forse un che di necessario nel nulla. Ci si pensa un po’, senza fatiche. Poi ci si abbandona alla noia, ci si abbandona allo scazzo, al vuoto, ci si abbandona. Uno se ne innamora pure. I Low dicevamo. Ci sono momenti precisi, ultimi minuti di una lezione molle incomprensibile, ultime scene di un film scialbo e scontato. Ti gira il cazzo sì. Perdita del tempo - dovere primario. Ma non v’è differenza alcuna. Si passa da una noia intravista alla morte a un secondo più dolce - Solo il sonno ci può cancellare. Sono attimi. Adoro I Low. Li ho acquistati senza convinzione, ascoltati senza convinzione, noia. Adoro I Low. “Things We Lost in the Fire”. V’è un che di fatalistico nel disco. Sarà il tempo. Basso. Mi sono osservato in queste musiche. Momenti distinti, vuoti, reali. Non conoscevo nulla della band finora, mi sentivo – e mi sento - lontano anni luce da tutto il cantautorato contemporaneo. E’ insomma un disco che per me non c’entra nulla. E’ il fascino del diverso. E’ il fascino dell’incomprensione, parole dolci di un linguaggio s-conosciuto. Ascolto dopo ascolto il calore ti assale. Folk bruciante, lento, essenziale. Elettricità emotiva. Voci d’angelo – piangenti, straziate. Lenti come i Codeine, minimali come il Will Oldham di Arise Therefore. Un disco con alti e bassi sì, ma che sfoggia inni alla bellezza davvero indimenticabili: Sunflower, Whitetail, Dinosaur Act, In Metal: sospiri gridati, poesie indicibili, anime in fiamme. Una sorpresa. Bravissimi davvero.
Alessio BakuniM
PJ HARVEY
Stories from the cities, stories from the sea
Island
Il nuovo album di mrs. Piggei è un disco DA PAURA. Senza esagerazioni. Infili il disco nel lettore e, appena sistemato il culo sul giro di "Big Exit", hai PAURA di aver sbagliato disco. Resisti, un attimo di imbarazzo, parte "Good Fortune" e vai a controllare se "Gung Ho" di Patty Smith sia bello tranquillo nella sua custodia o sia per caso caracollato fuori. Quando ti accorgi che in effetti nessuno lo ha mosso dalla sua polverosa posizione sullo scaffale, allora comincia a insinuarsi la PAURA di aver sprecato il tuo denaro. Al terzo brano, cominci davvero ad avere PAURA che questa agonia non abbia mai fine. E così, giunto alla fine dell’opera (opera???? operetta da avanspettacolo, semmai..... NdLYS) lo vai a sistemare in alto, perché hai PAURA che la tentazione di andarlo a riascoltare per scoprire che "no, non può essere così" e "deve pur esserci qualcosa di vicino a una buona canzone" si faccia avanti. La trojetta che saltava dal letto di Steve Albini a quello di Nick Cave è ora una puttanella da quattro soldi, di quelle che carichi solo mettendo in mostra il macchinone nuovo e l’autoradio potente. John Parrish, che qualcosa deve aver intuito, ha ritirato le fiches, alzato il culo e lasciato il tavolo verde. Voleva giocare a Risiko e ora si sarebbe trovato al Gioco dell’Oca. Cara signorina Harvey, visto che sei arrivata alla frutta, perché non sparecchiare velocemente e toglierti dai coglioni??
