Five dancers are standing in a row at the far side of the stage, facing the audience. Silent. Immobile.
The movement starts imperceptibly in just one body. The music describes it exactly.
The dialectic relationship between music and dance become tangible.
That relationship becomes even more central thanks to the musician's physical presence on the stage, a concrete and constant presence that becomes a reference point; a presence that gives life to the bodies and their own movement; a presence that seems to be the breath of the dancing body.
The movement gives life to all the dancers' bodies one after another in a pressing swell.
The music and dance define each other; to each layer of sound, of a very complex music, corresponds a performer's dance. Each dance is characterized by it's own gestures, speed and size. Each gesture transforms itself into the next one and back again.
The tension, speed, music and performers' efforts relentlessly increase. All of this is happening without ever moving the feet off the ground. The dancers are wiggling; heads, arms, and backs are continuously tracing lines and whirling directions in the space. At the same time, their feet remain glued the the ground.
The audience can feel a kind of entrapping emotion. Ironically, they also experience the inability to move, to go away.
The dancers are never in touch with each other, but only through a weak echo of movements. They appear as islands, microcosms separated from everything. They seem to be entrapped in an endless loop of movement. They appear enchanted by a spell that keep them moving. The dancers seem to be forced to dance by the music, against their will.
The feeling in the audience becomes anxious, lonely, stressed, a loss of every direction, of every focus. The audience remains lost in a stormy ocean.
These feelings seem to be shared with the dancers, who's facial expressions are intense and full of pathos. It is unbelievable that they still have the energy for even the slightest movements.
The second part is very different.
The feet leave the ground. The mobility of the bodies in the space draws shapes, creates reference points and relationship between dancing bodies. The choreography keeps its own scheme in which every movement manifests itself through different speed, size and rhythm. The ground becomes an essential element that allows bodies to rest, fall and bounce back.
This kind of movements revokes an animal nature, primordial instinct.
The breathing starts to be very amplified and the movement of chest and abdomen became central. This happen both in supine position and on all fours.
While on all fours, a true nature, which is always within a human being, is strongly revealed.
The loneliness and the lack of communication that were so strong in the first part of the performance transform into a symbiotic collective state.
A tiny contact between two bodies progressively becomes a full contact between every single body and the other dancers' bodies, until the point that it's impossible to distinguish the single person.
Two dancers start to roll over as though they are repeatedly absorbing each other.
This rolling progressively swallows all the performers, now they are just one enormous embryo.
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Meg Stuart is an American choreographer and dancer living and working in Berlin and Brussels. After completing her studies in New York City and following an invitation from the Klapstuk festival in Leuven, she created her first evening-length piece, Disfigure Study, which launched her choreographic career in Europe. Stuart founded her own company, Damaged Goods, in 1994, through which she has realized more than 30 productions, ranging from solos to large-scale choreographies, site-specific creations and improvisation projects. She has collaborated with many artists, including Philipp Gehmacher, Doris Dziersk, Ann Hamilton, Claudia Hill, Benoît Lachambre and Hahn Rowe. On the invitation of intendant Johan Simons, Meg Stuart/Damaged Goods became associate artist to the Münchner Kammerspiele in 2010. Damaged Goods has an on-going collaboration with the Kaaitheater (Brussels) and the HAU Hebbel am Ufer (Berlin). In 2008 Meg Stuart received a Bessie Award for her body of works and the Flemish Culture Award in the performing arts category and in 2012, she was awarded the Konrad-Wolf-Preis by the Akademie der Künste in Berlin.
Seen at Fabbrica Europa Festival in Florence.
Violet, di Meg Stuart
Cinque danzatori disposti su una linea retta esattamente di fronte al pubblico, nella parte più lontana del palco. Silenzio. Immobilità.
Il movimento inizia impercettibile nel corpo di uno solo, la musica lo descrive esattamente, finchè,
uno dopo l'altro, non anima tutti i corpi, in un crescendo incalzante.
La musica e la danza si descrivono reciprocamente. Ad ogni strato sonoro, di una musica ricca e complessa, sembra corrispondere la danza di un ballerino, con i suoi propri gesti caratteristici che si manifestano e si sviluppano con velocità e ampiezze differenti, trasformandosi l'uno nell'altro e ritornando a quello originale.
