E finalmente, dopo tanti anni mi ritrovo, con SuccoAcido, a Volterra, grazie ad un invito di Rete Critica. Il festival VolterraTeatro ha accolto infatti, in questa edizione, la riunione delle testate giornalistiche e dei blog di teatro che hanno scelto di unirsi in un movimento e network nazionale, per incentivare una critica teatrale sempre più necessaria e consapevole (nel frattempo, in Italia, ha chiuso l'Unità e vedremo chi sarà il prossimo). Ci siamo dunque incontrati qui, trascorrendo i giorni del festival dentro il carcere, tra spettacoli e riunioni, per un confronto sulla scrittura militante. Il nuovo blog di Rete Critica ne sarà una testimonianza. Nato dal confronto tra i diversi modelli di racconto e giornalismo di settore, sarà un luogo di scambio e di opinione che forse ci farà sentire tutti un po' meno soli mentre procediamo, ognuno a suo modo, sui percorsi tortuosi della piccola editoria italiana. A Volterra il movimento ha preso anche importanti decisioni, come quella di mantenere la propria struttura fluida, evitando (almeno per il momento) di costituirsi in una forma giuridica o associativa, per conservare il gioco libero dell'incontro tra anime diverse. Ma andiamo al festival...
E così, finalmente mi ritrovo nella casa di Armando Punzo, drammaturgo, regista, attore, ma soprattutto sperimentatore di un teatro che in questi venticinque anni di residenza al carcere di Volterra si è fatto utilmente sociale, perché praticato ai margini della società, nel suo luogo forse meno sociale: il carcere. Per tanti anni, osservando da lontano, attraverso le letture, l'evoluzione del lavoro della Compagnia della Fortezza, mi sono spesso chiesto quali fossero le ragioni profonde che potessero farti decidere a fondare e mantenere una compagnia teatrale dentro un luogo di sofferenza, e a tratti avevo anche ipotizzato una certa furbizia nella scelta di Armando di farsi "carcerato". Si tratta invece di un percorso che va premiato quello del carcerato-carceriere-liberatore; un lungo procedere che, con il passare degli anni, ha trasformato questo luogo in un'eccellenza artistica, situata in quell'eccellenza turistica che è la Toscana.
Ma il turismo stesso, a quanto pare, sta scemando, come mi raccontano i cittadini di Volterra e così anche il festival non conta più il numero di presenze di un tempo... questo sta nella crisi italiana no? L’importante è che la compagnia teatrale di Punzo resista nell'instabilità che sembra permeare tutto, persino le solide mura della città. Sì, perché in qualsiasi momento è possibile che qualcuno dall’alto arrivi ad interrompere anche questo percorso, per riportare tutto l'odierno ad un carcere normale o meglio "a norma": un carcere comune dove la scena del teatro lascerebbe spazio soltanto a celle di tre o quattro mq per recluso. Come è possibile che Volterra si sgretoli lentamente, un crollo dopo l'altro tra i cambiamenti climatici e l'incuria del nostro bel Paese. Entrambe queste possibilità sono state chiavi di lettura fondamentali per tutto il festival, ma ci torniamo. Lo scopriremo gradualmente, dopo aver metabolizzato la forza del carcere e dello spettacolo cui abbiamo assistito al suo interno.
