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Music - Musicians - Interview | by SuccoAcido in Music - Musicians on 01/09/2002 - Comments (0)
 
 
 
Lo-Fi Sucks!

Se avessi chiesto ai Lo-Fi Sucks! di presentarsi brevemente a beneficio di chi non conosce la loro musica, sono quasi sicuro che con aria divertita avrebbero usato queste parole precise: “Noi veniamo da Genova e in quanto tali apparteniamo alla scena genovese”. Quello che segue è il risultato di uno scambio di impressioni avuto per posta elettronica con Pierpaolo “Doc” Rizzo e Matteo “MadtP” Casari, vale a dire due/terzi dei Lo-Fi Sucks!

 
 

SA: Nonostante negli ultimi anni sia cresciuta l’attenzione da parte della stampa specializzata, mi sembra che la musica indipendente italiana faccia ancora molta fatica ad avere intorno un mercato ricettivo (in termini di distribuzione discografica, di copie vendute e di spazi/opportunità per suonare dal vivo). Cosa vi sentite di poter dire in proposito?

M: Continua purtroppo a mancare il pubblico. Probabilmente non esiste una causa unica, un capro espiatorio. Tutti si impegnano. Ma, non essendo un mercato attivo (e qui il cane si morde la coda), tutti sono anche costretti a fare dell’altro, a non potersi dedicare 100% alla musica. E allora ecco che la reale portata degli organizzatori, dei musicisti e di tutti quelli che stanno intorno non raggiunge che il 50-70% di quello che potrebbe realmente fare. È difficile se non impossibile per molti coinvolgere le istituzioni in progetti indie. Perché la maggior parte di questi progetti viene da ventenni e lì senza la maturità del quarantenne non ti guardano neanche in faccia. E ovviamente tutto questo ricade sul pubblico che ignora molto di quello che succede, che non ha una reale concezione dei costi che la musica ha, che, quindi, si trova a discutere sugli ingressi troppi alti, che non ha la curiosità. Forse se ci fosse più curiosità in giro, da parte di tutti, ci sarebbero spazi maggiori.

P: già, credo che la mancanza di curiosità sia un punto fondamentale.

SA: L’attitudine dei Lo-Fi Sucks! mi pare molto rilassata, persino (auto)ironica in certi frangenti…Non credete che uno dei limiti maggiori di molti gruppi italiani sia quello di prendersi troppo sul serio?

P: Non so, ognuno faccia come si senta, non mi sento di giudicare l’attitudine altrui. La mia, sul palco come nella vita di tutti i giorni, è (spesso) improntata all’autoironia, è una vera e propria necessità, e finisce per avere anche i suoi lati negativi. In particolare, sarei curioso di capire quanto questa attitudine piaccia alla gente che ci viene a vedere dal vivo e non ci conosce. A volte non vorrei che l’ironia fosse interpretata come noncuranza per la nostra stessa musica...

M: La boria e la spocchiosità di alcuni è nota e sotto gli occhi di tutti. Io prima di entrare a far parte del gruppo ho conosciuto i LFS! come persone, prima che musicisti, e mi sono reso conto che le situazioni autoironiche erano pane quotidiano. Un po’ perché tra i modelli seguiti ci sono entità non direttamente legate alla musica, come i Monty Python; un po’ perché di questi tempi per non affondare ci sono rimasti solo pochi salvagenti…

SA: Ci sono musicisti italiani o stranieri che stimate in modo particolare?

P: Musicalmente sono troppi per poter essere nominati. In genere stimo i musicisti che hanno scelto di esprimersi in libertà, senza condizionamenti, che magari non riescono a vivere di musica, ma riescono a vivere la loro musica con serenità. Ma non posso negare di essere stato affascinato anche da alcuni tra quelli con una personalità più fragile, che nel tentativo di esprimersi liberamente, sono stati travolti da insicurezze, e la cui psiche ha finito per soccombere.

M: Personalmente io ho grandi amicizie che mi legano da tempo ai Candies e ai Giardini di Mirò, amicizie che portano in dote una stima incondizionata per le scelte attuate negli ultimi anni da entrambi i gruppi. Quest’anno sono anche diventato, in seguito al suo concerto qui a Genova, buon amico di Phil Spirito degli Orso (ex Red Red Meat…), una persona eccezionale, colto, simpatico, alla mano come pochi. Se per stima intendi modelli… Beh sicuramente persone che siano riuscite a coniugare la musica in tutti i suoi aspetti, suonare, registrare, scrivere, organizzare…

SA: Certi momenti di “Temporary burn-out” creano atmosfere decisamente cinematografiche…avete mai pensato di prestare vostri pezzi a colonne sonore o di comporre musica appositamente per qualche pellicola?

