Volevo intervistare Cesare due anni fa. Era uscito da poco Closet Meraviglia e mi impressionò molto il concerto di presentazione di quel disco. Non se ne fece niente, più per la mia assenza che per la disponibilità di Cesare, sempre molto grande. Finalmente, in occasione dell’uscita del suo ultimo lavoro in studio, ci siamo potuti incontrare un po’ meno informalmente in un wine-bar della nostra città assumendo entrambi un atteggiamento il più oggettivo possibile nei confronti dell’ oggetto in questione: un’intervista al songwriter catanese più noir che ci sia da parte del critico pop italiano più improbabile che ci sia.
SA: Comincerei parlando del tuo ultimo disco: vuoi spiegarne il titolo?
CB: L’ho scelto mentre guardavo una raccolta di Posada, disegnatore messicano a cavallo tra ‘800 e ‘900: c’era questa illustrazione che si chiamava Gran Calavera Elettrica (Calavera in spagnolo significa teschio, n.d.i.). Mi ha comunicato un senso di antico, di legame forte con la terra, e allo stesso tempo di nervosismo, irrequietezza, ma anche di saggezza, e siccome io sentivo questo disco come qualcosa di poco rassicurante, pur avendo grandi spazi e cercando in qualche modo di accogliere l’ascoltatore, mi sembrava che il suono di queste parole incarnasse lo spirito di questo disco.
SA: Ha avuto una genesi particolare o è un progetto in continuità con i dischi che l’hanno preceduto?
CB: No, un po’ come per tutti gli altri dischi sono venute queste canzoni e le ho scritte. Rispetto ai precedenti forse ha avuto un filo conduttore più forte. Mentre gli altri erano un po’ più raccolte di canzoni, questo ha un filo rosso che le lega e, per come l’ho inteso io, volevo realizzare un disco che avesse l’attitudine della musica folk pur non essendo musica folk, con l’attitudine al racconto, all’esposizione dei fatti, a prescindere che siano realtà o leggenda, fatti che rappresentino qualcosa, privi di giudizio morale, solo per essere raccontati e trasmessi.
SA: Il disco è stato prodotto da te insieme a John Parish. Come ti sei trovato con lui?
CB: La collaborazione con John Parish è andata benissimo: lui ha aggiunto la sua classe e la sua eleganza, il suo gusto per il particolare, togliendo sempre; vedevo le mie canzoni rimpicciolirsi ma quando il lavoro era finito mi sembravano enormi: il suo ruolo è stato fondamentale.
SA: A me sembra che rispetto agli altri dischi hai perso in eterogeneità espressiva per guadagnarne in compattezza poemica…
CB: Si, forse è vero, perché le scelte, sia musicali che liriche, erano più organizzate, più precise.
SA: Già nei titoli, soprattutto nel trittico Orto degli Ulivi, L’Albero di Giuda e Apocrifo si nota una qualche affinità espressiva di tipo biblico…
CB: La Bibbia fa capolino da tutti i testi di questo disco; una Bibbia letta dall’intimo di un laico che non appartiene alla Chiesa o ad una confessione specifica. Credo che la Bibbia sia piena di spunti interessantissimi dal punto di vista letterario, e che la vita di Cristo narrata nei Vangeli abbia degli spunti morali fortissimi: non nego che negli ultimi due anni mi sono molto riavvicinato alla figura di Cristo. Ti ripeto: non è una scelta confessionale; è piuttosto un confrontarmi con qualcosa che è parte della mia cultura, ce l’abbiamo lì, viene dal nostro retroterra, dalle nostre famiglie.
SA: Un tema scottante ed attuale, visto il dibattito in corso sul crocifisso nelle scuole…
CB: La storia dei crocifissi lascia il tempo che trova: quelle sono rappresentazioni. Ci preoccupiamo più di avere un crocifisso in classe piuttosto che di quanto l’esperienza umana di Cristo sia attuale al fine della risoluzione di un sacco di problemi di convivenza, di gestione del mondo, del rispetto della Terra e degli altri, ed è legata ad un sacco di domande che mi sono posto anche dal punto di vista della fede: sarà l’età, non so, ma questa cosa non mi spaventa né mi mette in imbarazzo. E’ un percorso che è iniziato più a livello d’intelletto che di fede, ed è spuntato nelle canzoni quasi senza che me ne accorgessi, con le citazioni, con i riferimenti. Ad esempio, ne L’albero di Giuda c’è quest’immagine del Campo del Vasaio che i Farisei comprano col denaro caduto dalle tasche di Giuda suicida per seppellirci gli stranieri: mi piaceva l’idea che fosse un posto dove si mettono quelli che non vanno bene, gli sbandati; l’ ho scritta per i miei amici con cui passo le serate al chiosco, un po’ mi sembrava che ci meritavamo di finire nel Campo del Vasaio.(risate, n.d.i.)