Il carcere: tante sentenze di tanti tribunali da un lato, altrettante assoluzioni di un solo Punzo dall'altro. Un Punzo che con i suoi stretti collaboratori lavora sull'individuo carcerato per trasformarlo in attore e, contemporaneamente, sulla relazione tra territorio e festival, facendo di tutto ciò, oggi, un esempio virtuoso e riuscito di teatro pubblico da tesorizzare. Nel carcere c’è materiale umano a iosa, tutto al servizio di un regista e della sua scelta di percorso, una scelta che richiede, però, un'enorme mole di lucidità e freddezza. Punzo mi appare quasi sovrumano, anzi oserei dire non umano e forse ancor meglio un estraneo androide maestoso, re lucido e manovratore di un'umanità non direttamente sua suddita, ma che sta lì, tutta protesa e desiderosa di essere adottata. Mi chiedo quali siano i criteri della scelta, come si accolga o si escluda qualcuno da questo percorso e quali possano essere le relazioni interne a questi luoghi, tra Punzo e i suoi ospiti ergastolani teatranti. Nello spettacolo Santo Genet ci viene restituita un'intimità non facilmente raggiungibile, che completa quanto già messo in moto con i precedenti lavori Hamlice e Mercuzio non vuole morire. Una ricerca sul confine tra emarginazione e stoltezza del comune vivere, attraverso lo studio dell'altra faccia dell'umano, quella condannabile, che risiede in fondo a ciascuno di noi e che qui pare uscire ed emergere. La messa in scena, sotto la regia di Armando Punzogenet, è perfetta in ogni suo aspetto: nelle scene di Alessandro Marzetti, Silvia Bertoni, Armando Punzo, nei costumi di Emanuela Dall'Aglio, nelle musiche di Andrea Salvadori. Una rappresentazione che non lascia alternativa possibile a quella di vivere l'esperienza totale, prima che sia troppo tardi. Dove sarà domani questa macchina del teatro che da tempo chiede di poter essere riconosciuta teatro stabile all'interno del Carcere di Volterra? Trovo molto difficile al momento, per mancanza di tempo e lucidità personale, riuscire a descrivere lo spettacolo, che cita e mette magistralmente in scena l'opera di Jean Genet. Preferisco rimandare a qualche scena della rubrica C'ero anch'io pubblicata nel canale youtube di SuccoAcidoTV e in questa pagina o ancor meglio agli scritti critici che potrete trovare in rete tra i blog di Rete Critica.
Qui mi limito a scrivere che ho vissuto esperienza di sdoppiamento e scollamento interiore. L'ho forse vissuto nel gioco degli specchi in cui la macchina di Punzo, astutamente e chirurgicamente, ci intrappola mostrandoci tutti insieme, liberi e liberati. In un ramo del carcere che diventa raso nero e velluti rossi dei salotti di Irma, ci sembra in certi momenti che la massima ambizione del regista sia quella di svuotarci di ciò che siamo, per destrutturarci di ogni vincolo sociale umano e terreno, portandoci altrove, tutti uguali e comunque ritrovati. Santo Genet libera e cura da se stessi, prima dentro i budelli del carcere che Punzo trasforma nella casa di tutti i presenti, lì a condividere storie, odori, sguardi e danze altrimenti impossibili, e poi ancora, trionfalmente e pubblicamente, al Teatro Persio Flacco, dove un’intera Volterra decolla con tutta la nave del teatro. Questo è un viaggio dove a guidare sono le mani forti, gli occhi lucidi, le voci straniere, i corpi segnati e soprattutto i sogni sognati degli ergastolani. Carcerati liberi, per poche ore, di liberarsi accanto a noi "uomini liberi" che ci ritroviamo liberati a nostra volta, dalla realtà quotidiana, così improvvisamente distante e nostra prigione. Quante domande mentre mi guardo in uno dei tanti specchi del budello, accanto al volto di un condannato. L'ergastolo giudiziario e quello della vita, sbattuti insieme, lì davanti a noi tutti, dentro uno, dieci, cento specchi.
Quando ogni carcere italiano potrà far decollare la propria città con il gioco del teatro e della condivisione dei sogni? Sarà un processo legislativo a permettere che questo avvenga, un domani? A garantire una ricerca libera, non solo nel teatro, ma, in generale, nelle arti sceniche e performative? Forse questo consentirebbe di lavorare senza interruzioni da parte delle istituzioni, o potrebbe servire a dare migliori condizioni di vita a chi è recluso, per riportarlo ancora tra gli uomini liberi e alleggerirlo di un dolore che nessun processo può, comunque, togliergli.