Franco "Lys" Dimauro
francesco.dimauro@telecomitalia.it
David Holmes
Bow to the Exit Sign
Go! Beat
Siamo dentro un locale fumoso, whisky e conversazioni multiple di sottofondo, tutti ad attendere il beat grasso: sul palchetto anziché uno slavato, esile DJ sale un cinquantenne di colore che col 2000 ha ben poco da spartire, almeno così sembra. Non perde le sue fonti d'ispirazione l'irlandese David Holmes, le mette definitivamente in evidenza: la musica nera da un lato (funky, blues, soul, cadenze dub) e (chiamandolo) punk dall'altro (Stooges su tutti).Non ci si aspettava di certo questo. Rock n' rollò passato attraverso macchine che sembrano lavatrici che ne sputano i componenti alla rinfusa. Corposo, sensuale, oscuro, nevrotico a tratti psichedelicamente acquietato da chissà quale felice viaggio. Fra i collaboratori l'ululante Jon Spencer ("Bad Thing" m'appare come il pezzo più riuscito nel suo miscelare blues e dub); la sempre più convincente Martina col suo stile introverso aspettando che si cimenti in qualcosa di suo; Bobby Gillespie più nevrotico e petulante che mai (difatti c'è più di un punto d'incontro con i Primal Scream) mentre il vocione è di Carl Hancock. Qualcosa sta cambiando.
Nino Martello
KARATE
Unsolved
Southern
Ha luci ed ombre il quarto album dei Karate, “Unsolved”, che non convince per la svolta fusion del trio americano. Geoff Farina si distingue sempre come uno dei pochi autentici cantastorie americani che siano in grado di sintetizzare squarci di vita quotidiana in pochi minuti ma ci aveva abituati con i precedenti album a ben altro che autoindulgenti fraseggi jazz che smontano la spontaneità dei brani.. Dovunque imperano atmosfere dilatate e sommesse che assecondano le melodie di Farina, sempre più spesso recitate e memori di uno Sting d’altri tempi prestandosi a svolte strumentali che alla lunga stancano. La nuova strada intrapresa dai Karate farà forse avvicinare qualche neofita ma dubito che farà la felicità dello zoccolo duro del gruppo di Boston, abituato sin dagli esordi ad un delicato quanto efficace equilibrio tra sferzate noise e intimismi d’altri tempi. I più informati lo chiamano emocore. In definitiva, i brani finiscono per assomigliarsi parecchio, fanno eccezione
“Sever” e gli undici bellissimi minuti della conclusiva “This Day Next Year”.
Francesco Imperato
fraimperato@iol.it
FARAQUET
The View From This Tower
Dischord/ Wide
Primo full-length per questa costola degli ex Smart Went Crazy composta dal bassista Jeff Boswell, dal chitarrista/cantante Devin Ocampo e dal batterista Chad Molter. Dall’alto della torre, la distanza fra il sound di questa band ed i classici prodotti dischord è ancora più evidente. Certo l’influenza attitudinale dei Fugazi si fa sentire, soprattutto per quanto riguarda l’eccentricità stilistica, ma c’è qualcosa di più nelle sonorità e nella struttura di questi otto brani, che fa suonare un po’ stonata l’etichetta “Progressive American Punk” per definirne il genere. C’è una buona fetta della Chicago anni ’90 in queste tracce, quella del cosiddetto post-rock, tanto per intenderci. “Cut self not” e “Carefully planned” sono forse gli unici due tributi al sound di Washington d.c. “Song for friend to me”, con le sue accelerazioni improvvise ed il ritmo nevrotico, il cantato sfasato ed in controtono, la comparsa dei fiati, potrebbe benissimo ricordare i June of 44 prima maniera catapultati a Washington, mentre la melodica “Concrete Separation”, con i suoi giochi di arpeggi e gli incastri di archi campionati, può accostarsi a livello compositivo agli Slint di “Spiderland”. “Sea Song” gioca sulle sfasature ritmiche dei vari strumenti e sull’utilizzo in crescendo di distorsioni delle chitarre, “View from the tower” è una lunga tirata strumentale in cui basso e batteria la fanno da padroni, con un finale che lascia spazio ad un piccolo intervento vocale e ad un'altra esplosione di chitarre convulse. Chiude il tutto “Missing piece”, ballata dal vago sapore gastrdesoliano. Un cd divertente, ben suonato e ricco di spunti per il futuro, se solo i faraquet sapranno dare un’ulteriore sterzata e trovare una direzione più autonoma rispetto al panorama indie americano.
