A Gibellina abbiamo incontrato Claudio Collovà, direttore artistico di Orestiadi: nel segno del contemporaneo.
SA: Ciao Claudio, quest'anno a Gibellina sembra sia successo un miracolo. Orestiadi: nel segno del contemporaneo. Tutto è finanziato con un bando della Comunità Europea… Come ci siete riusciti?
CC: E’ un bando di finanziamento europeo a cui abbiamo risposto un paio di anni fa presentando un progetto articolato e complesso di un Festival che includesse cinema, teatro, circo, danza, musica e poesia. E che si svolgesse non solo nei nostri tradizionali luoghi della Fondazione, ma anche in città. Una città d’arte come Gibellina, con tutte le sue immense e bellissime architetture, poteva accogliere bene spettacoli e performance che fossero come dire in dialogo e in forte connessione. Così oltre gli assi che riguardavano i contenuti che ho citato, abbiamo scelto alcuni degli spazi più significativi dei tanti esistenti in città, e abbiamo così tentato un maggiore coinvolgimento degli abitanti e dei residenti, abbattendo un muro che ci separa, da quelli che sono poi i veri proprietari spirituali della Fondazione, almeno così come desiderato e voluto dal suo Fondatore Ludovico Corrao. Abbiamo scritto e stiamo oggi realizzando questo progetto anche in suo nome che voleva una forte unità tra la Città e la Fondazione. Oggi la carica di Presidente della Fondazione è ricoperta dal Sindaco di Gibellina, arch. Rosario Fontana, e tutti ci stiamo muovendo per recuperare un rapporto naturale tra noi e i cittadini. Almeno fin qui posso dire che se rimane tanto lavoro da fare, qualcosa di importate si sta muovendo anche grazie a questo bellissimo progetto. Adesso in questa settimana arriva il circo da Francia, Belgio e Spagna e la parata del Teatro dei due mondi di Faenza. Spero che tanti bambini portino gli adulti a vedere gli spettacoli.
SA: Quando si è cominciato a lavorare l'ipotesi di una strada che fosse alternativa a quella del sostegno delle istituzioni locali che vi hanno abbandonato?
CC: Noi lavoriamo da sempre alle strade alternative. E’ di un paio di anni fa la realizzazione di una enorme mostra che si chiama Islam in Sicilia, adesso felicemente itinerante, e anche quella è stata realizzata con fondi europei 2007/13. In questo non ci vedo nulla di male. E cioè credo che sia necessario oggi che le istituzioni facciano la loro parte partecipando ai bandi e cercando risorse altrove, soprattutto in ambito europeo, visto che molte risorse tristemente tornano indietro non spese. Resta il fatto che per farlo dobbiamo essere messi nelle condizioni di vivere, pagare gli stipendi agli impiegati, le utenze, le necessità primarie di una Fondazione grande come la nostra, grande anche fisicamente intendo. Fin qui ci ha sempre protetto una legge regionale, un modo per riconoscere la nostra storia, importanza e anche la necessità della nostra missione nel campo dell’arte contemporanea. Per le sue specificità non esiste nulla di simile in Sicilia e in Italia. Gibellina è unica nel suo genere. Le Orestiadi sono, non solo per noi, qualcosa da difendere e proteggere. Difendere il progetto originario, quello che facciamo, il nostro lavoro e l’indotto che creiamo. Il tradizionale festival delle Orestiadi, che ora spero raggiunga le 33 edizioni è finanziato dal ministero della Cultura, almeno per ciò che riguarda le nostre attività di Festival, ma non paga certo il lavoro che dobbiamo fare. Noi contiamo sulla Regione e sui due assessorati dei Beni Culturali e del Turismo e sulla legge. Finora, tra finanziare bocciate e davvero assenze ingiustificate degli assessori impegnati in tutt’altro, nessuno degli aiuti necessari è venuto da loro. E’ probabile che lavorino anche loro, come noi, ma oggi non saprei a cosa. Fin qui non visto nè un pensiero né la proposta di un sistema che riguardi il mondo dello spettacolo. Solo tagli imbarazzanti alle già poche risorse e tanti annunci sui giornali. Questo festival alla fine si fa grazie solo all’enorme sacrificio di tutti noi che lavoriamo qui e che a questo posto siamo legati da grande affetto e amore, dagli artisti che sono più che comprensivi e gioiosi di partecipare, e naturalmente al pubblico e al suo sorriso. Speriamo che le istituzioni locali, come le chiami tu, si sveglino e capiscano che due settori sono nevralgici in Sicilia, il Turismo e lo spettacolo, i beni culturali e l’immenso patrimonio paesaggistico. Il denaro va speso in quelle direzioni e non certo per pagare stipendi agli enormi esuberi di cui la Regione è carica. E’ una nave affollatissima che a stento riesce a muoversi di qualche metro.
