EUROBOYS/Long day's flight till tomorrow/Man's Ruin
Escono per un’etichetta stoner e vengono "passati" per un gruppo lounge-oriented. Ma gli Euroboys di Oslo non sono nè l'una nè l’altra cosa. Non li potrete mettere accanto ai Solarized nè fianco a fianco con le stanche raccolte Right Tempo. Nè tantomeno (malgrado la direzione intrapresa dal loro ultimo "1999 Man E.P." lasci presagire un nuovo cambio di traiettorie, NdLYS) tra Gluecifer e Turbonegro, le bands da cui provengono 2/5 del gruppo scandinavo. E' piuttosto un suono che si diverte nel gioco dei rimandi e delle citazioni, a generare flashbacks intriganti e musiche per soundtracks immaginifiche, metabolizzando di tutto, dai Wall of Voodoo (lo spaghetti western al rallenti di Deliverance) ai Seeds (il crescendo lysergico di Sex Kabin), dai Charlatans (la sobrietà pop di Filadelfia) a Henry Mancini (le astuzie filmiche di Transatlantic Phonecall), dagli Stones (le deflagrazioni turbolente di Golden Dust) a Santana (la bossa subacquea di Invisible Horse), dai Doors (il raga visionario di R 'n R Farmacia) a Lelo Schifrin (l’avvolgente corsa di Ambulance Cruiser). Sono musichette innocue, dopotutto, ma sapidissime. E che divertono come un gioco di luci ben congegnato. Se Brian Eno escogitò noiosissime musiche per sonorizzare ascensori, potete tranquillamente "rischiare" di fare di questo secondo album degli Euroboys la soundtrack della vostra accogliente casotta. Ne trarrete benefici inaspettati.
Franco 'Lys" Dimauro
STORM AND STRESS/Under Thunder And/Touch & Go
Qui le distanze si fanno epocali. Distanze enormi, da tutto il rock’n’roll che è stato e che avrebbe potuto/voluto essere sino a quest’umile accozzaglia di suoni dolci disarticolati scarni – chitarra, basso, batteria – gementi e pulsanti di un languore e di una poesia indicibili. Distanze incolmabili, abissi storici e generazionali che separano questo disco da una massa “sterminata” di pallidi lavoretti rock-ribelle-incazzato-alternativo – ormai pezzi da museo di mille gioventù bruciate – per marcarne la portata culturale ancor prima che artistica. Gli StormAndStress non solo riescono nell’impresa ardua di riassemblare e ridefinire le coordinate di quel rock’n’roll fatto a brandelli da Slint, Royal Trux, Starfuckers e US Maple – già di per se dignitosa ed ardua operazione di sintesi e rinnovamento formale – ma sono al tempo stesso in grado di neutralizzarne le tante scorie “destrutturative” che rendevano quel suono così arido ed impenetrabile, ridando alle canzoni una compattezza e un equilibrio tali da permearle di un’espressività forte e intensa, assolutamente aliena a tutte le scene sperimentali e alternative di questi ultimi anni. Il risultato si può riassumere col termine di “rock improvvisativo”, canzoni in forma free ove la struttura e il riff portante di chitarra, pur prefissati prima dell’esecuzione, non si ripetono quasi mai ad intervalli ritmici regolari. Ogni espressione sonora può quindi essere eseguita al di fuori degli schemi ritmici del rock classico, mentre i componenti della sezione ritmica – una batteria intenta a creare un tappeto percussivo disarticolato e nevrotico e un basso costantemente impegnato in giochi di volume e dilatazioni atmosferiche – svolgono il ruolo di collante di tutti i vari frammenti lirico-melodici dei pezzi. Abbiamo però affermato che quello degli S&S non è soltanto un esercizio di stile perfettamente riuscito. Ma che ci vogliono quindi esprimere con Under Thunder And Fluorescent Light? Che può ancora dire una band dalla formazione tradizionale nell’anno di grazia 2000? Verrebbe da dire - con un pizzico di banalità – che gli S&S ci comunichino l’impossibilità stessa di esprimere, o piuttosto il “rifiuto” stesso di comunicare, il fallimento del rock “post”-moderno come veicolo mediatico e dunque ideologico: “Credo che la nostra musica si possa considerare "innocente", in quanto non vuole avere alcun particolare significato. E' qualcosa