Roberto Baldi
robdoc@libero.it
Q AND NOT U
No Kill No Beep Beep
Dischord
Sorpassata a destra dai suoni d’altre Americhe, raramente Washington ha saputo in questi anni risollevare la testa e tornare ai fasti dei primi anni novanta. I nomi li conoscete. A quelli aggiungete ora quello dei giovani Q And Not U, autori di uno dei debutti Dischord più eclatanti degli ultimi anni. "No Kill No Beep Beep" ha l’alta statura del colosso, marcato da un drive chitarristico eccezionale, con le sei corde che bisticciano furiose, percorse da un nervosismo manifesto, azzannate da una ritmica frastagliata e complessa. E' il post core che cede definitivamente alla corte della wave più epilettica (l’uso reiterato di certi arpeggi, il nervosismo latente che si avverte nell` inerpicarsi delle linee di basso vanno in questa direzione, NdLYS) in un bruciante, serrato, sferragliante, intricato amplesso strumentale mitigato però da un gusto melodico tutt’altro che cerebrale. In questo senso, un pezzo come "Fever sleeves" vale più di mille parole, sembra crollarti addosso, ti si scaraventa contro, eppure ti lascia sempre una via di fuga, un aggancio, un po' come succede nella speculare furia di un gruppo come At the Drive-In. Echi di Candy Machine, Drive Like Jehu, Fugazi sgorgano fuori dell’impetuoso scintillio timbrico dei Q and not U, riallacciandosi a percorsi musicali che meritano riscatto per la nevrosi insana con cui hanno infettato le musiche migliori del mondo.
Franco "Lys" Dimauro
Shipping News
Very soon, and in pleasant company
Southern/Wide
Settembre '98...lo ricordo ancora come fosse ieri quello splendido concerto al porto di Catania -molo attracco traghetti- dove su di un piccolo stage che si affacciava sul "marae nostrum", gli S.N. esordirono alla grande in una serata che divenne davvero memorabile... sono passati due anni e tanto abbiamo dovuto aspettare per poterli assaporare ancora una volta: "Very soon, and in pleasant company" si presenta con grande signorilità ed eleganza già fin dalla bellissima copertina e le capacità artistiche del binomio Mueller-Noble non lasciano molto spazio alle critiche, anche quelle più pignole, almeno da un punto di vista stilistico; ma andiamo al succo. Il cd si apre con una "the march song" che per intreccio melodico ritmico non ha nulla da invidiare ad i migliori June of 44 di "four great points": batteria sintetica ed al metronomo che prende sotto braccio una linea di basso assolutamente atipica e ben delineata, potente ma senza mai essere invadente, il tutto avvolto da una chitarra che accarezza e ruggisce. La seconda traccia "actual blood" ci presenta un Jason Noble versione vocalist davvero ispirato: ne viene fuori una "song" struggente e di rara bellezza compositiva, dove la melodia non è mai banalmente incastrata e le vocazioni classiche di Noble fanno ben comprendere quanto sia incisivo il suo apporto ai Rachel's; direi quasi una "sound-track", immensa, sicuramente la traccia più bella. C'è anche spazio per un blues trasversale e zoppo: in "simple halo" una ritmica sincopata ed una chitarra tremolante proiettano l'ascoltatore in un'atmosfera da "night club" newyorkese del dopoguerra, con l'aggiunta vocale di un etereo Jeff Mueller. Il cd poi si riaccende ritmicamente con "nine bodies, nine states", basso spezzato e preciso ed arpeggi di chitarra dalle dinamiche nitide, e continua con "quiet victories", dissonanze, armonia ed una dolcezza reale, quasi palpabile: magia della musica. Le ultime due songs, "contents of a landfill" e "how to draw horses" testimoniano ancora una volta che questo cd non suona, parla: parla di come sia meraviglioso aprire ogni valvola del proprio corpo e trascrivere tutto ciò che ne viene fuori in musica, una musica che rivendica l'unica pretesa di poter esprimere ciò che si è, ciò che si crede, ciò in cui si crede, senza riflettere sulla funzionalità commerciale di un prodotto prettamente discografico; e questo, aprendo bene le orecchie, sul cd è chiaramente "visibile".
Per una volta ancora gli S.N. hanno voluto dire: nient'altro che noi stessi, noi ed il mondo; questa è la nostra musica: prendere o lasciare...