SA: Vuoi citare qualche spettacolo della rassegna e raccontarci in base a che criteri ai fatto le tue scelte artistiche? C’è un filo che le lega?
CC: Naturalmente sono orgoglioso di tutti gli spettacoli presenti in questo festival e sono tutti ospiti felici di questo programma. Non voglio citare nessuno in particolare, non mi sembrerebbe giusto per quelli che non riuscirei a citare. Ma sono più di 35 spettacoli e più di 150 artisti provenienti da tutt’Italia e dall’Europa e dal nord Africa. Quindi mi basta rinviare i lettori al nostro sito (www.fondazioneorestiadi.it) per vedere il programma. Lì potranno trovare tutti i dettagli della nostra programmazione. Ma i criteri alla fine sono sempre quelli, percorsi autorevoli e autoriali, artisti che hanno un loro linguaggio originario e una coerenza nella loro ricerca espressiva, artisti che sappiano coniugare e far parlare tra loro pittura, musica, arte performativa, teatro e danza. Insomma non artisti che rappresentano qualcosa, ma artisti in grado di esistere in scena con le loro proposte. Il filo che lega le varie proposte alla fine è del tutto involontario ma ben visibile e sono sicuro che la maggior parte degli artisti coinvolti trova con la loro sensibilità il giusto rapporto con lo spazio e il nostro luogo, che ripeto non è un luogo qualsiasi, ed è anche esso molto sensibile a chi lo anima. Nessuno degli artisti ospiti rimane indifferente a questo meraviglioso luogo che li attende. I criteri sono quindi artistici e umani e con tutti gli artisti ho un rapporto di semplice rispetto per il loro lavoro, ammirazione e una fondamentale curiosità. Non c’è un tema, ci sono loro, con la loro arte, con la loro poesia. Ma poi, ci sono molti fili che legano le cose l’una all’altra, fili che nascono anche come nascono i fiori dalle pietre. Lavoro molto duramente durante l’inverno, guardo molto materiale che mi arriva, viaggio quando posso, ascolto molto il lavoro degli altri. In questo trovo che sia molto interessante capire e sentire cosa può essere giusto per noi. La qualità è alta non solo perché è professionale, ma anche perché dietro il lavoro degli artisti che invitiamo c’è un cammino lungo fatto di una coscienza che chiamerei prima di ogni cosa artigianale.
SA: Parliamo del tuo spettacolo che hai presentato in rassegna, “Ogni qual volta levo gli occhi dal libro”, un lavoro in cui coniughi le suggestioni ricevute da Magritte, da Rilke e, naturalmente da un’Odissea universale, che congiunge i tempi della storia e arriva al nostro presente, raccontando vicende umane, intellettuali e storie di migrazioni. Come nasce questo spettacolo e come lo hai visto vivere sul palco?