di essenziale per comprenderci: siamo una band innocente. Innocenti allo stesso modo in cui lo sono i robot, o lo sguardo di Claudia Schiffer nelle foto di una rivista, o i palloncini alla festa di compleanno di un bambino. O anche di un'innocenza più spaventosa, che riguarda il modo in cui molte cose esistono senza che nessuno si accorga della loro presenza. Per esempio i cavi della corrente nei campi delle fattorie del mid-west, puntati verso le città. Sono imponenti, mostruosi, ma in fondo non esistono per nessuno”Ridurre il tutto ad una simile formula - ormai irrimediabilmente svuotata e abusata da mille post-rock e post-waves cotte e stra-colte – sarebbe però un insulto all’intelligenza di Williams nonché un abbaglio facile e scontato per accomodare i vari ascoltatori che cercano negli S&S semplici sottofondi per salotto. E’ infatti un superamento di questo vuoto comunicativo ed esistenziale – questa “lessness”, come direbbero i nostri compaesani Starfuckers – ciò che sta alla base di questo disco, una chiara presa di coscienza dell’enorme “paralisi” morale e intellettuale in cui ci tocca vivere, del tedio inconscio e automatico da cui è presa d’assalto ora come sempre la presente e prossima generazione X. Gli S&S altro non sono che il dramma di chi osserva le prospettive scialbe e disumane dell’oggi con l’ardore di un’umanità indomita ed energica, anche se pur irrimediabilmente svuotata. Sono lo stupore e il dubbio di chi rimane disorientato sotto un cielo “di lampi e luci fluorescenti”, sono la resa di chi vorrebbe “sentire” e soffrire di emozioni pure e profonde quali quelle di un Goethe ma si ritrova - privo di sentimenti - in balia di un freddo e squadrato “Mondo Nuovo” ove tutto è routine, sonno e benessere… Si possono distinguere chiaramente le tracce di questa tensione (post)-“romantica” nelle splendide pulsioni liriche dell’iniziale e delicata “the sky’s the ground…”, piccola perla di post-blues da camera (ma sì, proprio “post-blues da camera”…) che ti percuote, esige per se ogni attenzione e ti fa infine sospirare tra i brividi (non sto esagerando, credetemi), brividi che poi tornano forti con “it takes a million years…”, le sue progressioni umorali, il sussurrare impercettibile della voce, lo stridere metallico delle percussioni in sottofondo… altrove le coordinate sonore si spostano sul filo dell’ironia, dello scherzo sperimentale, come accade per i fraseggi sghembi sul finale di “2nd”, o per l’incipit di “an address…”. In altri momenti prevale invece l’austerità di un gusto tanto “neoclassico” quanto paradossalmente tempestoso e disarticolato, come in “3rd” o verso il finale di “meet me in the space…”. Non solo, ma nella prima parte di questa traccia si scorge addirittura uno spiraglio di foga nevrotica sghemba e schizoide, ben sostenuta dai cervellotici fraseggi della chitarra e dalla potenza e precisione della batteria. In “1st” si riscontrano le uniche pecche del disco: un po’ gratuiti i giochini ritmici di O’Rourke in fase di missaggio e tirato un po’ troppo per le lunghe lo sfarfallio psichedelico della chitarra sul finale del pezzo. Poca roba, in ogni modo, rispetto alla qualità complessiva dell’album, a mio avviso addirittura superiore al già acclamato precursore albiniano, sia per omogeneità sia per ricchezza sonora. Pur essendo innumerevoli gli spunti che si possono trarre da questo disco, una sola è l’impressione finale: Under Thunder And Fluorescent Light parla la lingua del capolavoro, per bellezza, per audacia, per importanza. L’unica paura è che qui si sia davvero toccato un limite estremo, limite oltre il quale ben poco rimane per quel feticcio salvifico che un tempo era il “rock”, forse solo qualche misero ripescaggio manierista e patetico nei vecchi e impolverati ripostigli della tradizione. Ma in fondo non ci frega, il futuro è il futuro, che poi non è mai, dunque godiamoci gli StormAndStress e del resto – di tutto il resto - sbattiamocene lieti.
