Il primo, il disco omonimo del ‘98, è stato un colpo allo stomaco. Violento e rumoroso, incazzato e incompromissorio. Il secondo, 1000 Doses Of Love del ‘00, è stato un colpo al cuore. I toni duri dell’esordio si smorzano leggermente e mostrano i nervi scoperti della loro anima blues. Il terzo, You Kill Me ‘01, è stato un colpo in testa. Più maturo e articolato dei precedenti presenta al suo interno svariate sfaccettature, e l’ironia, una delle migliori armi della band, incide più in profondità che in precedenza. Da GammaPop eccoli ONE DIMENSIONAL MAN: Pierpaolo, Dario e Giulio, ed io ho avuto il piacere di intervistarli.
S: Il nuovo lavoro mostra un lato per certi aspetti inedito della vostra musica, mi sembra ci sia stata una maggiore cura per la melodia, i pezzi suonano più “pop” (termine da prendere con le dovute cautele) e comunque sicuramente più diretti che in passato. Si ha anche l’impressione che il suono della band abbia raggiunto una sua peculiarità. Tutto questo è stato una ricerca consapevole a livello compositivo?
G: Direi che è stata l’evoluzione naturale della nostra ricerca musicale, in questo periodo è venuto fuori questo. Il lavoro di un anno e mezzo a questa parte è “You kill me”, non avevamo uno scopo da raggiungere.
D: Da un certo punto di vista comunque lo consideriamo un lavoro più di spessore rispetto al passato, rispecchia un background che si è allargato.
S: Anche a livello di missaggio e registrazione mi pare che per certi versi una parte delle asperità del passato siano scomparse, inoltre pur rimanendo un album molto coeso presenta maggiori eterogeneità al suo interno.
P: Il disco è stato registrato da Giulio, l’obiettivo era quello di trovare un suono il più possibile corrispondente al modo in cui percepivamo ogni pezzo. Per esempio “This man in me” è una canzone in cui a livello di mixaggio ci abbiamo messo le mani un po’ addosso, l’abbiamo resa molto anni ‘80, però anche dal vivo la suoniamo così.
G: Nell’album ci sono cinque o sei pezzi con un missaggio simile, due con un altro missaggio simile e un’altra completamente diversa, ma non’è che stona! Volevamo creare qualcosa di eterogeneo ma coerente. Immagino i pezzi come delle persone vestite in modo diverso, ognuno deve avere il proprio abito ma l’essenza è la stessa per tutti. Alla fine siamo molto soddisfatti del risultato.
S: La vostra musica per quanto curata suona molto istintiva, e questo personalmente credo sia uno dei più grandi pregi della musica rock. Quanto è importante l’improvvisazione all’interno delle vostra composizioni?
G: E’ molto sottile ma c’è, dal punto di vista ritmico non è molto rilevante, nella chitarra ce n’è molta di più, cerco di essere il più fluido possibile, mi lascio trasportare da quello che sta nascendo.
S: Molto spesso si parla della scena indierock italiana come di una realtà solida e consolidata. Io, che sto a Bologna, credo che non ci sia affatto una vera scena, ma tante piccole realtà veramente e assolutamente indipendenti. Voi vi riconoscete in questa fantomatica scena? Come è nata la vostra collaborazione con GammaPop, forse il miglior esempio di etichetta indipendente in Italia?
D: Per certi versi noi siamo sempre stati un po’ outsider, magari in alcuni luoghi si sono create certe scene vere e proprie, GP secondo me ha creato una scena a parte, non si è appoggiata a certi contatti esteri come altri, ha portato avanti il suo discorso autonomamente, e noi, parallelamente, abbiamo fatto una cosa simile. Proprio per questo alla fine ci siam trovati. Ci piace come lavorano, così quando ci hanno chiesto se volevamo fare un disco con loro abbiamo detto di sì, direi che ci siamo cercati a vicenda.