CC: ‘Ogni qualvolta levo gli occhi dal libro’ è un bellissimo verso di Rilke. Una azione semplice ma anche molto ricca di senso e racconta quel breve tratto che l’anima nostra compie ogni volta che, da assorti che eravamo nel nostro mondo, volgiamo gli occhi alla realtà e la troviamo modificata. Lo spettacolo racconta per immagini un naufragio che riguarda tutti, non certo l’Odisseo mitico, ma un umanità che viaggia col proposito di scoprire l’ignoto. Si imbarcano tutti in un opera a me cara che è il ‘Mese delle vendemmie’ di Magritte e lì, credendosi al riparo, finiscono alla fine con l’annegare miseramente inascoltati, come speso succede ai poeti oggi. Questo davvero detto in breve. Le suggestioni sono tante, il riferimento alla pittura diviene fortissimo in ogni quadro e lo spettacolo ha una sua narrazione interna che ho vissuto con forte emozione. Devo molto alla forza degli attori, alla bellissima musica di Giuseppe Rizzo che è nata ed è stata composta durante le prove e ha spesso influenzato il mio lavoro, e la scena di Enzo Venezia ha fatto il resto, un alto muro di ferro che come un monolite ha inghiottito alla fine tutti, anche gli spettatori. Sono stato felice di tornare al festival come artista e non solo come direttore artistico. Le mie presenze qui sono rare, ma ogni tanto oso anch’io presentare un mio tentativo. Gli spettatori ci hanno tributato un bellissimo applauso e spero che lo spettacolo abbia un futuro.
SA: Qual è la funzione di un festival di teatro oggi?
CC: Credo sia quello di presentare lo stato dell’arte agli spettatori. Ciò che si è raggiunto e ciò che è stato raggiunto nel passato. E’ un viaggio anche un festival, si va dappertutto con facilità, è un mondo che si presenta ai nostri occhi per essere esplorato con gioia. Riguarda gli artisti e gli spettatori e nessun altro, uno sguardo sul presente e uno scambio di energia vitale. Non so quale sia la funzione del festival, ma so qual è la funzione del nostro: unire il linguaggio dell’arte alla vita, abolire la distanza, essere una valida alternativa per la conoscenza, arricchire l’anima di tutti di esperienze anche distanti tra loro, ma vive e ricche di fascino. Mettere in collegamento ciò che nasce anche in paesi lontani dal nostro. Sono momenti indispensabili di gioia e riflessione e credo servano a noi essere umani per stare insieme e condividere.
SA: Il futuro di Orestiadi: nel segno del contemporaneo è più rosa o nero? C'è tanto volontariato dietro l'organizzazione, vuoi farci qualche nome?
CC: Credo e spero che il futuro sia rosa e pieno di speranze. Dobbiamo superare la fatica di un momento in cui le risorse sono drasticamente diminuite, ma credo che quello che sta facendo il Sindaco di Gibellina, Rosario Fontana, nuovo presidente della Fondazione insieme ai lavoratori, vada nella giusta direzione. E’ sua intenzione salvaguardare noi che lavoriamo qui e proteggere con forza l’idea di un progetto così vasto e impegnativo. Non c’è volontariato dietro il Festival, c’è il lavoro regolare di tutti che aspira solo a ritrovare serenità. I nomi che farei sono i nostri nomi. La Prof.ssa Francesca Corrao, che preside il comitato scientifico e che con sensibilità detta gli indirizzi, il segretario generale on. Calogero Pumilia che mantiene vivi i contatti con la politica, Giuseppe Pace all’amministrazione non certo facile della Fondazione, Tonino D’Aloisio a cui si deve insieme alla squadra tecnica la riuscita del festival, una squadra infaticabile che lavora spesso in ore notturne, Ninni Scovazzo alla grafica e alla comunicazione insieme a Elena Andolfi che cura anche la biblioteca, Enzo Fiammetta direttore del Museo e di tutte le iniziative che riguardano le arti visive, dagli atelier degli artisti in residenza, al lavoro sul territorio e alle trasferte del nostro patrimonio artistico, e poi Salvatore Zummo, Enzo Falco, Zara, Giulia D’Oro che è stata mia valida assistente negli ultimi due anni e molti altri ancora che collaborano alla riuscita del nostro lavoro.