Alessio BakuniM
JESUS LIZARD/Bang!/Touch & Go
I Jesus Lizard sono stati IL GRUPPO degli anni novanta. Nervosi, spiritati, catastrofici, taglienti, claustrofobici. Portarono il "noise" (ve lo ricordate ancora? O vi siete addormentati definitivamente dopo l’ennesimo ascolto dei solfeggi post dei Mogwai? NdLYS) al suo apice. Lo spinsero su, percorrendo le pareti scoscese del rumore, su su, in alto, fino a lasciarlo in bilico sul baratro, in una situazione da catastrofe imminente. Erano questo, i Jesus Lizard, prima che un disastroso contratto con la Capitol li ammansisse fino a ridurli alla parodia del loro stesso furore. Lo scioglimento che ne segui' fu l’emblema di un collasso che avrebbe affondato un’intera scena di massacratori del rumore. "Bang!" (quattro lettere, ancora e per l’ultima volta) e' l’epitaffio più congeniale per un gruppo estremo come quello di David Yow. Uno sparo. Anzi, tanti spari quanto sono quelli raccolti dalla Touch and Go per salutare il commiato del Cristo Lucertola. In mezzo a singoli, inediti e tracce live, lampeggia il genio folle di un gruppo che ha saputo far scoppiare il rock comprimendolo dapprima in un minimalismo sofferente per poi farlo sprigionare in un’eruzione catartica terrificante. Prezzo da "invito all’acquisto". Se non lo comprate avete proprio appeso cuore e cervello all’albero della cuccagna.
Franco 'Lys" Dimauro
BJORK/Selmasong/Polydor
Un album non ufficiale dell’artista? “Selmasong” colonna sonora del Film “Dancer in the Dark”, racchiude secoli di storia legati da quella che è stata sempre l’idea di fusione tra Orchestra Classica ed Elettronica. Solo Sette brani e quindi trentacinque minuti di musica che anche se sembrano pochi racchiudono un’intensità melodrammaticità teatrale non facile da intendere (già quasi realizzate in passato con “Post”, “Quiet”, o in “Like someone in love”, in “Debut”).Quest’idea presente per l’intero lavoro è rappresentata con evidente eleganza (track 3 “I’ve seen it all”), con il duetto tra Thom Yorke dei Radiohead, e direi anche (track 2 “Cvalda”) uno stile hollywoodiano, dove e dobbiamo dirlo il grande Vincent Mendoza orchestratore ed arrangiatore dell’intero album ne è creatore. Nei brani “Scatterheart” e “106 steps” vengono ad accostarsi suoni d’ambiente e ritmiche distorte, con quelle timbriche orchestrali quali marimba e celesta in linea tutto con le avanguardie elettroniche (Autechre, Squarepusher, LFO), dove Bjork controlla con l’aiuto dello stratega Mark Bell l’aspetto tecnico creativo. Finalmente non solo più cadenze orchestrali fini a se stesse, anche io pur essendo un violinista e suonato in Orchestre, prediligo come detto prima la fusione dell’avanguardia elettronico con l’orchestra. Qui elettronica e arrangiamenti per orchestra vanno a braccetto con naturalezza. E alla fine “Selmasongs” suona come una colonna sonora meravigliosamente globalizzante, potremmo affermare che si potrebbe presentare in tutti i teatri del mondo e finalmente anche noi andremmo con piacere in questi luoghi. Sarebbe ora che ne potessimo usufruire tutti noi, godere di un melodramma degno del nostro millennio! “Selmasong”
Bjm Mario Bajardi
BLACK HEART PROCESSION/Three/Touch & Go
Black Heart Procession atto terzo. O del dolore. E del nostro bisogno di naufragarci dentro. Le canzoni del gruppo di San Diego fanno male. E' qualcosa che va oltre lo spleen, e' una lacerazione delle carni e dell’anima. Non c' e' altro gruppo capace di denudarvi il cuore come loro. Sono canzoni che si aggirano come spettri. Funeree e definitive. Le guardi in faccia e hai visto la morte. Non quella spettacolare e splatter di certi baracconi musicali d’accatto. Stavolta ha davvero la forma di tutte le nostre paure e marcia al ritmo che sappiamo. "We always know" inaugura il disco, spegnendo la luce sin da subito. E' il ciondolare di un cappio che stringe al collo le nostre tristezze e le lascia dondolare al soffitto come fantasmi pazzi e disperati. E' il noir che esplode in tutto il suo decadente, lancinante, asfissiante lirismo. Leonard Cohen, Tom Waits, Mark Eitzel, Will Oldham fatti a brandelli, divorati dal loro stesso male. Siamo oltre la disperazione che e' reazione al dolore, persi nell’apatia inerte e neghittosa di chi non ha altro a cui aggrappare il proprio mal di vivere se non a quella corda secca che serra le travi sulle nostre teste. Se mi fosse dato scegliere, credo li vorrei al mio funerale, a dare una voce e un volto all’ultimo alito di vento.