Sacha Tilotta
sacha79@hotmail.com
Radiohead
Kid A
Capitol
Plauso ai Radiohead, reinventarsi ogni volta, seguire, anticipare e persino sviare il passo della modernità in musica. Addirittura flirtare con un futuro di suoni nuovi gelidi struggenti. Peccato. Ho amato i Radiohead alla follia soprattutto per “The Bends”, un mastodonte, un magma d’estasi di caldo pop-rock dalla prima all’ultima nota. Li ho poi rivalutati per OK Computer, idee sconclusionate, stanchezza, kitcherie gratuite: un fallimento all’insegna del trend. In Kid A la band di Yorke si riprende, non c’è che dire: brani ben costruiti, suoni azzeccatti ed elettroniche degne di maestri del genere. “Idioteque” quasi c’impazzisci dalla bellezza. “National Anthem” spara nelle orecchie un calderone di jazz e cacofonie che dalla band davvero non t’aspetti – provate a immaginare un’impro di Ornette Coleman su base dub. “How to Disappear Completely” rispolvera invece un folk bucolico come loro soltanto sapevano fare. Un buon disco quindi, ma a tratti vuoto, noioso. Il loro genio stava nel creare un pop-rock tanto classico quanto carico d’atmosfere che buona parte dell’ambient tutta se l’è sempre sognate. Che dire, a mio avviso quest’inversione creativa post-rock-elettronica-cool-trendy-yeah, pur avendo dato alcuni ottimi frutti, non era affatto necessaria. Per il prossimo capolavoro dei Radiohead c’è ancora da aspettare. Kid A può al massimo rendere piacevole l’attesa.
Alessio BakuniM
Vanderbudet@yahoo.com
90 DAY MEN
(It is it) Critical Band
Southern
C' e' qualcosa di minaccioso nella musica dei 90 Day Men, formazione trapiantata a Chicago dalla natia St. Louis, qualcosa di implosivo che cova sotto ogni canzone, come fossero percorse da condotte sature di gas pronte ad esplodere. Merito soprattutto dell’uso del basso, eredità di certa new wave (i Cure della "trilogia", i PIL, i Birthday Party, i Joy Division, ma anche il Mike Watt dei Minutemen a dirla tutta NdLYS) che si svincola dal suo ruolo di strumento-cerniera melodico-ritmico per diventare perno timbrico, percorso alternativo. E' lui lo strumento chiave di "Critical Band", uno degli albi più catarticamente influenti dell’America A.D. 2000.Più che per i singoli episodi, e' il tono che percorre tutto il disco che lascia storditi, l’epilessia Blonderedheadiana di "Hans Lucas", lo scontro Don Caballero-Gang of Four sul campo di gioco di "From one Primadonna to another", i dieci minuti di "Super Illuminary" che accendono il combustibile perso dal serbatoio dei Tortoise come fosse grisù dentro una miniera, o ancora il finale di "Jupiter and io" ovvero quello che i GvsB non hanno mai osato essere, pur sguazzando nell’analogo tono distaccato e straniante che fu di Scott Mc Cloud. E' il noise dell’era post rock, la new wave del XXI secolo, spigolosa ed assieme ricurva, apologia di un malessere sottile e subdolo, pernicioso, sfuggente.
Franco "Lys" Dimauro
Third Eye Foundation
Little Lost Soul
Domino
E' un mondo dove piccole anime perse cantano il loro scoraggiamento nell'eterno crepuscolo di cui sono testimoni; malinconia dolce quella di Matt Elliot e (da non confondere la malinconia con la tristezza) con la forza di sperare ancora come ricorda " Lost " che in qualche modo mi ricorda i Madredeus: arpeggio di chitarra e voce femminile con coro (con la C maiuscola perché qui non si sta parlando di back vocals o coretti più comunemente detti, bensì d'un vero Coro che in più parti emerge fra le complesse poliritmie e gli artefatti arrangiamenti per orchestra sintetica con esiti sorprendentemente acustici).Per chi è convinto che l'elettronica non è solo una questione di dance hall, "Little Last Soul" esce dai canoni temporali, non v'è più passato, presente o futuro bensì un mondo a parte, scuro ma non per questo malefico, anzi il contrario. Un plauso anche ad Ulcle Vania per l'Artwork e le fotografie che ti riportano ad altre epoche e Matt Cooper per le manipolazioni.