SA: Rispetto ad una condizione critica in cui volge gran parte dello showbusiness, volendo trasmettere l'esperienza di Orestiadi a Gibellina, qualche consiglio sul come procedere lo daresti?
CC: Credo che ci voglia un sistema che possa mettere in rete molte delle ricche esperienze in Sicilia. Un pensiero che serva ad alimentare le collaborazioni. Inoltre credo sia fondamentale lavorare bene sui fondi europei.
SA: Cosa ne pensi dell'attuale stato delle opere a Gibellina? Resta una città incompiuta che mostra un volto del fallimento siciliano rispetto ai progetti artistici e al contemporaneo per di più.
CC: Quando si dice che le opere sono incompiute, spesso si sottolinea come stai facendo tu, il fallimento. Io non credo si possa dire questo. L’opera è stata iniziata e va certamente completata. Le opere sono tantissime e formano un tessuto paragonabile a un museo aperto. Andrebbero ristrutturate, messe in sicurezza, completate. L’opera del sen. Ludovico Corrao è iniziata tantissimi anni fa, tocca noi continuarla, non si può pensare che un uomo solo potesse portare a compimento tutto. L’ha fatto finché è stato in vita, adesso tocca a noi portare avanti la sua opera. E ai suoi successori. Il nuovo presidente Rosario Fontana sta davvero molto bene riprendendo i fili di una trama che negli ultimi anni sembrava spezzarsi.
SA: Come operatore culturale vuoi farti portavoce di un messaggio e di un sentire comune e dire qualcosa a chi rappresenta le istituzioni locali?
CC: Scegliete con serenità, valorizzate l’esistente, date speranza alla nuove forze, alimentate invece di spegnere. Siate davvero interessati all’arte, accrescete la vostra spiritualità, state più vicini alla gente che lavora da sempre con serietà e onestà. Stabilite criteri a cui rispondere, create un sistema che abbia forti connessioni con un pensiero. Comprendete le specificità di tutti e date risorse per quello che è possibile alle realtà storiche che non sono poi tantissime. Ma cercate anche di conoscere da vicino le cose che facciamo. Il mio messaggio? Arte, cultura, spettacolo, turismo, beni culturali e paesaggistici, patrimonio inestimabile della Sicilia. Investiamo su questo. Ricordi la risposta di Churchill a chi gli chiese in piena minaccia nazista di ridurre le spese destinate alla cultura a favore dell’armamento? Bene, rispose, neanche una sterlina di tagli alla cultura, se no che combattiamo a fare? Ecco mi sembra che quelle parole debbano oggi essere ricordate.
SA: Secondo te, quale è stata in passato e qual è oggi la funzione della Fondazione Orestiadi. Come viene sentita e vissuta dai gibellinesi, e chiedo anche per il resto dell'anno, questa realtà culturale?
CC: La Fondazione ha una lunga storia che risale al 1982. Il festival delle Orestiadi nella seconda metà del 2014 presenterà al pubblico la sua XXXIII edizione. Un viaggio che è iniziato nel 1982 e, senza interruzioni, è arrivato fino ad oggi. Noi che oggi lavoriamo qui, custodi di questa felice intuizione, eravamo giovani quando per la prima volta assistemmo alle rappresentazioni. Nel 1983 fummo testimoni della nascita della tragedia eschilea, tradotta e parlata nel siciliano antico, poetico e visionario di Emilio Isgrò, e ne rimanemmo affascinati, e io partirei da questo dato diciamo niente affatto sporadico o raro: il fascino che Gibellina riesce ad esercitare su chi ha - come dice Rilke in suo bellissimo verso delle Elegie Duinesi - uno sguardo che può e sa anche imparare a vedere. Questo luogo è stato abitato da centinaia di artisti, registi, compositori, scenografi, costumisti, attori, chiamati qui a creare e realizzare opere che fossero in forte connessione con il mito e la storia di un popolo che a partire dalla notte del 15 gennaio del 1968 fu testimone e vittima di violentissime scosse di terremoto. Quattordici paesi della valle del Belìce per lo più collinari, vennero letteralmente rasi al suolo, con più di 400 morti, di cui 133 nella sola Gibellina, circa 1.000 feriti e centomila rimasero senza un tetto. La dimensione immaginaria del teatro comincia da qui, da una immane tragedia, e ha lasciato segni tangibili nella ricostruzione dei decenni successivi, fino ad oggi.
