"Singing Through the Telescope" opera (quasi) prima dei varesini Encode, mi ha decisamente colpito fino dal primo ascolto. Dei suoni, delle sensazioni, delle impressioni sul disco ho già scritto (succo n.18), così mi è sembrato logico soddisfare la mia (e spero non solo mia) curiosità di conoscerli un po’ meglio. La chiacchierata (rigorosamente on line) con il batterista Andrea Cajelli, lascia intravedere un modo semplice e lineare di accostarsi alla musica da parte della band, senza tutte quelle attenzioni agli aspetti "merceologici" e "scenografici" che spesso accompagnano (ed inquinano) i progetti nascenti dei molti (troppi) gruppi rock italiani.
SA: Come, quando e dove nascono gli Encode?
AC: Ci siamo formati alla fine del 2000 con l’intenzione di mettere in piedi il classico "gruppo parallelo". Il luogo è Varano Borghi, un paese di 3000 abitanti a pochi chilometri da Varese. Più esattamente la sauna, adesso studio di registrazione, ma da una decina d’anni almeno sala prove frequentata da una miriade di amici. E’ qui che ci siamo conosciuti tutti. All’inizio eravamo in quattro, una specie di trio basso-chitarra-batteria arricchito dal violino, ma ben presto Andrea ha lasciato da parte il violino per dedicarsi quasi esclusivamente alla chitarra. Suonavamo nei ritagli di tempo una specie di post rock strumentale con molte influenze di noise duro. Nel 2001 abbiamo deciso di fare un paio di prove con Elena, che aveva già suonato con Matteo. La sua voce ha aggiunto una dimensione del tutto estranea al percorso intrapreso all’inizio permettendoci di diventare più ascoltabili e meno etichettabili di prima. Così è arrivata anche lei. L’ultimo ad arrivare è stato Marco, che con i suoi sintetizzatori (più evidenti dal vivo che sul disco) ha aggiunto una sfumatura ulteriore.
SA: Il nome della band ha un qualche significato o semplicemente "suonava bene"?
AC: Il nome della band significa "codificare". Ora, potrei stare qui mezz'ora a inventarmi motivazioni e giustificazioni, rimandi, esempi, proporti un'analisi musicologia della questione, o peggio ancora parlarti della funzione del codificare nel mondo della musica scaricata dalla rete, mp3 e via dicendo; ma l’unica cosa che so per certa è che non ricordo il motivo della scelta di tale nome. Qualcuno lo propose -non ricordo chi- ed è rimasto quello. Forse all’inizio c’era il rimando a qualche significato particolare, ma attualmente mi sfugge. Non credo neppure che suoni tanto bene, perché fa pensare a qualcosa di troppo tecnologico, sensibilmente in contrasto con la nostra musica, e forse può risultare anche un po’ pretenzioso…ma ormai ce lo teniamo.
SA: L’uscita per la Ghost Records rappresenta la vostra prima assoluta o avevate già prodotto/autoprodotto qualcos’altro?
AC: La nostra prima uscita ufficiale è coincisa con la partecipazione alla compilation "Ghost Town -13 songs from the lake county" due anni fa, sempre per Ghost Records. Siamo stati tra i promotori del progetto, che serviva a mettere in luce, quel poco che era possibile, alcuni gruppi di notevole talento che fanno parte del nostro "giro". Poi c’è stato un demo, registrato nell’arco di un anno e mai spedito, ed infine il disco.
SA: In ogni caso come nasce la vostra collaborazione con Ghost Records?
AC: E’ stato quasi un passo spontaneo dopo la compilation. Siamo amici da una vita di Francesco, il titolare dell’etichetta, e siccome lui fin dall’inizio si è mostrato molto interessato a pubblicare il nostro disco, per noi è stato naturale affidarci a lui.
SA: Non per fare il piaccione, ma la voce di Elena mi ha davvero colpito: talento naturale (questo è certo) con l’aiuto di qualche scuola o corso di canto?