Nino Martello
U 2
All that you can’t leave behind
Island
Pekkato. La colonna sonora di "Million Dollar Hotel", pochi mesi prima, mi aveva fatto ben sperare. Non che mancassero episodi dal dubbio gusto, ma si insinuava, in quelle canzoni che si liberavano dal peso di un’elettronica posticcia e tornavano a diventare umorali, la speranza che gli U 2 potessero non dico tornare ai vertici lirici di dischi come "October" o "The unforgettable fire", ma perlomeno alla dignità del "periodo di mezzo" (quello di The Joshua Tree e Rattle & Hum, per capirci NdLYS). "All that you ...." invece è più terribile di "Achtung baby", "Zooropa" e "Pop" messi assieme. Sciolta la patina di suoni a la page che avevano caratterizzato la svolta degli anni novanta, si è smascherata la pochezza di cui si nutrono le canzoni degli U2. Come un pagliaccio a cui si scioglie il cerone e cessa di farci ridere, "All that you can't leave behind" lascia sbigottiti e attoniti per la disarmante incapacità di lasciare il segno. Gli U2 si afflosciano su un cliché, si autocelebrano, si rotolano nel fango del loro porcile, senza sforzarsi di gettare lo sguardo oltre il recinto, che è il minimo si chieda ad un artista, figurarsi a quello che viene celebrato come "il più grande gruppo rock vivente". Mi spiace per loro e per chi recensisce i dischi solo leggendo le veline delle case discografiche, ma qui di vivo non c' è nulla. Come i zombies di Romero, stanno in piedi a stento e vomitano sangue. Ma perlomeno quelli ti mordevano. Questi avrebbero bisogno di una protesi dentaria. Un disco che non riesce manco a farci piangere, che è privilegio dei grandi artisti. Solo un disco inutile. Il cui rumore migliore è quello che fa scivolando nella tazza del vostro water. Ho come l' impressione che tra petizioni pro-Amnesty, incontri con D'Alema, dichiarazioni di amore universale, gli U 2 abbiano dimenticato a fare quella cosa che li ha resi miliardari, i musicisti.
Franco "Lys" Dimauro
AA. VV.
Vintage Volts
Early Modulations
Bisogna subito sottolineare che questa compilation non contiene solo alcune delle composizioni più belle e ardite dei primi pionieri della musica elettronica, aleatoria e concreta, ma ospita al suo interno alcune delle più importanti pagine di tutta la storia della ricerca sonora. Può parere strano che si possa inserire tra i primi dieci dischi del 2000 una ristampa, per di più una compilation di vecchio materiale che spazia dal 1939 di Imaginary Landscape N.1 di Cage alla storica Silver Apples of the Moon del 1967: eppure basta inserire il CD nel lettore per capire quanto attuali siano ancora questi suoni, e soprattutto in qual misura queste ricerche ponessero le fondamenta di tutte le varie scene techno-elettroniche e sperimentali-ambient-microwaves degli anni prossimi e recenti. Insomma Vintage Volts è per me il disco emblema del tanto propagandato 2000, un esplorazione delle radici del presente attraverso le scommesse e le ipotesi di un futuristico passato, chiaro documento di come tutta la musica popolare contemporanea ponga le basi nella lontana epopea dell’avanguardia più anarchica e temeraria. E così l’isolazionismo ante litteram di Ussachevsky e Luening in “Incantation” sorprende per l’inaspettata attualità, “Bycicle Built For Two” di Max Matthews documenta i primi esperimenti vocali nel campo dell’elettronica (di qui al vocoder il passo è breve), mentre la piece concreta di “Etude aux Chemins de Fer” vede Schaeffer alle prese con suoni metallici di treni e rotaie (mi si darà del folle ma la tecnica compositiva collagistica mi fa venire in mente niente meno che il celebratissimo e iper-criticato Dean Roberts di All Cracked Medias… ), colpisce poi dritto al cervello il frizzare metallico di Concret PH, piccola perla del grande Xenakis; lascia senza parole la delizia “ambient” aleatoria di Cage, Imaginary Landscape N.1, che si propone il compito di offrire “un’apertura all’assenza di volontà”. Come se non bastasse troviamo in conclusione “Silver Apples of the Moon” di Morton Subotnick, primo esempio di ritmo plastico sintetico nonchè capolavoro assoluto e pietra miliare di ogni elettronica. Tante le ipotesi azzardate e poi divenute realtà da questi artisti. Solo un dettaglio forse non si sarebbero immaginati, ovvero che nell’anno 2000 anche il pubblico più giovane del rock underground sarebbe stato in grado di apprezzare e amare le loro inaccessibili e rivoluzionarie composizioni. Che poi, sottolineamo, rivoluzionarie lo furono davvero.