Torri che crollano, Gerusalemme, Atene, Alessandria, Londra, Vienna.
Irreali.
I versi del V canto della Terra Desolata di Eliot, Ciò che disse il tuono, (What the Thunder Said), rendono bene l’idea e servono come esempio per sottolineare che tra le opere rappresentate a Gibellina, T.S.E. di Bob Wilson è sicuramente tra le più affini, forse al pari della iniziale Orestea, alla tragedia che ha colpito quella popolazione nel 1968, una affinità di senso, di visione, e oggi direi anche di allusione musicale, con il boato del tuono che nel poema annunzia la pioggia e la rinascita, e a Gibellina è stato il tragico suono della terra esplosa che a fatica ha portato nuova vita e rinascita grazie all’arte, grazie al lavoro di tanti artisti che hanno pensato e realizzato in questa città, anch’essa irreale, le loro creazioni immortali. L’acqua di cui si era in attesa, è stata la linfa vitale degli artisti, che con le loro opere e con la loro poesia ha assicurato nuova fertilità e rinascita a un paesaggio divenuto arido e pieno di rovine, un paesaggio anche questo molto affine a quello che registi come Bob Wilson, Lev Dodin, Amos Gitai, Robert Lépage, Emir Kusturika, Cesare e Daniele Lievi, Roberto Andò, Ariane Mnouchkine, Peter Stein, Thierry Salmon, Pippo Del Bono, Alexandre Tocilescu, Mario Martone, Rodrigo Garcia, Elio De Capitani, Pietro Carriglio, Raul Ruiz, Franco Scaldati, per citare solo alcuni tra i tantissimi artisti di chiara fama che nel corso di trentadue edizioni del festival, hanno visto e vissuto il paesaggio della nostra città nuova e antica, durante la loro permanenza nei luoghi trasformati da Burri, Paladino, de Menil, Consagra, Pomodoro, Venezia, Soldano, Nunzio. E a questi vanno aggiunti musicisti e compositori, come Daniele Abbado, John Cage, Luciano Berio, Marco Betta, Roberto Fabbriciani, Robert Fripp, Philip Glass, Federico Incardona, Giovanni ed Eliodoro Sollima, Luigi Cinque, John Surman, e attori e ancora scenografi e costumisti. Una lista davvero infinita cui vanno aggiunti poeti, fotografi, architetti, artisti visivi, che hanno spesso collaborato e creato insieme.