AC: Elena non ha mai preso lezioni di canto. Da quando canta con noi credo però abbia trovato una forma più matura, o quantomeno più soddisfacente per lei. E’ sempre stata molto brava e ammirata, ma prima forse si rifaceva più chiaramente a canoni indie rock, e nel gruppo precedente, i bravissimi Nastjen’ka, era più orientata verso una dimensione "sonicyouthiana": puntava più sull’aggressività e il minimalismo, pur non essendo mai stata un’urlatrice. Adesso invece è emersa del tutto la sua anima melodica, improntata più sul jazz e addirittura sul soul in certi casi, e forse è per questo che molti hanno scomodato il nome di Beth Gibbons (un onore, per noi); anche se il parallelismo con Dolores O’ Riordan dei Cranberries (un onore anche questo, ci mancherebbe!) proprio non l’abbiamo capito.
SA: Potete signori musicisti anche in questo caso specificare se siete tutti degli autodidatti oppure no?
AC: Io e Marcello (il bassista) abbiamo preso qualche lezione all’inizio ma nulla che sia durato più di qualche mese. Andrea ha studiato violino da piccolo ma si è sempre dedicato alla chitarra e Marco credo abbia preso qualche lezione di chitarra classica più di dieci anni fa, ma ora suona le tastiere. Chi ha studiato di più credo sia Matteo, pianoforte per molto tempo quand’era piccolo, ma poi è finito a suonare la chitarra.
SA: Ho paragonato il sound della band ad un incrocio fra new prog, pop noise e post rock. Al di là della esigenza di un "critico" di categorizzare (quasi) sempre e comunque, avete qualcosa da aggiungere o da obbiettare?
AC: Premetto di non avere bene idea di che cosa si intenda per new prog. So che cos’è il prog e non ci trovo nulla negli encode, se non qualche stacco e un paio di ritmiche vagamente "spostate". Per il resto sono d’accordissimo con te. Il pop noise è la base da cui inconsciamente partiamo: per esempio i Blonde Redhead e i Sonic Youth rientrano nella cerchia dei gruppi che ammiriamo maggiormente. La melodia tipica del pop è qualcosa che cerchiamo (o meglio, Elena cerca) di inserire anche su basi di impronta più noise. Ma se tu ascoltassi gran parte delle nostre canzoni in versione solo strumentale cambieresti idea sulla nostra musica, perché spesso gli intrecci di chitarra non lasciano pensare ad un’apertura melodica. Elena, entrata nel gruppo quando metà delle canzoni del disco erano già state concepite come strumentali, è invece riuscita a mettere la melodia, e questo è stato importantissimo per noi. Per quanto riguarda il post rock penso che sia la nostra attitudine generale a farci entrare in questa "categoria musicale", soprattutto per certe atmosfere dilatate. Tutto sommato credo però che solo Before I wake sia una canzone post rock nel senso più stretto del termine, e infatti la canta Matteo, perché non era adatta alla sensibilità di Elena. Unsubstantial love invece è post rock nella ritmica, ma ha qualcosa di jazz che ha fornito ad Elena lo spunto per un cantato che con il post rock non ha nulla a che vedere.
SA: Ci siamo brevemente incontrati al M.E.I. di Faenza. Io non ho una grande opinione del panorama indie italiano e tendo ad attribuire la maggior parte delle colpe di questa situazione proprio ai discografici indipendenti ed a buona parte di quel clima che si respira in occasioni come il M.E.I.: band di scarso valore che giocano a fare i divi per due giorni, discografici piagnoni e squattrinati che producono un sacco di spazzatura cercando di venderla come oro, trafficoni di ogni sorta, mancano solo i nani e le ballerine e sembrerebbe di stare al circo. Cosa pensate in proposito? (del mercato, dei meeting, delle attitudini, ecc…)