SA: In G.C.E. ritrovo un linguaggio più poetico che mai ma ermetico, sussurrato, calibrato…
CB: Forse perchè vuole raccontare di più e spiegarsi di meno, lanciare un input che può essere interpretato in un modo o nell’altro da chi l’ascolta. E’ un pò come il folk: ti viene raccontata una storia e tu da questa storia ne trai gli insegnamenti o le testimonianze che riesci a intendere.
SA: Il nuovo disco si apre con un haiku, Cantico dei tarantati. E’ uno sfizio o una necessità espressiva?
CB: No, non accadeva dai tempi di La pelle. Le canzoni brevi mi piacciono per il loro senso dell’immediatezza che ti costringe a risentirle.
SA: In A che serve lo zolfo, sei partito dal punto di vista di quelli che scendevano nelle miniere per capire perché tante cose superflue costano sudore e fatica a chi le produce per il piacere degli altri…
CB: Sì, può essere una chiave di lettura di questa canzone. E’ la domanda che si fa un personaggio di Pirandello, che lavora in una miniera che poi va a fuoco. Lo zolfo è un’immaginario forte per la Sicilia; per anni è stato un punto forte di una certa economia, ha determinato un certo tipo di potere, ha creato un mondo ,una comunità, quella degli zolfatari, che erano dei fuoriclasse: non appartenevano né al proletariato nè ai ricchi. Erano i signori del sottosuolo, disprezzati da quelli che stavano in superficie per il loro lavoro nelle viscere della terra a contatto col Diavolo. Erano uomini costretti a vivere lontani dagli altri, che, per sopperire ai lunghi periodi di astinenza sessuale, si lasciavano andare all’omosessualità, violentavano i bambini che lavoravano con loro senza essere mai totalmente carnefici o vittime ma l’uno e l’altro. Mi piaceva l’idea di questa gente che per affermare la propria dignità non cerca di risalire ma scende sempre più in basso, come se questa scala che li porta sempre più giù fosse la misura di questa dignità.
SA: Com’è nata la collaborazione con Nada in Senza Sonno?
CB: La collaborazione con Nada la sognavo da tempo perché, a pelle, mi sembrava una persona vicina a me e soprattutto una che non ha paura del dolore: è una persona che ho sempre stimato al di là delle sue capacità artistiche che ho scoperto pienamente lavorandoci insieme. Questa è una canzone di dolore: parla di una donna che, dopo anni di vessazioni, uccide il marito per vendicarsi della miseria che è stata costretta a masticare. Nada mi sembrava l’unica che potesse dare corpo a questa storia e infatti non ho mai pensato a Senza Sonno come ad una canzone che potevamo cantare duettando: io volevo che il personaggio della tragedia fosse lei e secondo me è stata una scelta azzeccata.
SA: Ho trovato Pietra Bianca vicina allo stile da chansonnier, forse la canzone più…canzone di questo disco…
CB: Si, probabilmente è così. E’ la prima canzone che ho scritto dopo Closet Meraviglia, la più antica dell’ultimo album: era nata per essere realizzata solo con chitarra acustica e voce, poi, forse per la piega che hanno preso gli avvenimenti che me l’ hanno ispirata, la voglia di renderla più drammatica, d’ incattivirla, ha preso il sopravvento. Originariamente era una canzone d’amore, e lo resta.
SA: Per quanto riguarda il lato sonoro di quest’ultimo disco vi è stato un abbassamento dei livelli di potenza da rocker e un’ apertura alla forma canzone, non pensi?
CB: Forse perché volevamo lasciare più spazio alla voce, alla canzone stessa, cosa che negli altri dischi era stata un po’ trascurata. Abbiamo usato gli archi, scritti da John Bonnard ( Dead Can Dance, n.d.i.), in modo non tradizionale: sono strani, lottano con le chitarre per venire fuori, e mi piace questa dinamica che si è creata tra le parti musicali di queste canzoni.
SA: Una volta Nick Cave ha detto che non ascolta più i suoi dischi dopo averli incisi. Tu che rapporto hai con i tuoi?