Bravo Punzo, soprattutto perché decide adesso, preventivamente, di cominciare un lavoro di archiviazione del suo percorso dentro il carcere, per lasciare un esempio tangibile che possa diventare un asse portante futuro, un modello che aiuti a redimere quel teatro che non ha più stimoli da una realtà irreale (forse troppo difficile da mettere in scena), ma anche la triste realtà delle condizioni umane vissute dai nostri ospiti delle carceri italiane. Andare in questa direzione, nel segno della memoria, è un segno di civiltà. Bisognerebbe forse trovare un modo condiviso, facile e, se vogliamo, legiferato, per riconoscere e tutelare percorsi di archiviazione troppo spesso fallimentari o lasciati tristemente incompiuti.
Siamo dunque grati all'organizzazione per averci permesso di condividere un applauso ad altri protagonisti di simili tentativi, in occasione del convegno Artista, Comunità e Memoria. Dialoghi sulla ferita, coordinato da Bianca Tosatti, critico e storica dell’arte, esperta di arte irregolare, fondatrice e direttrice del MAI museo di Sospiro a Cremona. Nel convegno sono stati riportati i casi di diversi archivi e delle loro sorti, a partire proprio da quello che Punzo sta portando avanti insieme a Cristina Valenti, responsabile scientifico del Progetto di riordino, valorizzazione e digitalizzazione dell’Archivio della Compagnia della Fortezza. Da lei apprendiamo della reale necessità di ordinare questi primi venticinque anni di esperienza al carcere. Sì, perché in fondo ci troviamo in un luogo dove nessuno ha il potere di decidere se restare o no, dove tutto potrebbe cambiare da un momento all'altro, lasciando un vuoto improvviso, dove prima c'era ricerca e speranza. Seguiamo quindi, con la stessa partecipazione, anche il racconto di Luisa Viglietti a proposito della Fondazione Immemoriale di Carmelo Bene: l'autore, che aveva espresso, nel proprio testamento, la volontà di costituire una fondazione che si occupasse della conservazione e tutela della sua opera, avrebbe oggi la tremenda delusione di un patrimonio praticamente disgregato e smembrato a causa di sentenze di tribunali e, a quanto pare, di interessi familiari (abbiamo anche visto il bel video Frasi chincaglierie ricordi in grumi girato da Luisa all'interno della casa di Roma di Carmelo Bene, prima che fosse svuotata e resa bara vuota).
Di archivio in archivio, arriviamo, così, al lavoro di ricerca condotto da Wilma Cipriani sul malato psichiatrico: anche questo un caso triste di un fondo soggetto alla distruzione, dopo anni di studio e di analisi; e qui si parla non più di arte, che cura sempre in maniera indiretta, ma di ricerca sul comportamento di persone in difficoltà, ricerca che ordinare in archivio avrebbe potuto significare la costituzione di un concreto modello di cura medica.
Racconti di memorie perdute, riflessioni sullo scottante tema del diritto alla memoria condiviso da artisti, scienziati, vittime della storia, gente dimenticata, come gli ergastolani, qui e altrove, come i morti nel Mediterraneo, i migranti di oggi e di ieri. Teatro e memoria, carcere e vita, esperienza dell'ora e del domani.
La dualità di cui scrivevo prima, un terribile sdoppiamento intimo, pervade l'intera esperienza di questo festival e la sua città. Una Volterra che è la bellissima di sempre, ma insieme profondamente ferita da una frana che ha provocato il crollo di una parte delle mura medievali, proprio questo inverno. Una Volterra, anche lei sdoppiata, che sembra cercare la cura alla sua ferita nella condivisione del pubblico, mentre percorriamo tutti insieme il suo spazio lacerato, seguendo lo svolgimento di un nastro rosso, (citazione del celebre intervento di Maria Lai a Ulassai, in Sardegna). Un'azione collettiva che diventa un redimersi pubblico sull'orlo di un sanabile baratro italiano. Parliamo di Logos - Rapsodia per Volterra il progetto di Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni di Archivio Zeta, che srotola nella città una ventina di chilometri di nastro rosso per tessere trame e percorsi nuovi, come a riallacciare e riconnettere tutto e tutti, riunendo e fortificando. Teatro che si fa rito pubblico, battendo le pietre sul pavimento, come un cuore che si consuma ma è vivo: pietre che portiamo in processione fino a Piazza dei Fornelli, là dove il crollo delle mura dopo il maltempo mostra la nostra Italia indifesa, disorganizzata, allo sfacelo. Indossando nastro rosso, feriti dentro, arriviamo a destinazione e lasciamo lì le nostre pietre, come uova simbolo di rinascita, perché dopo ogni crollo occorre rialzarsi e continuare.