Alessio BakuniM
Amon TobiN / Supermodified
DJ FooD / Kaleidoscope
Ninja Tune
D'impatto l'iniziale "Get your smack on ", funky acido che fa intuire quanto il nostro sia bravo col ritmo. Anche i suoni di batteria, il "tocco" con cui viene pestata e sfiorata e la dinamicità che anche i pezzi più lenti riescono a contenere fanno di Amon Tobin uno dei maghi del ritmo (forse non è solo un caso la sua cittadinanza brasiliana). Ma non solo ritmo: armonia, melodia, dissonanze organetti, pernacchiette percussive insalivate, chitarre acustiche, fiati arrugginiti, stridii silicici ...
Slowly: sincopi dolci, tromba che profende speranza sullo sfondo d'un tramonto che promette un domani migliore. Con "Marine Machines " cala la notte, luna piena. Un'orchestra di fiati appesantita dal buio incede drammaticamente su ritmi filtrati in acquitrinose paludi (ricorda vagamente il jazz orchestrale di Dark city o alcune trovate dei Dust Brothers in Fight Club). Una discese all'inferno supermodified, niente sembra riesce a contenersi, così sporco e grezzo. Sta proprio qua il suo fascino." Rhino Jockey " è la testimonianza di quest'Ade: riff claustrofobico, rullante suonato da qualcuno che saltella sui tizzoni ardenti e Pan in persona che suona il suo flauto trionfalmente; sarebbe una faccenda alquanto interessante vedere le coreografie di dannati e angeli felicemente caduti che danzano. Anche Kaleidoscope di Dj Food riempie sempre più di risonanza il proprio sound, arrangiamenti classici d'uno swing per discoteche del futuro. Anche qui atmosfere cinematografiche che sembrano provenire da qualche anomalia degli anni cinquanta: thriller sound, se vogliamo farci prendere la mano, con tanto d'inseguimenti, voci narranti anche alla maniera degli MC5, pin up in bianco e nero che t'ammaliano. Musica di difficile collocazione temporale pur essendo figlia di macchine e studi evoluti, che a tratti qualcosa di primitivo (vale anche per Amon Tobin) che nei paesaggi notturni riesce ad emergere. Ma c'è anche aria più leggera in altri pezzi ("the riff", "The agling young rebel " con Tal Ken Nordine) Jazzy nella forma eavy-listening in Nocturne (sleep Dyan1). Sarà che questa gente vive prevalentemente di notte o nella profondità di se stessa.