AC: Posso dirti che sono aspetti che non ci interessano. Ovvio che abbiamo letto le recensioni del nostro disco e abbiamo gioito per quelle positive e ci siamo rattristati per quelle negative, ma il nostro rapporto con il mondo indie italiano finisce qui. Frequentando alcuni forum mi sono reso conto di quanta ipocrisia e leggerezza ci sia anche in questo mondo che dovrebbe essere immacolato e aperto a tutto, proprio perché indie(pendente). Il mei è stata l’occasione per un fine settimana diverso dal solito, è stato divertente, ma ho assistito a tutto quello cui hai accennato tu nella domanda. Se pensi che in tutto il marasma di gente che cercava contatti, scambiava favori, voleva inserirsi, e tutto questo, in teoria, in nome della musica, solo UNA persona si è fermata ad ascoltare il nostro disco nel lettore portatile che avevamo approntato sul banchetto, capirai che cosa intendo. Sembra quasi che la musica in tutta questa giostra sia l’ultima delle priorità. Capita spesso che prima della musica che fai vengano nell’ordine: chi sei, per quale etichetta esci, sotto quale agenzia stai per l’organizzazione dei concerti, sei amico di tizio e caio, quanto si è parlato di te per un motivo o per un altro. In pratica i meccanismi del grande mercato musicale applicati ad un non-mercato che boccheggia e non ha motivo d’essere, in questi termini. Non dico che sia giusto o sbagliato, perché ci siamo da sempre disinteressati di questo mondo e quindi non ne sappiamo abbastanza per giudicarlo in profondità: non per snobismo o supponenza, quanto per l’isolamento culturale forzato che ci ha imposto il luogo in cui viviamo ed "operiamo". Forse, d’altro canto, avremmo potuto/dovuto aprirci un po’ di più verso l’esterno, e con noi avrebbero dovuto farlo un sacco di altre band della nostra zona composte da nostri amici, ma il fatto che non sia accaduto è sintomatico della nostra refrattarietà verso gli schemi di cui ho parlato. Proseguiamo per la nostra strada convinti di quello che facciamo, senza aspettarci troppo da qualcosa o qualcuno. Se c’è da aiutarsi, lo facciamo tra noi, perché ha un senso, perché siamo amici. Abbiamo un sacco di amici che suonano in altrettanti gruppi a cui siamo legati per un motivo o per un altro e ci diamo tutti una mano. Ma non crediamo nella politica dello "scambio di favori", proprio perché è, appunto, una politica, e con la musica non c’entra. Detto questo rimango dell’idea che l’indie italiano abbia molto da dare, perché i gruppi buoni non mancano, anzi ce ne sono alcuni strepitosi, ma purtroppo c’è poca gente pronta a ricevere senza farsi condizionare da un sacco di sovrastrutture.
SA: Come sta andando il cd a livello di vendite?
Si torna al discorso di prima. Sta andando bene per quanto possa andare bene in questo "mercato" dove male vuol dire 100 copie, bene vuol dire 1000/2000 e strabene 5000. Se parti con la speranza di vendere e ottenere la gloria, ti accorgi subito che sono numeri ridicoli. Se poi parti con la speranza di guadagnare dei soldi, sei ridicolo pure tu. Se invece parti pensando che tutto sommato non sei motivato da altro che la tua passione per la musica e il divertimento e le belle esperienze che comporta il suonare in un gruppo in cui credi, allora i numeri perdono di significato. Hanno più significato per le etichette, in questo caso la Ghostrecords, a cui auguriamo di guadagnare tanti bei soldini per continuare a promuovere un sacco di gruppi meritevoli.
SA: Nel limite del possibile "singing through the telescope" dove dovrebbe/potrebbe portarvi? Con ciò mi interesserebbe anche sapere se il cd è stato distribuito solo in Italia od anche all’estero.
AC: Il disco è distribuito, sporadicamente, anche in Inghilterra e Olanda ma so che la Ghostrecords sta lavorando per solidificare ed ampliare la distribuzione in buona parte dell’Europa. Spero che ci porti, almeno una volta, a suonare a Londra, o Berlino, magari in qualche locale storico! Il nostro fare musica è basato su due aspetti fondamentali: prima di tutto è un’esigenza espressiva, poi è un veicolo per togliersi qualche soddisfazione. Non per "spaccare". Non abbiamo la forza fisica e mentale di proporci all’infinito e dappertutto, di scassare le palle a promoters, locali, distributori, etichette, di imbarcarci in tour massacranti. Ci piacerebbe anche, ma tutti abbiamo una vita che ci permette di dedicare agli Encode uno spazio finito del nostro tempo. Per cui alla fine si tratta di riuscire a vivere qualche esperienza fuori del comune e di raccogliere qualche riconoscimento. E soprattutto continuare a suonare e a credere in quello che facciamo. Tutto qua.
SA: Qualcosa a proposito della vostra attività live, gioie e dolori, particolari od occasioni interessanti, ed una curiosità (ambasciator non porta pena…) del nostro editore feticista: descriveteci una vostra colazione dopo un concerto...