Franco 'Lys" Dimauro
AERODYNAMICS/Love in Courmayeur/Snowdonia + Live Fringe Festival, FI, 9/9/2000
Se non il disco più bello dell'anno, sicuramente uno di quelli più sinceramente esaltanti. Gli Aerodynamics sono fisicamente un trio (campionatore/voce, basso/voce e farfisa/voce) che riesce nella non semplice impresa (ma in uno dei momenti storicamente migliori, c'è da dirlo) a sdoganare dance, voce anni '80 (e parlo del lato dark di quel periodo), campionatori '90 (tracce di tekno e dr'n'bs qua e là) e una sincera allegria. Un disco compatto ed eterogeneo come pochi, in cui alcuni pezzi che non farebbero fatica a diventare hits (Special God, Kolbaky, Fantafox e la stessa Love in Courmayeur) si affiancano ad altri con campioni improbabili e cambi di atmosfera fulminanti. A cena, verso le quattro di mattina dopo uno spossante dj set al PASTOIA BLU controfestival (insieme a Coxca dj, Tibet, dj Faccia di Merda e altri...) mi spiegavano che si erano scocciati di fare musica triste (il bassista viene da esperienze di improvvisazione radicale con Erz Bau e InCerti Momenti) e che avrebbero fatto un gruppo di musica allegra. Impresa non facile, specie a tavolino, ma riuscitissima. Distribuito da Snowdonia (e la cosa gli ha creato non pochi problemi, visto il genere medio delle sue produzioni) è un tassello fondamentale per la documentazione della musica che c'è in giro in questo periodo. Dal vivo le cose vanno, se possibile, ancora meglio. Camicie bianche e pantaloni neri, occhiali di sole per Sir Giulian piglio da dittatore per Mirko e parrucca per Toto (che alla fine svelerà l'arcano scoperchiandosi il capo dicendo ad un pubblico felice ed attonito "tutto quello che avete visto... è falso!"), i tre cominciano con bordate ritmiche semplici ma efficaci. Il suono del basso tra i più brutti del mondo (in famiglia con Vincenzo Vasi) ma anche per questo efficace, intermezzi vocali degni dei Nando meet Corrosion nelle grandi occasioni, balletti imposti dall'energia del loro suono ovunque, anche sul palco. Un remix improvvisato, una cover dei Faccions ("uno si presenta a fare una cover di chi? dei Doors? dei Bronsky Beat? di Bennato? no, dei Faccions!" mi diceva un felicissimo Coxca sotto il palco) e il concerto si chiude con questo appiccicottio felice/violento dal titolo "Ti fai male" (e ho visto ragazzotti dai muscoli borgatari molto felici di questo messaggio in scala 1:1). Bella serata in un posto che ha ospitato i gruppi più improbabili come se niente fosse.
Jacopo Andreini
BLONDE REDHEAD/Melody of certain demaged lemons/Touch & Go
Ho ascoltato per la prima volta "Melody.." lo stesso giorno che e' nata mia figlia. Non ve ne fregherà un cazzo, ma non e' forse questo quello che chiediamo ad un disco? Cristallizzare un momento, ibernare dei ricordi rendendoli eterni, riassaporarne il gusto ogni qualvolta "quelle" canzoni tornano a riaccarezzarci l’anima, metterlo a custodia del nostro fosforo basculante. Rifletteteci. Stop. Evaporati totalmente gli ultimi pesanti fardelli Sonicyouthiani, quello che emerge dal nuovo disco dei gemelli Pace e' il vero suono dei Blonde Redhead. Fottutamente intrigante. Un incedere erotico, sensuale infetta le tracce chiavi dell’album e ne modula gli schemi. Non c' e' gruppo che trasudi maggiore coolness del terzetto newyorkese, oggi come oggi. Sottilmente nervosa, come animata da un’epilessia misurata, "studiata", la musica dei Blonde Redhead gioca a sedurre fino allo stordimento dei sensi ma in un gioco distaccato, e forse proprio per questo più morbosamente perverso. Non enfatizza, sottende. Non trascina, si insinua. Non esplode, si infiltra. Riscopre l’arte pop ("Loved despite of great faults", beatlesiana fino al midollo) pur ribadendo le sue devianze ("A cure", catartica wave malata, infetta). Brucia il cuore, "Melody of certain demaged lemons". Ti percorre le arterie come elettroni lungo filamenti di rame. E ti elettrizza il fiato.