Il teatro a Gibellina ha sempre svolto un ruolo e una funzione più complessa di quella del semplice evento teatrale, facendo leva sulla memoria collettiva e su quella storica. E’ stata la risposta, direi immediata di Ludovico Corrao, al dramma per trasformare la tragedia in speranza. Non una semplice ricostruzione di case, ma un progetto più grande che rasentava allora l’utopia: affidare al teatro e agli artisti il passaggio, la trasformazione, la restituzione di un sogno a una popolazione annichilita dal dolore, e offrire ad essa una nuova realtà in cui credere, grazie a un coinvolgimento attivo che ha prodotto lavoro e socialità. La sfida fu quella di restare a Gibellina contro ogni speranza e ridare la speranza fu dunque fondamentale per resistere. E Gibellina è divenuta simbolo dell’operare attraverso l’arte. Questo fu il pensiero dell’allora Sindaco e fondatore delle Orestiadi, che chiamò a raccolta gli artisti per rifondare la città distrutta attraverso il valore etico del teatro e dell’arte in genere. Per tantissimi anni la Fondazione è stata un luogo che ha generato e prodotto arte, anche con un forte e mai trascurato valore sociale. Gli spettacoli prodotti qui sono stati tantissimi, e costituiscono un cospicuo patrimonio non effimero, la cui densità è ancora oggi presente. E’ sicuro che qui al teatro venne chiesto di uscire dai suoi spazi convenzionali o quanto meno tradizionali e gli fu chiesto di occupare all’inizio i luoghi abbandonati e di macerie - non tanto come si farebbe oggi con una fabbrica dismessa o uno spazio di archeologia industriale, per rivitalizzarli o per conferire loro una nuova dimensione - bensì sia per dare ancora vita a ciò che era rimasto in noi nella memoria, che per salvare dall’oblio ciò che poteva o rischiava di essere sepolto due volte. Il paesaggio con macerie venne radicalmente trasformato con il progetto che nacque dall’incontro tra il senatore Corrao e Alberto Burri, che riutilizzò le macerie raccolte in blocchi e li ricoprì di cemento bianco, con percorsi pedonali che riprendevano in parte le vecchie strade di Gibellina e in parte i cretti, le fratture, ovvero i segni inconfondibili dell’artista. E quell’opera, una delle più grandi opere di land-art al mondo, un’area vasta poco meno di dodici ettari, divenne la skené greca, nuda e scarna di artifici, un lenzuolo funebre, sudario di un abbagliante bianco, che coprì i luoghi del sisma, e divenne anche un enorme luogo scenico che accolse spettacoli indimenticabili anche grazie al forte impatto emotivo di quel paesaggio lunare in cui contava soprattutto la forza dell’invisibile, di ciò che non si vedeva più, e quindi proprio il nascosto, risultava con il teatro ancora più evidente. Il Teatro ai Ruderi ospitò oltre che la trilogia dell’Orestea di Emilio Isgrò, la Tragedia di Didone da Marlowe di Cherif con le scenografie di Pomodoro, La morte di Empedocle di Hölderlin dei fratelli Lievi con le scene di Nunzio, l’Oresteia di Eschilo di Kokkos e Xenakis con le sculture di Francis Poirier, l’Oedipus Rex di Jean Cocteau per la regia di Mario Martone e le scene di Pietro Consagra, e ancora Le troiane da Euripide di Thierry Salmon, La sposa di Messina da Schiller, diretta nel 1990 da Elio De Capitani con la scena della montagna di sale di Mimmo Paladino, opera divenuta un simbolo della Fondazione, uno dei tanti vorrei dire, e che da giovane attore scalai innumerevoli volte per recitare i versi della tragedia nella straordinaria traduzione in lingua siciliana di Franco Scaldati, e ancora la Metamorfosi della luna diretta da Amos Gitai da La guerra giudaica di Flavio Giuseppe, e l’Antigone da Sofocle con la compagnia del teatro Bulandra di Bucarest diretta da Tocilescu, l’Orestiade di Peter Stein, il Verso Macbeth di Nekrosius, il Silenzio di Pippo del Bono e ancora molti altri che solo per amore di brevità non cito, scusandomi. Teatro che nelle scelte di drammaturgia ribadiva ancora di più la forte connessione con il mistero della tragedia in un paesaggio tragico. E questa decisione non fu solo per il genius loci, ma proprio per la forte connessione che si avvertì tra tragedie solo distanti nel tempo, ma con molti elementi in comune, primo fra tutti - a mio parere - i morti.