CB: Io ho un bel rapporto con i miei dischi. Non li ascolto spesso ma mi piace tornarci su, anche per imparare dalle cose che ho fatto. Oltre che atto liberatorio nel momento in cui li s’incide, per un musicista sono il libro degli appunti da cui imparare continuamente. Penso che siano maturati bene, sono contento di quella che è la mia discografia fino ad ora e quest’ultimo disco è un punto alto del mio percorso artistico e musicale.
SA: Mi dicevi che una ragione di vita di queste canzoni è quella di suonarle dal vivo…
CB: Il bello di queste canzoni è che le puoi suonare come vuoi e non perdono mai la loro personalità. E’ come se esistessero a prescindere dall’arrangiamento, per cui le scelte che abbiamo fatto in studio sono finalizzate al disco, mentre la maniera in cui le eseguiamo dal vivo è più elettrica , più tesa, finalizzata all’incontro col pubblico. Le abbiamo suonate anche in unplugged e da quello che ho visto anche per il pubblico è la stessa cosa.
SA: Ora la tourneè…
CB: Abbiamo cominciato con qualche data. Come ti dicevo prima questa musica senza i concerti dal vivo, e scusa il gioco di parole, non vive. E’ una musica che ha pochi spazi nei canali ufficiali, ed è una musica viscerale, quindi dopo l’incontro col disco devi necessariamente incontrare dal vivo chi ha fatto queste canzoni.
SA: Il tuo rapporto col pubblico?
CB: Io voglio essere sempre più esigente nei confronti del pubblico perchè voglio che il pubblico lo sia nei miei. Credo che negli ultimi dieci anni ci sia stato un rilassamento da parte di musicisti e pubblico per cui l’ideologia della comodità domina: io sono convinto che musicisti, pubblico e, chi compra i dischi,debbano rischiare: il rischio è l’ unica base possibile per un rapporto vero tra chi fa musica e chi l’ascolta. In ambito commerciale tutto dev’essere facile e nessuno si deve sforzare, mentre io credo che in genere nei rapporti umani sia giusto guadagnarsi le cose, e questo vale per tutti gli attori della vita.
SA: Hai prodotto già qualche gruppo( Twig Infection, Loma). Come ti vedi in questa veste?
CB: Lavorare coi gruppi è un‘attività parallela a quella di suonare. Produrre è una bell’esperienza perché ti permette di stare accanto ad un lavoro diversamente da quando fai il tuo, con distacco. Io non riesco a distaccarmi dai miei lavori. Credo che il segreto e la bellezza di questo lavoro è che ti da continuamente occasione d’imparare. Alla fine un produttore dovrebbe tenere a bada la tentazione dei musicisti di sovraccaricare le canzoni con gli arrangiamenti ed evitare che si faccia più di quello che si deve fare. E’ come quando ci si veste: se non ha il senso della misura anche una donna bellissima diventa pacchiana.
SA: Hai avuto modo di assentarti dalla realtà italiana vivendo per cinque anni a Berlino. Cosa conservi di quel periodo?
CB: C’è tanto di quel periodo nei miei lavori: il muro era caduto da poco, vivevamo in uno squat a Berlino Est che in quel momento era il crocevia del mondo, una T.A.Z., e gli stimoli e le esperienze sono stati tantissimi. Io e le persone coinvolte in tutto ciò ne siamo usciti più forti, più maturi, umanamente e professionalmente. Senza quell’esperienza la mia vita non sarebbe stata la stessa.
SA: Cosa ti ha spinto a rientrare nella tua città natale?
Quando son tornato da Berlino non volevo restare a Catania. Hanno contato molti fattori: le contingenze, il fatto di non riuscire a non comporre le mie canzoni pur non suonando con la mia band e la Lollypop che ha deciso che piacevano e che valeva la pena di farne un disco.
Quando La Pelle è uscito, da un lato mi son fatto prendere dalla malattia dei siciliani che non riescono a decidere la ripartenza con immediatezza dopo essere rientrati, e dall’altro volevo vedere cosa si riusciva a fare in Italia proponendo delle cose diverse da quelle che si sentivano in giro. E’ stata una scommessa, non so chi l‘ha vinta o persa, ancora stiamo tirando i dadi…
SA: All’inizio dei ‘90 Catania è saltata sulla ribalta nazionale sia per le produzioni che si sono imposte in ambito pop sia per gli artisti che hanno raggiunto i suoi palcoscenici. Come vedi la situazione attuale?