Tutto questo è vissuto da molti di noi insieme all'azione urbana Walk Show di Carlo Infante, ideatore di Urban Experience, progettista culturale e docente free lance di performing media. Ripercorro questo nastro - stavolta virtualmente legato al suono delle parole - e l'intera passeggiata: decentrato, disconnesso, ritrovato. Carlo è felice e impaziente di dare anche a me una delle radioline che distribuirà ad altri quaranta radioascoltatori, tra i partecipanti alla camminata. Quaranta persone che saranno, così, connesse tra loro per l'intera durata di Logos. Entro dentro un gioco teso ad esplorare la realtà urbana attraverso una conversazione nomade. Il gioco permette a chi lo gioca di amplificare quanto si sta vivendo, per mezzo di quella radiolina che Carlo, intelligente pifferaio tecnologico, utilizza per rendere ciascuno partecipe dell'esperienza ad un secondo livello. Con la collaborazione del laboratorio interattivo di #comunicateatro, Carlo lancia tutti su twitter con gli ashtag #volterrateatro #laferita e #urbexp declinando anche sul web le riflessioni fatte dal vivo, con i presenti camminatori di Volterra. Così ci si ritrova a giocare il ruolo di antenne insieme riceventi e trasmittenti, tutti lì a twittare un reale che si sente comune, quasi riuscendo ad agire su di esso attraverso la propria testimonianza.
E grazie anche a Mario Perrotta, che prosegue il suo modo esemplare di fare archiviazione con Pitùr il secondo movimento di Progetto Ligabue. Un teatro dove stavolta è il pittore Antonio Ligabue il prigioniero da liberare, da testimoniare, da elaborare. Per chi ha visto, lo scorso anno, Un bes - dove Perrotta si faceva carico di tutta l'azione teatrale per rappresentare il pittore, sudandolo, e disegnando magistralmente luoghi e personaggi a lui vicini, per poi strapparli e violentarli come meriterebbero per la loro inevitabile disattenzione e ignoranza - lo spettacolo Pitùr appare un sapiente smontaggio, una destrutturazione di quella messa in scena in una danza difficile, precisa e altissima, davvero riuscita. Danza di tele da strappare dalla propria cornice, da indossare e da lasciar bianche, quasi a significare che la privazione dei gesti del pennarello, che prima illustrava, possa adesso condurci oltre, su quel bianco sudario, divenuto il centro dell'attenzione. La tela diventa fisicità, il tessuto di tutti i sogni del protagonista solitario, emarginato. Commovente Pitùr, rappresentato magistralmente, insieme a Perrotta, da un gruppo di altri sette attori (Micaela Casalboni, Paola Roscioli, Lorenzo Ansaloni, Alessandro Mor, Fanny Duret, Anaïs Nicolas, Marco Michel) ai quali il bravissimo Mario trasferisce la propria ricerca del primo movimento, come a volerla condividere e moltiplicare.
Ancora dualità: Ligabue come i tanti ergastolani nel teatro al carcere, tutti insieme dietro le quinte di vite che si svolgono altrove, invisibilmente; esempi di non ascolto, di indifferenza del cittadino, della società, oggi come allora. Un insieme di emarginazioni che ci sembra necessario vengano rappresentate, a teatro, negli archivi, nelle storie.