P: sì, ci abbiamo pensato, e non ci dispiacerebbe affatto. Ci sono state un paio di proposte per ora non ancora concretizzatesi. Vedremo.

M: A me piacerebbe sonorizzare documentari… No, non è vero, scherzo, odio i documentari… diciamo che partecipare con un pezzo alla colonna sonora di qualche bel film di Kevin Smith o i primi del maestro John Hughes sarebbero per me il massimo. Mettere i suoni dall’inizio alla fine di un film? Hmmm… Tentatore… Ma se il futuro fosse Dogma sarebbe tutto più facile…

SA: Com’è stata l’esperienza di suonare a Genova, la vostra città, di fronte al grande pubblico del Goa Boa Festival?

P: ignoravamo di essere stati scelti per il festival, e quando lo abbiamo saputo sono sorti subito i primi dubbi: non siamo adatti per quel tipo di situazione, non ci sarà nessuno a vederci (era la serata di Carmen Consoli e Max Gazzè, quindi il pubblico poteva non essere interessato molto né a noi né a Cornelius, che suonava dopo di noi), e via dicendo. Era anche il primo concerto con Mauro, il nostro nuovo batterista/fisarmonicista (!). Invece tutto è filato liscio, la gente che c’era ha gradito, e lo stesso Mauro era felice di essere partito con il piede giusto (a questo proposito date un’occhiata al tour diary sul nostro sito).

M: California… Here We Come! Abbiamo suonato sulla banchina, col sole negli occhi che tramontava e con le navi che passavano dietro la schiena del pubblico. L’effetto è stato quantomeno fico. Molto. Il concerto è andato benissimo, era la prima volta che suonavamo con Mauro, dopo sole tre prove. Ci siamo divertiti come dei matti. E Cornelius e il suo gruppo sono stati sotto il palco ad ascoltarci e abbiamo anche cercato di comunicare più tardi nel backstage… con scarsi risultati…

P: beh, dopo qualche tentativo abbiamo realizzato che non parlava inglese!

SA: In concerto a Firenze vi ho visto “suonare” anche un mitra giocattolo…L’utilizzo da parte dei Lo-Fi Sucks! di uno “strumento” così particolare rappresenta la volontà di recuperare una dimensione ludica della musica o piuttosto è il frutto di una ricerca “industriale” volta a portare “rumori altri” all’interno del vostro tipico sound?

P: Nella nostra musica spesso c’è una componente involontaria, che poi viene recuperata volontariamente... è il caso del mitra. Durante le registrazioni di TBO, Matteo aveva portato con sé tutta una serie di cose che potevano essere utili. Riascoltando un premix di All Beautiful Angels cercavamo di trovare qualcosa sul ritornello, e Matteo ha cominciato a ‘suonare’ quel coso, e ci si è detti: eccolo!

M: Il mitra è merito/colpa mia. Ho 23 anni (24 quando uscirà Succo Acido) e ho circa dieci anni in meno dei due frontmen. Da subito, da quando sono entrato ho cercato di giocare su questo fatto, sul fatto che io sono il bambino e loro no. E il mitra giocattolo, che per altro ha un suono che è meglio di molti synth in commercio, è l’arma giusta per scardinare ulteriormente l’idea di gruppo serioso. Ad esempio… Sai che negli ZZTop l’unico rasato senza la barba si chiama Frank Beard (Franco Barba)? Il gioco è lo stesso.

P: In generale penso che la dimensione ludica sia una parte della nostra musica: ogni suono/rumore può andare bene, a patto che però non snaturi il brano e non arrivi a deviare totalmente l’attenzione dal brano stesso. Non è una vera e propria ricerca, spesso accade, come per Angels. Sta a noi poi sfruttare la casualità.

SA: Una delle tendenze musicali più consolidate sia in Italia che all’estero è quella dell’incontro fra elettronica e strumenti suonati: da un lato la scena elettronica attinge sempre più frequentemente all’universo dei suoni organici ed acustici, dall’altro lato gruppi indie-pop o indie-rock usano la tecnologia per campionare strumenti e rumori. Come descrivereste il rapporto dei Lo-Fi Sucks! con l’elettronica?

M: Amore a prima svista… I tentativi si sono susseguiti su tutti i vecchi dischi, con il picco di Music For The Brain. Solo con Temporary Burn-out però, secondo me, tutte le intuizioni portate avanti hanno trovato un reale sbocco. In parte perché è cambiato il modo di comporre i pezzi, che nascono direttamente in casa con il computer e non più dalle jam in studio, quindi non è qualcosa di appiccicato addosso quanto di qualcosa connaturato al pezzo. Certo l’atteggiamento rimane quello di chi arriva dal rock, totalmente opposto alle tentazioni di chi arriva dall’elettronica come i Notwist, gruppo cui a volte siamo stati paragonati. Anche se con l’acquisto di un batterista e un campionatore serio ci stiamo muovendo anche noi verso territori ancora più decisamente di crossoverizzazione dei generi…

P: da ciò si può dedurre che chi spinge di più verso l’elettronica è appunto Matteo! Le idee che lui propone a Fabio e a me sono molte; insieme cerchiamo di fare in modo che il suono mantenga una sua unicità, slegandosi il più possibile da modelli di riferimento di qualunque tipo e area musicale. Quantomeno ci proviamo...