CB: Se il ritornello stanco e stancante di Catania come Seattle la eleggeva capitale del rock io dico che Catania è la capitale delle occasioni perdute. Sono d’accordo con te quando dici che il livello dei musicisti e dell’attenzione sulla musica in questa città è cresciuto molto, ma se ci guardassimo bene intorno ci accorgeremmo che questa scena è isolata dal circuito internazionale e, cosa più grave, da quello nazionale.
SA: I musicisti con cui hai collaborato che percezione hanno di questa scena?
CB: Loro sono stati guidati da me in queste acque perigliose, posto che anch’io sappia farlo, e ne sono rimasti affascinati. Non è un caso che Hugo (Race, produttore di Closet Meraviglia, n.d.i.) torna spesso a lavorare in Italia e in qualche modo prende spunto da queste realtà. La prima cosa che ha conosciuto John Parrish di musica italiana è stato Ennio Morricone, la seconda Cesare Basile. Io gli ho fatto conoscere dei classici come Piero Ciampi, Tenco, De Andrè, tutti artisti che ritengo importanti per uno straniero che si avvicina alla musica italiana, e di contro gli ho fatto venire la curiosità per un mondo sommerso che comunque in Italia esiste.
SA: Ritieni che ci possano essere collaborazioni fruttuose tra la tua musica e qualche altra forma d’arte, come il teatro o il cinema?
CB: Conosco poco il mondo del teatro ma mi affascina l’idea di una colonna sonora, l’idea di lavorare con le immagini e la mia musica. Non escludo nulla, son cose che dipendono da chi ti contatta e dai progetti che ti vengono proposti.
SA: I paragoni letterari si sprecano nei tuoi confronti. Quali sono i tuoi referenti letterari?
CB: Lo dichiaro nelle note stampe che sono state inviate ai giornali per le recensioni, dicendo chiaramente quali sono e in quali canzoni ci sono citazioni o riferimenti ad altre opere. Io, fondamentalmente, sono uno a cui piace leggere molto. Non ho problema a sbandierarlo: il materiale delle mie canzoni viene da quello che vedo, dalle mie ubriacature, dalle notti passate con gli amici al chiosco e anche dalle mie letture: spesso derubo i libri di alcune frasi che calo di pari passo nelle mie canzoni, usandole anche per parlare di qualcosa che magari non ha niente a che vedere con il libro da cui le ho pescate.
SA: Film preferito?
CB: Quando torna l’inverno con Jean Gabin e Jean Paul Belmondo.
SA: Libro preferito?
CB: Moby Dick, Viaggio al termine della notte e un giallo qualsiasi dell’ispettore Maigret perché Simenon è un grande.
SA: Disco preferito?
CB: Dovrei citarne troppi ma una delle cose che continua ad affascinarmi senza sosta è Harvest di Neil Young.
SA: Tu pensi di inserirti nel filone cantautorale o non te ne senti parte?
CB: Se dipendesse da me cancellerei la parola cantautore dal vocabolario italiano: suona male e fa veramente schifo. Gli americani hanno questa bellissima parola che è songwriter, noi non abbiamo un equivalente.
SA: Hai dei modelli a cui t'ispiri?
CB: Ne potrei citare migliaia. Johnny Cash per lo spirito e la dedizione che metteva nei suoi lavori, bluesman come Skip James, Howlin’ Wolf e John Lee Hooker per la fisicità che trasmettevano, Nick Drake per la delicatezza, Neil Young per il suo modo di essere sempre trasversale a tutto, De Andrè per la curiosità tutta umana nei confronti dell’uomo.
SA: Dal vivo mi è piaciuta la rendition di Black Eyed Dog…
CB: E’ una canzone di Nick Drake, l’ultima che ha scritto prima di morire. Bellissimo farla perché non ha una struttura; noi improvvisiamo sempre con questo brano, ci diciamo che è il nostro momento e a volte dura cinque minuti altre un quarto d’ora.
SA: Oggi, a distanza di vent’anni, ti senti più rocker o chansonnier?
CB: Mi sento uno che suona la chitarra elettrica e canta le sue canzoni. Quando ho cominciato avevo diciotto anni e tanta voglia di scoprire le cose da solo dopo averle percorse insieme ad altri: volevo stare da una parte che mi permetteva di vedere le cose diversamente fregandomene se lo facevo bene o male, volevo essere libero di sbagliare: così è nata la mia voglia di fare musica, influenzata dal motto punk <>; alla fine il tempo di imparare a suonare ce l’ho avuto, suono un po’ meglio di allora, ma non mi sono stancato di sbagliare.
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