Franco 'Lys" Dimauro
OLD TIME RELIJUN/La Sirena De Pecera/k
Certo che se ripescare nella tradizione significa esplorarne i meandri più nascosti e remoti, così da riportarne alla luce quanto di più oscuro ed ambiguo essa nasconde, bene, questa è senz’altro ottima cosa. Ce lo può confermare Arrington de Dyonisio, cantante e artista visionario di Washington, artefice con gli Old Time Relijun di una miscela esplosiva di R’e’R, punk e blues graffiante e indemoniato come non si sentiva dai tempi di Birthday Party, Cramps e Pussy Galore. Chiariamo subito che in questo caso “tradizione” non è sinonimo di revival, ne’ tanto meno ci troviamo di fronte una band che ripesca nel passato con intenti innovativi o sperimentali: tanto gli StormAndStress sono riflesso e documento del tempo presente, quanto le musiche sghembe e crude degli OTR trascendono ogni contemporaneità per piazzarsi nel limbo atemporale della nevrosi e della fobia più pura, tra riti oscuri antichissimi, moderne crisi di moderne coscienze e allucinazioni-tabù-perversioni ancestrali: “La nostra musica non è mai stata influenzata da particolari gruppi alla moda, voglio che abbia un feeling senza tempo e che resti fuori da qualsiasi cognizione di attualità… le canzoni possono ricordare l’urlo di uno sciamano ma sono anche perfettamente attuali e appropriate alla nostra epoca…”. Quel caos di suono che De Dyonisio sputa e sbatte nel microfono è l’urlo dello sciamano: graffiante, sensuale, isterico, un salire e contorcersi di grida, nervi e perversione che spiazza ogni logica e ogni concetto di “musica” o “rumore” per diventare preghiera, sesso, violenza, tutto ciò che di più estremo si nasconde nelle viscere dell’essere umano. La Sirena De Pecera dunque, uscito come disco promozionale per il loro tour europeo di aprile/maggio, oltre a segnare il vertice creativo della band, rappresenta il sunto completo delle loro energie indemoniate e viscerali. Si inizia con il funk isterico e minimale di “Casino”, si passa poi al drumming apocalittico e claustrofobico di “Carcerato” (dall’urlo che subito si imprime nella memoria), sino al riff stonato e alla recitazione intensa di “Adaga”, per poi arrivare ai nuovi pezzi, primo fra tutti “Canoe”, sghembo e scarno (immaginate un pezzo di Beefheart coverizzato dagli US Maple), quindi “Moon”, con chitarra colorata di demenze psichedeliche, e poi “Circuit Breaker”, marcetta simil-pop venata di disarticolate sonorità infantili, pur sempre alla loro maniera. Per concludere due minuti di seghe vocali ricche di coloriture blues, seguite da altrettanti cinque minuti di allucinatissime seghe per clarinetto che faranno la gioia di chi il cervello proprio in perfette condizioni non lo tiene. Ebbene, gli OTR riescono nell’impresa: un “classico” della follia fuori dal tempo. (ultima annotazione: contraltare alla sfrontatezza eversiva del suono è fornito dalle liriche, a volte crude e realistiche (Carcerato), altre volte venate di un bozzettismo poetico e visionario (Canoe), altre ancora sapide di umori quotidiani e domestici (Circuit Breaker), molto originali pur nella loro semplicità, comunque mai trasgressive quanto le musiche. Forse a prova ulteriore che unico fine degli Old Time Relijun è proprio quello di rappresentare in suono quanto di più indicibile e misterioso vive e vivrà sempre nei meandri di noi stessi).
Alessio BakuniM
MOTORPSYCHO/Let them eat cake/Stickman
E alla fine Alice arrivo' nel paese delle meraviglie. Le canzoni dei Motorpsycho hanno poteri ambivalenti. Riescono a rimanere come sospese nell’aria e contemporaneamente pesantemente ancorate a terra, come se gravassero plumbee sulle nostre teste. Lievitano e sprofondano nello stesso istante, fateci caso. Qualcosa che ha a che fare con la magia, probabilmente. Ci gravitano intorno, maestose. "Let them eat cake" non e' il miglior album dei Motorpsycho, diciamolo con franchezza, malgrado sia superiore ad almeno l’80% di quello che il mercato ci impone. Suona come un monumento. Un Michelangelo che martella la sua opera d’arte dannandosi l’anima nel chiederle/si perché non parli. Eppure, come davanti ad ogni capolavoro d’arte, si rimane li' a guardare, estatici. A nutrirsi di quel trionfo di bellezza. "The other fool" sboccia, sono petali che si aprono al sole immenso della tundra. La larva che urlava agonizzante dai solchi di "Lobotomizer" e' ora una farfalla svolazzante nel bubblegum pop di "Big Surprise" (i Lovin' Spoonful persi in un barattolo di miele) o nel funky sinfonico di "Walkin' with J". Un disco di transizione con molta probabilità, siccome sono convinto che dalla glassa zuccherosa di "Let 'em eat cake" i norvegesi spiccheranno il volo verso quello che potrebbe essere davvero il loro nuovo, definitivo capolavoro.