SA: Di cosa parlano i tuoi testi, Pierpaolo? C’è un tema ricorrente? Hai mai pensato di scrivere (e cantare) in italiano?

P: non mi ritengo certo un gran scrittore, quindi spesso mi trovo a parlare di cose che mi succedono, e spesso si tratta di ‘lettere’ a persone vere e proprie, magari quando non si ha il coraggio di dire certe cose a voce, direttamente alle persone interessate... e il fatto di scriverle (a dire il vero, spontaneamente) in inglese agevola ulteriormente il compito, un po’ vigliacco, di dire queste cose in maniera mediata dalla canzone. Un motivo in più, dunque, per non scrivere in italiano (cosa che cmq non mi appartiene molto, probabilmente perché ho sempre ascoltato musica in gran parte anglofona).

SA: Secondo me la musica dei Lo-Fi Sucks! è ormai definitivamente matura per poter essere esportata. Voi e la vostra etichetta vi state muovendo in questa direzione?

P: Anche secondo noi è matura! È assai difficile essere visibili all’estero... Comunque sì, ci si muove oltre il confine, vediamo nei prossimi mesi che succede...

M: Importiamo passivamente quantitativi di musica. È ora, finalmente, di muoversi in senso contrario.

SA: In “Music for the brain” c’erano due pezzi intitolati “Gastronomy domine” e “Lo-fi kraut”; in “Temporary burn-out” ancora due titoli programmatici come “Me and Nick Drake” e “He played Steve Shelley’s kit”…..questi espliciti riferimenti ai Pink Floyd, al kraut-rock, a Nick Drake e ai Sonic Youth sono solo un omaggio ai vostri musicisti preferiti o sono stati pensati anche con l’intento di spiazzare e ridicolizzare noi giornalisti musicali che ci affanniamo continuamente a trovare termini di paragone per descrivere la proposta musicale di questo o quel gruppo?

P: i titoli che hai menzionato non vogliono essere necessariamente dei tributi, né tantomeno mezzi per spiazzare. Ogni titolo di canzone, se non riferito al testo del brano stesso, ha ragione di esistere per motivi ogni volta diversi. A volte nascono casualmente (un giorno Fabio in moto mi dice: “ho pensato che Gastronomy Dominè potrebbe essere un bel titolo”, e lo era! Si è poi deciso di darlo ad uno strumentale improvvisato in sala prove), da giochi di parole (un lungo strumentale sezionato per Music For..., doveva chiamarsi LFKraut, e come se no?), da sogni (Me and ND descrive un sogno fatto da me 10 anni fa; all’epoca scrissi il brano di getto, e lo incisi. Doveva uscire su un album, rimasto poi inedito, dei Backwards, il mio gruppo dell’epoca), o da fatti (i 2$Guitar con Shelley alla batteria suonavano a Genova, e in apertura i Cary Quant di Matteo, il cui batterista appunto suonò il kit di Shelley; Fabio tornò a casa e diede quel titolo al brano che aveva da poco realizzato, allora strumentale).

SA: E’ il momento dell’ultima domanda…momento “Manhattan”….avete presente il film di Woody Allen nel quale lui, in crisi esistenziale e abbandonato dalla donna, si ritrova sdraiato sul divano di casa e sconsolato registra la sua voce che elenca tutto ciò per cui vale la pena vivere? Ok…adesso tocca a voi (spero comunque che voi non siate né in crisi esistenziale né abbandonati dalla donna…)…Ecco, in ordine sparso, le cose per le quali vale la pena vivere secondo Pierpaolo Rizzo e Matteo Casari:

le cose per le quali vale la pena vivere secondo Pierpaolo Rizzo:

- “mi manda raitre”

- i dischi dei bitòls napoletani

- la Nutella

- il Macintosh (HA!)

- internet superlento

- i plugin che non può usare

- le valvole dell’amplificatore

le cose per le quali vale la pena vivere secondo Matteo Casari:

- i Soliti Ignoti

- il gelato

- i giocattoli sonori

- Juliana Hatfield

- le mie sneakers

- l’ustione di ferragosto

- il mio ampli

 


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Reg. Court of Palermo (Italy) n°21, 19.10.2001
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Bibliography, links, notes:

pen: Guido Gambacorta

 
 
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