Nino Martello
David Grubbs
The spectrum between
Drag City
Ricordate gli "Squirrel Bait", i "Bastro", i "Gastr del Sol"? Tutti progetti del nostro amato-odiato David Grubbs. Ebbene, dimenticateli, perché questa è tutta un'altra storia; sarà perché l'aria di New York (attuale residenza di Grubbs) lo inebria al punto da sfornare eteree ballate stilisticamente perfette, sarà perché l'aria di Chicago era continuo sinonimo di post-rock, sarà perché è davvero innamorato?! Sarà quel che sarà ma l'ex Gastr del Sol sforna non un disco, bensì un viaggio che si snoda tra il folk più tipicamente "made in Kentuky" al minimalismo che, in tutto il mondo ha ormai fatto scuola. "The spectrum between" é un lavoro assolutamente ben studiato, dove ogni singola canzone prende spunto da banali(?!) episodi di vita quotidiana, senza i quali, per altro, come lo stesso Grubbs ci dice, non riusciremmo ad afferrare la magia e la complicatezza della vita stessa. E allora tra gli arpeggi fatati di "eagull and seagull", le mitiche progressioni ritmiche di John Mc Intire (Tortoise), le straordinarie ballate folk "gloriette" e "Whirlweek", i minimalismi incessanti di "Pink Rambler" e "Stanwell perpetual" e le splendide songs" a Shiver in the Timber" e "Two shades of Green" (nata da un'indecisione di colore sulla scelta di dipingere una parete verde) fanno ben comprendere che David Grubbs ha voluto anche questa volta spingersi verso qualcosa di assolutamente differente, cercando di esplorare momenti di apparente insignificanza, semplici episodi di quotidianità, al fine di estrapolare da essi elementi peculiari di una società che guarda al caos ed al complicato pur di trarre qualcosa di diverso ed originale, dimenticando però che, oggi come oggi essere "davvero" originale significa sondare il presente, giorno dopo giorno, e trarre dal "semplice" la vera essenza delle cose, l'essere"davvero"se stessi; direi che c'è davvero riuscito.
Sacha Tilotta
TRANS AM
Red Line
Thrill Jockey
La musica dei Trans Am rappresenta essenzialmente buona parte dell’immaginario collettivo di tutti i giovani occidentali cresciuti in quel miscuglio di estetiche futuriste e marziane – a livello musicale, ma più in generale culturale ed estetico - che furono gli 80’s. Di quel periodo i Trans Am ripescano un po’ tutto, dai polpettoni hard più commerciabili al synth pop più becero. Il risultato di tale operazione è un grande minestrone wave e post-moderno che conserva la peculiarità formali delle musiche mainstream degli 80’s, riproponendole però – è questa la novità – in una versione hard, allucinata, claustrofobica. Musiche che vanno avanti senza soluzione e senza sbocchi: se Duran Duran e Depeche Mode volevano essere macchinette da passatempo, e se i D.E.V.O. si meccanizzavano e devolvevano conservando pur sempre una certa dose d’ironia, i Trans Am ci parlano di un mondo senza soluzioni, nero, sporco e brutale. Red Line rappresenta quasi un ideale colonna sonora per distopie cinematografiche quali Blade Runner o Fight Club. Dentro ci si trova di tutto, dall’elettronica al pop, passando per bozzetti avanguardistici, hard rock e scazzi per sole percussioni. Tra la varietà enorme di musiche e di idee spiccano “I Want It All”, grandioso synth pop cyber-dark, e “The Dark Gift”, composizione di 9 minuti che parte acustica per poi esplodere in impennate rock da antologia. Tutto sommato Red Line non è un capolavoro, anzi, ha i suoi punti morti. Preferivo forse i Trans Am di “The Surveillance”, più adrenalinici ed essenziali. E’ comunque un disco che soltanto per le innumerevoli perle sparse all’interno dei suoi 70 e passa minuti merita di sicuro l’acquisto.
Alessio BakuniM
A SHORT APNEA
Ill uogod ellat hragedia
Wallace/Beware!