Franco 'Lys" Dimauro
DIATHRIBA/Stracielo/FLY
La produzione è quella di Cristiano Santini, per chi ha conosciuto ed amato i Disciplinatha, una garanzia. Registrati in un casolare di campagna trasformato per 20 giorni in uno studio di registrazione, "Stracielo" ci ripropone un gruppo con delle grosse potenzialità, capace di confrontarsi con successo con il difficile compito dell'abbinare certe sonorità indies con l'uso dell'Italiano. Il gruppo Modenese coadiuvato dalla mano sapiente di Santini agli arrangiamenti ed alle campionature, si muove bene attorno ad un sound che molto deve alla scena post-punk Emiliana dello scorso decennio, Umberto Palazzo e Disciplinatha sopra tutto (ascoltatevi l'attacco di "Rank e Lubna"), in cui l'elettronica trova il suo spazio amplificando le risposte emotive senza sminuire l'impatto deciso del set chitarre distorte-drumming diretto. Un buon lavoro, arrangiato ed interpretato con stile. Info: Tel/Fax +39.059.92.82.09
Andreapintus
DELTA 72/000/Touch & Go
Se tenete all’integrità del vostro culo, allora tenetelo lontano da questo disco. "000" e' un disco che non circumnaviga il rock 'n roll come accadeva nelle precedenti sortite del gruppo di Jason Kourkonis, ma ci si ficca dritto dentro. Ci inzuppa dentro le gambe, il cervello e il pene. Non intellettualizza, attacca. E soprattutto, diverte. Senza pretese se non forse quella di attaccarsi al carrozzone di "Acme" e piroettare il rock 'n roll nel nuovo secolo. Vendono uno stereotipo, i Delta 72. Ma lo fanno con classe, dosando gli ingredienti con la stessa maestria di quei mercanti che riescono a venderti sempre la solita merce convincendoti ogni volta di stare portando a casa chissachè. "Are U ready?" suona come i Black Crowes, stessa enfasi r 'n b con tanto di cori negri e sfoggio d’organi (quelli elettrici, si. Ma anche quelli sessuali. (NdLYS) e chitarre in spolverio. Sulla base di "Just another let down"potete provare a cantarci su "Get out of bed" dei Charlatans e vi accorgerete che funziona uguale. "Incident @ 23rd" si chiude coi coretti di "Miss you" ed è più che una citazione. E' un atto d’amore. "Ten lbs."e' un’orgia strumentale, schizzi di sperma che insudiciano le casse spia e umori vaginali ad imbrattare i pedali wah wah. "I feel fine" è ustionante garage rock animato dall’energia sexy del funky più stradaiolo, lercio e sbrodolante che possiate immaginare. "Set the secret prince" chiude col compito di trasbordarci sulla luna e di abbandonarci li', con una pila di dischi sudamericani fusi dal calore dei reattori e una chitarra che suona "Moonage daydream", perduta nello spazio.