E in quei lavori fu forte la presenza dei gibellinesi, bambini al tempo del terremoto, e ora adulti partecipi in scena di quella toccante memoria, insieme a donne e uomini ora anziani, e che ritornavano su quei luoghi a far rivivere i propri cari attraverso le parole dei poeti. Il teatro quindi occupò quello spazio innanzitutto per necessaria intuizione di Ludovico Corrao, ed ebbe un carattere quasi rinascimentale di committenza fin dall’origine e, grazie alle direzioni artistiche che si succedettero mise insieme l’opera degli artisti visivi e dei registi e della gente di Gibellina. Tutti, impegnati qui nelle varie imprese teatrali, seppero riconoscere la responsabilità della creazione, vissero in lunghe residenze insieme ai collaboratori, agli attori e ai tecnici, alle maestranze fondando vere e proprie botteghe artigianali e comunità al lavoro. Rivedendo anche nel tempo l’immenso patrimonio teatrale che qui venne e continua oggi ad essere generato, seppure con modalità diverse - rimane forte la volontà di dare senso e di aggiungere senso a quanto qui nasce, nel rispetto di una rarissima e felice utopia, che continua a vedere nel teatro, nella poesia e nell’arte non solo uno sviluppo sociale ed economico, ma anche un movimento di liberazione dal giogo dell’inerzia e del fallimento. Il festival delle Orestiadi, che nel 2011 ha vinto il premio dell’Associazione dei critici italiani, dicevo in apertura di questo mio intervento, ha oggi trentadue anni di età, e li dimostra tutti, una longevità che appartiene a pochi festival e, nonostante le difficoltà di natura economica, mantiene giovane lo spirito come nel lontano 1981, anno della sua nascita. Lo dichiaro in nome di tutti noi che qui lavoriamo con amore e passione tutto l’anno e che ci prendiamo cura di questo magico giardino dei poeti. Sono molte le collaborazioni che, al di là dei singoli spettacoli, sanciscono la volontà delle Orestiadi di creare dialogo e sviluppo progettuale, con programmi non solo rivolti agli spettatori ma anche alle giovani generazioni e agli allievi della scuola in generale e delle scuole di musica, di danza e teatro e arti visive applicate alla scena. E continua il percorso che chiede innanzitutto il dialogo tra le arti e che si nutre dell’affascinante indagine tra poeti e creatori che non amano i confini dell’espressione, e continua a crescere il numero degli artisti di rilevanza italiana ed europea che vengono ospitati dal nostro festival. Un festival che si nutre di confronto e incontro tra i popoli, com’è ben dichiarato nel codice etico della Fondazione. Continua con orgoglio il nostro lavoro sul territorio secondo progetti che ci legano sin dall’ideazione a importanti istituzioni culturali siciliane e italiane, con l’ambizione di non sentirsi soli, bensì in grado di tessere relazioni, dare vita a orizzonti allargati e complessi con iniziative che non sono solo performative, ma raccontano di percorsi originali e necessari, fatti soprattutto di pensiero e di riflessione sull’arte. Continua infine la nostra ospitalità come valore assoluto e originario di questa esperienza unica, un’isola felice da sempre dedicata alla fratellanza tra i popoli, in una città, Gibellina, che ha avuto il merito e l’onere di costituirsi da sempre - non solo metaforicamente - parte civile in un processo contro l’indifferenza e un rischio di un disinteresse diffuso verso la poesia e la pace. Qui, in questo luogo sorto da un’utopia, vive ancora oggi la felice intuizione di allora: l’autonomia delle scoperte e del dialogo tra ciò che esiste e ciò che trasforma in modo differente l’esistente, il Teatro, per ritrovarci di volta in volta in grado di rielaborare il mito e di recuperare ogni possibile connessione con la Storia, in scenari naturali che solo lo sguardo allenato a vedere degli artisti, può garantire con così grande e felice riuscita.
SA: Vuoi aggiungere altro?
CC: Grazie, va bene così. Vi aspettiamo qui.
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