Benvenuti nel luogo della thragedia. Il mondo rotola, suonando sordo come un bidone di scorie industriali. Agonia devastante, delirio allucinante sotto la polvere delle stelle, comete che inciampano nella loro folle corsa, guardrails divelti, luogo della memoria, opaco incresparsi dei nervi, asfalti che si bucano. Dub algido, le mucche di "Meat is Murder" infettate dal morbo pazzo, i vermi di "The caterpillar" che brucano merda. Nuovi Edifici che Crollano. Radars che intercettano frequenze spurie: c' è vita su Marte, e non è peggio della nostra. Eugene che salta sull’Interstellar Overdrive. Il White Album spurgato di ogni nota, doppio vinile carico solo di messaggi subliminali. I Godspeed You Black Emperor! Cacciati a calci in culo dal palco. La musica di ASA non campiona: sperona. Dislessica, si muove in diagonale, veloce-in-avanti-pendente-verso-destra. E in questa folle corsa trascina con se brandelli di memorie. Arie Italiane, coretti da modernariato pop, nastri magnetici, loops ritmici, campane da raduno cattolico-paesano, padelloni metallici. Si sbriciola, tracima, si snoda e si annoda. E muta anima. Si squarcia. Non mostra denti, ma carie. Tosse secca. Cancrena. L’unica psichedelia attuabile all’alba del nuovo secolo. Sutura visionaria di un mondo spaccato tra l’abominio industrial-tecnologico e il rigurgito della coscienza ambientalista.
Franco "Lys" Dimauro
CUT
Will u die 4 me?
Gammapop
L’album dei CUT, uscito il 19 febbraio, è un discorso di suoni, una storia (almeno, a me piace immaginarla così) che si snoda in 12 pezzi, una storia da immaginare, da guardare ad occhi chiusi, ascoltando. Si tratta di rock graffiante, compatto, sofisticato – ma senza perdere nulla della sua aggressiva energia – dalla voce femminile della band. Questa voce non la incontriamo subito: il disco si apre con l’arrabbiata “doc’s blessing”, poi si esce a gran velocità “out in the street” e, solo a questo punto, la cantante risponde alla voce che le urla e le domanda: “will u die 4 me?”. Una trovata intelligente che, insieme ad altre, dona all’album lo spessore di una vera e propria performance creativa. E questo uso così dinamico, quasi teatrale, delle voci, attraversa tutto il disco: lei, sola, si racconta in “sugar babe”, accompagnata da uno stuzzicante motivo di chitarra e da un ritmo coinvolgente. Dialoga poi con le voci maschili del gruppo in “superbad”, intensifica l’energia in “go!”, co-protagonista la musica, fa quasi ballare in “run away” (e fa ricordare, in qualche punto, la P. J. Harvey più morbida e meno tenebrosa di, ad esempio, good fortune), si canticchia con ironia in “too much style”…Ci sono decisamente tante idee concentrate in una buona mezz’ora di buona musica, e last but not least, la chiusura, da “metamusica”, dell’album, con la “dirty lil’ bitch” che dalla radio della macchina del suo cliente ascolta la chitarra di “sugar babe”, mentre noi siamo ormai senza fiato…
Trude Macrì
trudema@yahoo.com
YUPPIE FLu
The Boat E.P.
Homesleep
Bello sorprendersi italiani. Capita sempre più sovente di imbattersi in dischi italiani fatti con quel pizzico di genio, quella scintilla che li rende piccoli inseparabili compagni delle nostre storture quotidiane. Con gli Yuppie Flu è successo di già, a dire il vero. Ai tempi di "Automatic but static", che teneva su il Pavimento proprio mentre questo iniziava a krollare, e poi con "Yuppie Flu at the Zoo", ancora ciondolante di un indie pop che mi piace immaginare in giro col pigiamone, mezzo addormentato e svogliato, addossato alle pareti dei corridoi nei tardi risvegli primaverili. "The boat" verrà ricordato per essere "il disco che ha fatto innamorare la Rough Trade" visto che così pare stiano i fatti. E ne ha ben donde. Si parte con "Boat or Swim", sospesa da qualche parte tra il Beck di "Mutations" e i Pavement di "Brighter the corners", una tropicalia intorpidita e sbadigliante, praticamente perfetta. Di quelle canzoni che hai paura di riascoltare per non scalfirne la bellezza, per non rubarle il mistero. "The blue experiment" è sinuosa e morbida, tra Swell e dEUS, "Order the player off the field" ha l’irruenza discreta delle cose migliori degli Yuppie. "A song’s a song" ci riporta dalle parti di "Sister Dew", "Kids up a house tree" è percorsa da piccoli scampanellii elettronici ed ha la grazia di quei gingilli infantili che per primi ci stuzzicarono l’udito. Sublimi.
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