Franco 'Lys" Dimauro
K17/Danza Disarmonica/Ode To K/autopr. Transponsonic
Macromer (Nuoro) è il luogo di sbarco di navicelle aliene scese sulla terra già nei pressi di Messina allo scopo di decostruire i canoni della civiltà terrestre ormai rassegnata a se stessa...ultimatum alla terra: "Danza Disarmonica" suona come un loop alienante, voci filtrate da dilatatori spaziali, oscure presenze evocate con toni declamatori, richiami straziati al passato, attitudine noise minimalista in chiave quattro piste. NO(W) WAVE!!? Stessa scelta sul piano della registrazione per "Ode to K", che tra delay e rumorismi cibernetici, sviluppa maggiormente un atteggiamento concretista: impressioni al sorgere, o meglio, al tramonto, di luci al neon. Non manca un esempio di canzone folkloristica Venusiana e momenti che si avvicinano alla forma canzone in senso quasi classico, "Felicitazioni e chiarimenti" (...baci ed abbracci o popolo! La rivoluzione è finita...). Crudi nella grafica e nei testi. Info: E.Campostorto, via Don Milani n°34-08015 Macomer (NU)
Andrea Pintus
INTERNATIONAL NOISE CONSPIRACY/Survival Sickness/Burning Heart
Il garage punk scende nelle strade, srotola gli striscioni e imbratta i muri. Lo avreste mai pensato?Eppure Dennis Lyxzen e' riuscito a fondere le istanze sovversive che già animavano i suoi Refused con il più corrosivo sixties punk ergendo "Survival Sickness" ad emblema di una nuova etica. Musicalmente il suono dei Conspiracy si nutre del garage spiritato di bands come Music Machine o Chocolate Watchband usando come propellente il rock vibrante e teso degli MC5 "di mezzo" (diciamo "Back in the USA" o, ancora meglio, le registrazioni ROIR dello stesso periodo, NdLYS) per costruire canzoni intelaiate attorno ad urticanti giri di chitarra e organi vintage. Songs elettriche, scattanti, serpentine metalliche gracchianti di distorsioni calde e ronzanti in progressione da cardiopalmo. Come dei Make Up privati da ogni turbamento black, i Conspiracy ansimano sul corpo del beat, prendono Sean Bonniwell e Sky Saxon per i capelli e li trascinano in mezzo all’asfalto. Sia chiaro, non siamo di fronte ad un nuovo tentativo di veicolare il rock e trasformarlo in una macchina sputa-slogan, ma di una delle vie possibili di riattualizzare un contesto musicale (quello d’estrazione garage-beat) evitando certi cortocircuiti stilistici dai dubbi risultati. Sicuramente uno dei migliori numeri di catalogo Burning Heart di sempre. Chissà per quanto ancora.
Franco 'Lys" Dimauro
JIMMY PAGE & BLACK CROWES/Live at the Greek/SPV
Eccolo qua. Uno di quei dischi che il presente ci vorrebbe fare dimenticare tra mille sofismi post rock e il battage sensazional-popolare della club culture: una celebrazione del rock 'n roll. Nulla di più, ma neanche nulla di meno. "Live at the Greek" e' il frutto discografico, in parte già disponibile in Rete, di quella che e' stata una delle tournee' più inseguite e coinvolgenti dello scorso anno e che ha visto, spalla a spalla, il passato più idolatrato e il presente più sanguigno di quell’etica/estetica di cui il nuovo intellettualismo regnante ci vorrebbe derubare. E' il rock-blues scelto come via di fede. E non e' un caso che le immagini sacre che si celebrano nelle stazioni di questa Via Crucis siano più che sovente quelle degli Zeppelin. Ma non e' qui la plateale anima pindarica degli Zepp a prendere il volo (niente "scale per il paradiso" nè celebrazioni tronfie da "Songs remains the same" qui dentro, NdLYS) quanto piuttosto il suo mai sopito feeling blues a essere sviscerato con forza invidiabile e confrontato con le anime nere dei vari BB King o Elmore James, rimesso a nudo dalle sei corde di Jimmy Page (sempre "offensive", le stesse che ci hanno rigato il cuore e che hanno patteggiato col Diavolo per carpire il segreto del blues) e dalla carica dei Black Crowes, la più credibile e cazzuta rock 'n roll band in giro da dieci anni a questa parte, guidata da una voce che, unica al mondo, non teme di confrontarsi con l’ugola feroce di Robert Plant senza finire tra le macchiette dei pomeriggi di MTV.
Franco 'Lys" Dimauro
FAUSTO BALBO/Zero/Snowdonia
Che dire, questa volta Snowdonia ci ha riempito di dischi parecchio interessanti. Dopo l’obliquo e barocco rock da circolino dei Faccions è la volta degli scheletrici edifici sonori di Fausto Balbo, musicista, o non-musicista, o sperimentatore, non so chi sia ne’ da dove sia saltato fuori, ne’ m’immagino dove Snowdonia vada a pescare tali musicisti, solo posso affermare che non si tratta di finti rocker di provincia che giocano a fare i fighetti dell’underground. Fausto Balbo quindi, suoni di fiamme d’estate brucianti d’asfalto e solitudine, mormorio di strade-autostrade annacquate in flotti di benzina dolce corrosa, code di famiglie inscatolate surgelate nelle loro pallide vetture, fredde, ghiaccianti sotto l’impotenza di un sole fragile post-moderno, ammasso sonoro vibrante, collasso inumano tra violente mutazioni elettronico-rumoriste - sorvolate da riff di chitarra epici e ambientali – e soffici arpeggi della resa e superamento d’ogni illusione d’edonismo urbano, ritmo tecnologico e sintetico porta aperta verso futuri nuovi interessanti. La solitudine. Corpi. Il silenzio. A volte quasi più vicino a certa musica Sahariana (Baaba Maal su tutti) piuttosto che ad Eno o al Kraut Rock, a volte più vicino ai mood dei Radiohead di “The Bends” piuttosto che a Tortoise o Labradford, a volte solo una qualche soundtrack perduta di vecchi film malinconici di un Tati mai stato. O solo un sospirare sordo e bruciante tra silenziosi giganti acromatici - vetro, plastica, cemento… Tutto è poi reso concreto negli otto minuti di “Sto bene, molto bene, troppo…”, picco assoluto mai toccato da ogni musica ambient e kraut in terra italica, profonda, allucinata, arida e infuocata, imprevedibile e inafferrabile via via che scorrono i secondi. Poco d’altro si può dire. Fausto Balbo è la più intensa sorpresa che m’abbia offerto il 2000.