Ci piace suonare in posti piccoli e dall’atmosfera raccolta, preferibilmente senza impianto, direttamente dagli amplificatori (a parte la voce, ovviamente). I nostri concerti migliori sono avvenuti in queste circostanze. Questo è dovuto al fatto che lavoriamo molto sul suono dal vivo e spesso è difficile se non impossibile ricrearlo su grandi palchi amplificato da grandi impianti pieni zeppi di compressori, limitazioni di volume e cose simili. In quei casi se non hai un buon fonico che ti segue e ti conosce è un problema. Comunque ci siamo sempre arrangiati. La più grande gioia in un concerto sono stati i complimenti da parte di un mod (un mod vero! uno di cinquant’anni, con tanto di lambretta, cappotto mod, pettinatura mod, che suona in un gruppo mod e organizza feste mod) che ha affermato di essersi sentito come negli anni ’70 mentre ci ascoltava! Il momento di commozione più alto è stato una volta che in un locale vicino a Milano di fronte ad un pubblico composto prevalentemente da sedicenni punkettini c’è stata un’ovazione a metà canzone, cosa che non mi era mai successa in dieci anni di concerti. Sentirli così entusiasti quando invece ti saresti aspettato le bottigliate in faccia è stato grandioso. Momenti brutti mai, a parte le inevitabili menate del tipo "abbiamo suonato di merda" o "non sentivo un cazzo" o "hai sbagliato l’attacco del pezzo". Qualche concerto un po’ così, ma tirando le somme è sempre andata bene e ci siamo sempre divertiti. Colazione dopo il concerto: appena dopo il concerto, tipo alle 2 del mattino, una pizza è quasi inevitabile per almeno la metà di noi. Del dopo risveglio non so dirti molto perché fino ad ora non ci è mai capitato di fermarci a dormire in qualche luogo dopo un concerto e dunque non conosco le abitudini mattutine dei miei compari. Posso dirti che io non faccio colazione al mattino, anzi il mattino è proprio un capitolo della giornata a cui io non prendo parte, perché i miei bioritmi sono abbastanza invertiti. La mia colazione di solito è un piatto di pasta, cioè il pranzo all’una del pomeriggio. Non disdegno neppure il riso (bollito e saltato in padella con olio, cipolla e curry) e quando va di lusso un bel filetto di pesce persico cucinato al forno con rosmarino.
SA: Cosa fanno gli Encode nella vita di tutti i giorni? Lavorano studiano, cazzeggiano?
AC: Io e Marco, che siamo pure cugini, abbiamo uno studio di registrazione (la sopracitata sauna) vicino a Varese dove abbiamo registrato anche il disco degli Encode. Stiamo iniziando a farci un'attività seria, nel frattempo io scrivo di calcio su un giornale locale e Marco lavora in un’azienda agricola: alterniamo giorni di lavoro (anche 18 ore consecutive in studio e nelle altre attività) a giorni di studio (per aggiornarci sulle tecniche di registrazione e via dicendo) a giorni di cazzeggio riempiti in parte da selvaggi tornei a calcio, ovviamente su playstation. Marcello è specializzando in psichiatria, Matteo sta per entrare nella scuola di specializzazione in psichiatria, Andrea è giornalista e infine Elena insegna storia dell'arte in un liceo, fa quadri e sculture che ogni tanto mette in mostra in qualche galleria, ma ultimamente si dedica prevalentemente alla piccola Alice e alla prossima bambina che arriverà a marzo.
SA: Una domanda che sicuramente non vi ho fatto ed alla quale vi piacerebbe tanto rispondere (sono incluse la politica, il sesso estremo, le ricette di cucina, disquisizioni filosofiche e quant’altro)… Che cosa fareste se vi chiedessero un pezzo per uno spot televisivo offrendovi in cambio un’ingente somma di denaro? Rifiutereste come hanno fatto i Coldplay?
AC: Col cazzo! Quello sì che può cambiarti la vita…magari anche solo per una settimana, ma te la cambia. Basta che non sia una pubblicità che ha a che vedere con la telefonia mobile. In quel caso rifiuterei con un bel rutto al telefono, o meglio ancora in faccia se la trattativa si svolgesse di persona.
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