P: Forse GP riuscirà ad essere quel luogo, come etichetta, dove si potranno concretizzare progetti diversi.
S: Ma questo anche a costo di compromessi? Mi riferisco magari a un certo rapporto con i media, in un certo qual senso mainstream e comunque alieni dai classici circuiti indie. Come vi ponete nei confronti di tutto ciò?
G: Se ti riferisci per esempio alla possibilità di andare su MTV, ti dico che ci andremmo anche noi, se ci chiamano perché non dovremmo farlo? Questo è il mondo e così van le cose, l’importante è rimanere se stessi sempre.
P: Noi non siamo dei radicali indipendenti che pensano che il fatto di essere indipendenti sia importante come se si trattasse di una qualifica. Che cos’è questa cosa dell’essere indie? La cosa più figa che può succedere è che una realtà al di fuori delle grandi risorse riesca a vendere 10-50-100.000 copie di un disco, vorrebbe dire aver cambiato un po’ la testa della gente, cioè che non tutti ragionano con MTV sparata nelle orecchie. Sarebbe molto bello.
S: Visto che siamo in tema, e ne avete l’occasione, ditemi secondo voi quali sono i problemi Italia a livello musicale? Cosa dovrebbe cambiare nelle strutture e nelle mentalità perché il nostro paese smetta di essere culturalmente provinciale?
P: Se mi devo lamentare di qualcosa è del pubblico.
G: C’è ‘sta cosa qua tipica dell’Italia di cui i gruppi americani rimangono stupiti quando vengono a suonare da noi, cioè che magari hanno un gruppo spalla altrettanto valido rispetto a loro che quando suona la gente sta a due tre metri di distanza, appena arriva il gruppo americano tutti sotto a vedere l’America (!). In realtà guardano altrove. Però è anche perché manca un supporto reale dalla stampa, si dovrebbe lavorare molto di più per Italia e meno per il resto, sennò come cazzo vanno avanti le cose?
S: Immagino che uno dei momenti più difficili per il gruppo sia stato quando il primo chitarrista ha abbandonato la band, molti hanno indicato allora, con l’arrivo di Giulio, il nuovo chitarrista, come il momento della “svolta blues”. Vi va di parlarne?
P: E’ successo questo: se ne va il chitarrista che avevamo prima, io e Dario tiriamo un sospiro di sollievo perché diciamo “ok, si ricomincia da capo, vediamo che succede”. Incominciamo a fare dei pezzi da soli, il primo che abbiamo tirato fuori è stato “Lewis”, che è il pezzo blues per antonomasia, e abbiamo visto che ci interessava questo modo di fare musica. E’ arrivato Giulio, perché nel frattempo cercavamo un chitarrista, e lui all’inizio si stupì perché si trovò a suonare dei frame perfettamente blues, tradizionali, etc. Abbiamo iniziato così, ci piaceva ed abbiamo continuato così, alla fine è nato 1000 doses of love. Che non è un disco blues in assoluto. ODM esistono da quando è nato 1000 doses in realtà, io l’ho sentita come una rigenerazione. Cambiare chitarrista ha voluto dir tutto, tutto si è rimesso in discussione.
S: In più di cinque anni di attività, siete soddisfatti dei risultati raggiunti? Quali sono gli obbiettivi che vi prefiggete a livello artistico?
P: Io mi sento soddisfatto del lavoro svolto fino a questo momento perché mi sembra ci siamo costruiti un pubblico, un pubblico che ama quello che facciamo, e né sono orgoglioso. Di altre cose sono meno soddisfatto, mi piacerebbe che la mia attività di musicista mi creasse un reddito vero, invece mi devo fare un mazzo incredibile per vivere.
G: Sicuramente ci piacerebbe girare l’Europa che è una cosa che non abbiamo mai fatto. In Italia siamo stati dappertutto, sarebbe bello vedere il riscontro che ha la nostra musica all’estero, non è l’obbiettivo successivo, è il passo successivo.
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