Alessio BakuniM
DAVID THOMAS AND FOREIGNERS/Bay City/Thirsty Ear
Quante volte quanti clown mediatici e giornalisti popolar-popolari fan vibrare le corde del nostro animo e del nostro umile cuor narrando le gesta di idoli intramontabili del rock buono e vero, geni della musica che da più di 20 anni ci regalano l’allegria di 4 accordi, 40 carte spese-e-rimpiante e qualche maglietta ch’ha da scoloririsi in men di un mese se va bene o forse un poco più? Troppe. Chi oggi grida al miracolo parlando di U2, Led Zeppelin, Sonic Youth dev’essere di sicuro ben retribuito. O forse semplicemente non sa. Non sa di quell’uomo, su dalle parti di Londra, quel corpulento marinaio (lupo di mare? pirata?) fuggito un tempo dalla sua America prima che questa venisse irrimediabilmente cancellata da ogni mappa e atlante geografico, navigatore indomito e dominatore di mille “nuove onde”, scopritore di mille danze nei luoghi più esotici e selvatici dell’umana creatività, profeta visionario dalle teorie bizzarre e inarrivabili ma estremamente coerenti e perfin “giuste” – che nel 1975 s’è messo a cantare le musiche ubriache e corsare dei luoghi più sperduti che ha avuto modo di esplorare nei suoi innumerevoli approdi culturali e nelle varie scorribande sulle remote isole sperdute nel mare del suo intelletto, continuando imperterrito a sfornare dischi che così se ne sentono pochi, tanto classici da far offesa a decine di vecchi del rock e tanto nuovi da far sembrare i vari neo-pischelli virtuosi solo un accozzaglia di alunni scazzati del grande maestro. Fino a quest’anno l’ultimo capolavoro di Thomas si chiamava Erewhon. Era il 1996. Dopo quattro anni Thomas sforna un disco di pari portata, se non addirittura superiore: Bay City. Bay City è la città di mare che si trova “dall’altra parte di ogni deserto”, città di mare ma anche di pioggia, luogo tutt’altro che arido e silenzioso, sporcato e inquinato da quello schifo che è la razza umana nelle sue più varie aggregazioni sociali. Accompagnato da 3 Stranieri – 3 musicisti Danesi, Jorgens, Teller e Acs - in questo viaggio alla città della baia, se ne esce con 50 minuti di musica folkloristica americana nei quali si lancia in una riscoperta delle sue radici musicali: lo swamp sporco e solenne di “Clouds of You”, lo struggente lirismo jazz di “White Room” - ove chitarra, voce e clarinetto si mettono a parlare la lingua della malinconia più pura - il battito tribale e monocorde di “Salt”, oscura ed ipnotica, la ballata noise elettrica di “Nobody Lives on the Moon”, e poi ancora gli approdi folk-sperimentali e avantgarde (avantgarage?) di “15 Seconds”, la danza arabeggiante e il cantato profetico di “The Radio Talks To Me”, lo stridere e il pulsare di “Turpentine” …Un disco di difficile ascolto per chi non conosce a grandi linee il passato di quest’artista tra i più geniali della storia del rock, ma in ogni caso un disco grandissimo, di sicuro un chiaro salto di qualità rispetto a Mirror Man del ’99. Forse meno intenso e spiazzante dell’altro precedente Erewhon, ma più continuo e altrettanto profondo. David Thomas è uno di quei pochissimi personaggi a cui è d’obbligo augurare di poter sfornare altri dischi del genere per altri 25 anni.
Alessio BakuniM