Il rapporto dialettico fra musica e danza diventa tangibile ed evidente per la presenza del musicista e degli strumenti musicali sul palcoscenico. Una presenza concreta e costante che diventa anche un punto di riferimento spaziale, una presenza che anima i corpi e i loro movimenti, una presenza che sembra essere quasi il respiro stesso del corpo che danza.
La tensione, la velocità, la musica, lo sforzo fisico dei performers, aumentano implacabilmente.
Tutto ciò avviene senza staccare quasi mai i piedi da terra. I danzatori si dimenano, teste, braccia, schiene continuano a tracciare linee e direzioni vorticose nello spazio mentre i piedi restano praticamente incollati al suolo. Osservando, si percepisce una sensazione di intrappolamento, paradossale impossibilità di muoversi, spostarsi, andare via.
I performers non entrano mai in contatto fra loro in nessun modo, se non con una vaga, eco dei movimenti. Sembrano isole, microcosmi separati da tutto, intrappolati in un loop, come posseduti da un incantesimo che li costringe a un movimento senza fine, all'essere mossi da una musica interminabile a prescindere dalla loro volontà
La sensazione dello spettatore diventa di angoscia, ansia, solitudine, perdita totale di ogni direzione e di ogni centro; rimane disorientato dentro un mare tempestoso.
Questi sentimenti sembrano essere condivisi dai danzatori che mettono in scena una mimica facciale intensa e carica di pathos, mentre non si capisce come facciano ad avere ancora l'energia per produrre il minimo movimento.
La seconda parte è molto diversa. I piedi si staccano da terra e la mobilità dei corpi nello spazio disegna forme, crea punti di riferimento e relazioni fra i corpi che danzano. La coreografia mantiene il suo schema per cui ogni movimento si manifesta con forme, ampiezze e ritmi diversi.
Il suolo diventa un elemento fondamentale in cui il corpo si appoggia, cade, si alza. La tipologia dei gesti suggerisce una natura animale, istintiva, primordiale. Il respiro è fortemente amplificato e i movimenti toracici e addominali diventano centrali. Ciò avviene sia nella posizione supina che in quella quadrupedica; in quest'ultima si rivela fortemente la natura che alberga sempre e comunque nell'essere umano.
La solitudine e l'incomunicabilità dei corpi osservate nella prima fase della performance si trasformano in uno stato simbiotico collettivo. Il minimo contatto fra due corpi si trasforma gradualmente in una totale adesione di ogno singolo corpo e quello dei compagni quasi da non poterne distinguere più le individualità. Due danzatori iniziano a rotolare per terra uno sopra l'altro, come in un continuo fagocitarsi reciproco. Questo rotolamento ingloba gradualmente tutti i corpi, non è più possibile distinguere i singoli, sono stati trasformati in un solo grande embrione.
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Coreografa e danzatrice americana, Meg Stuart vive e lavora tra Berlino e Bruxelles. Dopo aver completato la sua formazione a New York, a seguito di un invito del festival Klapstuk di Leuven, nel 1991 crea Disfigure Study che lancia la sua carriera coreografica in Europa. Tre anni dopo fonda la sua compagnia Damaged Goods con cui ha realizzato più di trenta produzioni tra soli, coreografie su larga scala, creazioni site specific e progetti di improvvisazione. Nel 2008 Meg Stuart ha ottenuto il Bessie Award per l’insieme del suo lavoro e il Flemish Culture Award nella categoria performing arts, e nel 2012 viene è stata insignita del Konrad-Wolf-Preis dall’Akademie der Künste di Berlino.
Negli anni ha collaborato con molti artisti, tra cui Philipp Gehmacher, Doris Dziersk, Ann Hamilton, Claudia Hill, Benoît Lachambre e Hahn Rowe. Con Damaged Goods sta collaborando con il Kaaitheater di Bruxelles e l’HAU Hebbel am Ufer di Berlino.
Lo spettacolo è stato visto @ Festival Fabbrica Europa
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