Come ancora di emarginazioni si parla, o forse meglio direi di auto-emarginazioni, con il Teatro delle ariette, che mi riporta lentamente nella quasi noiosità di un intimo familiare personale che a tratti ritrovo anche mio; una noiosità che sana, un’esperienza intima che vediamo mettersi in mostra, con la rappresentazione del proprio riprendersi la vita, che, a nostro avviso, ha una forza squisitamente punk. Un metodo del far teatro che deve richiedere agli sposi Stefano Pasquini e Paola Berselli (che qui mettono in scena Sul tetto del mondo, nozze d’argento con le Ariette, insieme a Maurizio Ferraresi, Stefano Massari, Irene Bartolini) una caparbietà e una costanza che probabilmente può anche accompagnare il procedere della seconda età, ma che risulta innanzitutto necessaria all'intento di riuscire a vivere la vita insieme, vicini, immersi nel silenzio dei campi, con le voci dei compagni animali, con il recupero di manualità antiche. La musealizzazione di una casa che deve restare quella che è, a testimoniare e a dar forza ad una scelta e a una storia, una bella storia d'amore, che alla fine è un semplice e raro esempio di reciproco scambio tra i ruoli della vita e del teatro, in una scena che fa del proprio luogo, della propria casa, necessariamente, un teatro.
Sapiente Teatro delle Ariette, che sembra quasi scusarsi teneramente - quando ci offre quel cibo fatto a mano, davanti a noi, da mangiare e condividere tutti insieme - di quell'essersi messi così tanto a nudo nel proprio intimo quotidiano, e di averci forse, per un breve attimo, fatto addormentare, mentre seguivamo la lentezza di una rappresentazione che procede in avanti, irrimediabilmente, alla ricerca di un sorriso per il compagno. Mi fanno pensare che camminare lentamente oggi è sempre più difficile, ma anche che essere accompagnati o accompagnarsi accanto, può essere un’esperienza importante da testimoniare agli altri, un’esperienza che può sanare il trascorrere del tempo. Il benessere della famiglia è qui ancora possibile e si fa epico: ritrovarsi soli con l'altro, cucinare insieme con l'altro, spegnere le tv e i social nei cellulari e imparare insieme, realmente, a parlare con un animale qualsiasi, ma che ha un nome e una precisa identità caratteriale, per ricordarci che possiamo ancora parlare con le altre razze.
E allora taggatevi l'ashtag baubauquàquàsgronfsgronfmiaomiao e sparatevelo su twitter se preferite, noi continueremo finché potremo a farci due tagliatelle con olio abruzzese e tanto Parmigiano, a cantarci una canzone d'amore con la nostra chitarra classica, in compagnia dei nostri animali per tentare di risvegliarci ancora una volta insieme da un sonno che non è personale, ma sociale, anzi socialmente imposto e non nostro, sonno che rifiutiamo e che adesso vi impiattiamo irrimediabilmente vostro… Ariette squisitamente punk, buona cena felice e meritata dopo questa rappresentazione di un’Italia antica che qui riscopriamo incisa profondamente nel nostro dna.
E ancora più indietro nel tempo, nel dna di un’Italia delle eccellenze che fu, ricordo la bellissima ricerca fatta da Teatri 35 con Il panno acotonato dello inferno una performance di Tableaux Vivants ispirati ai quadri di Rosso Fiorentino e Pontormo, accompagnata da una sessione di live sketching dei disegnatori di Urban Sketchers con i partecipanti al workshop di disegno dal vivo, Drawing on stage in Tuscany, condotto da Simonetta Capecchi. La performance è stata preceduta da un’introduzione alla Deposizione di Rosso Fiorentino della critica d’arte Bianca Tosatti.
Degli altri spettacoli non parlo, non avendo seguito la prima parte del festival ma cito La Ferita, il volo. Maratona poetica per Volterra, poesia partecipata diffusa che tenta di dar voce a riflessioni anche attraverso i versi di poeti stranieri e infine, per ultima, la non meno importante #CROWDESIRE. Mille luci, un desiderio per Volterra, di Officinae Efesti che lancia una raccolta fondi per la ricostruzione delle mura crollate che potrete trovare in rete su BuonaCausa.org.
Un festival quello di Volterra che fa riscoprire una certa gioia di sentirsi italiani, operazione culturale che ci inorgoglisce e forse aiuta anche a non pensare di emigrare all'estero, grazie a tutti.