Laureato al Dams nel 1987 con una tesi sul teatro di Pasolini (vincitrice del Premio Pier Paolo Pasolini e segnalata al Premio Ludovico Zorzi), Stefano Casi ha rivolto i suoi studi principalmente al teatro contemporaneo e all’opera complessiva di Pier Paolo Pasolini, pubblicando tra l’altro i volumi Teatro in delirio (1989), Pasolini un’idea di teatro (1990), Desiderio di Pasolini (1990), Andrea Adriatico: riflessi teatri di vita (2001), I teatri di Pasolini (2005, vincitore del Premio dell’Associazione Nazionale Critici di Teatro), Il teatro inopportuno di Copi (2008), Non io nei giorni felici. Beckett, Adriatico e il teatro del desiderio (2010), 600.000 e altre azioni teatrali per Giuliano Scabia (2012), Pasolini e il teatro (con Angela Felice e Gerardo Guccini, 2012).
Nel campo dell’organizzazione, è stato co-fondatore e co-direttore del festival Loro del Reno. Teatri indipendenti a Bologna (1989-90) e membro del comitato tecnico-scientifico di Santarcangelo dei Teatri (1992-93). Dal 1997 al 2010 è stato direttore artistico di Teatri di Vita, in collegialità con Andrea Adriatico, a Bologna.
Drammaturgo e sceneggiatore, ha curato la versione italiana di Donne. Guerra. Commedia di Thomas Brasch (pubblicata e rappresentata nel 1995) e di The Sunset Limited di Cormac McCarthy (rappresentata nel 2010), nonché la drammaturgia di opere di Koltès, Fallaci e Tremblay. Ha scritto, con altri, Il vento, di sera di Andrea Adriatico (Festival del Cinema di Berlino, 2004) e All’amore assente di Andrea Adriatico (London Film Festival, 2007; premio speciale della giuria al Festival di Annecy).
Ha lavorato nei quotidiani l’Unità e la Repubblica, come giornalista professionista, e ha collaborato con numerose testate quotidiane e periodiche; ha fondato e diretto il trimestrale di cultura Società di pensieri (1992-96).
In qualità di docente, ha collaborato con il Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università di Bologna per la cattedra di Organizzazione ed Economia dello Spettacolo e per il Laboratorio di Critica e, attualmente, insegna Letteratura e Filosofia del Teatro all’Accademia di Belle Arti di Bologna.
Insieme a Elena di Gioia, ha organizzato a Teatri di Vita nell’ottobre 2011 una due giorni sul tema Passione e ideologia. Il teatro (è) politico, fortemente voluta da Andrea Adriatico. Dal convegno è nato il volume omonimo, pubblicato sia come ebook sia in versione cartacea per Editoria & Spettacolo (2012).
Lungi dall’essere una semplice raccolta di “atti”, il libro, a cura degli stessi Stefano Casi e Elena Di Gioia, riunisce gli interventi riformulati per la pubblicazione e in parte ridistribuiti rispetto all’ordine originario di esposizione, seguiti da un “epistolario” realizzato successivamente al convegno.
Nella prima parte, che si articola in cinque sezioni, vengono affrontati i temi della dimensione politica del teatro contemporaneo (IL TEATRO “È” POLITICO) e delle sue molteplici forme (QUESTIONE DI LINGUAGGIO), del rapporto tra il teatro e la politica “attiva” (IL TEATRO È DI DESTRA O DI SINISTRA?), della dialettica attore-spettatore (DELLA RESPONSABILITÀ, DELLA PARTECIPAZIONE) e delle nuove connessioni tra il teatro e la città, con un contributo conclusivo di Antonella Agnoli che guarda alla biblioteca come spazio collettivo di cultura che potrebbe lavorare con il teatro per obiettivi o strategie comuni (TEATRO E POLIS). La seconda parte, concepita come un “coro”, è costituita dalle risposte, in prosa o in versi, di diversi artisti alla domanda “che cos’è il teatro? politico?”.
Tra gli studiosi e osservatori intervenuti al convegno e nel volume, si annoverano Sandro Avanzo, Rossella Battisti, Letizia Bernazza, Daria Bonfietti, Marco De Marinis, Lorenzo Donati, Mimma Gallina, Roberto Grandi, Katia Ippaso, Giuseppe Liotta, Lorenzo Mango, Gianni Manzella, Laura Mariani, Massimo Marino, Leonardo Mello, Renata M. Molinari, Enrico Pitozzi, Marco Pustianaz, Franco Ricordi, Paolo Ruffini e Rodolfo Sacchettini; tra gli artisti, Andrea Adriatico, Babilonia Teatri, Pietro Babina, Francesca Ballico, Alessandro Bergonzoni, Roberta Biagiarelli, Elena Bucci, Romeo Castellucci, Ascanio Celestini, Giuseppe Cutino, Emma Dante, Pietro Floridia, Bruna Gambarelli, Eva Geatti, Fabrizio Gifuni, Elena Guerrini, Saverio La Ruina, Chiara Lagani, Roberto Latini, Sandro Lombardi, Marco Martinelli, Stefano Massini, Flavia Mastrella, Fiorenza Menni, Claudio Morganti, Enzo Moscato, Daniela Nicolò, Fausto Paravidino, Mario Perrotta, Antonio Rezza, Giuliano Scabia, Spiro Scimone, Marco Sgrosso, Daniele Timpano e Emanuele Valenti.
SA: Dal 1997 al 2010 sei stato direttore artistico di Teatri di Vita e, in seguito, sei rimasto nel board della direzione artistica. Cosa pensi che abbia caratterizzato il tuo stile direttivo? Qual è oggi il tuo effettivo contributo?
SC: Al di là della specificità del mio contributo personale, che faccio fatica a individuare (nel senso che forse occorrerebbe uno sguardo esterno più lucido), la direzione artistica di Teatri di Vita ha sempre avuto caratteristiche di collegialità con Andrea Adriatico, perlomeno in senso ideale. Ci accomuna l’idea di un teatro al plurale, e quindi la curiosità per esperienze artistiche molto diverse e lontane fra loro; la necessità della contaminazione ma anche del rigore (per esempio sulla testualità); la necessità di concentrare lo sguardo, con identica attenzione, a oltre frontiera e a ciò che si muove nel territorio. Se ripenso alle stagioni firmate da me, così come a quelle successive, vedo in continuità l’idea di offrire agli spettatori percorsi di conoscenza fortemente variegati, ma che hanno nella emozione da una parte e nel pensiero dall’altra i loro motori principali. E poi ho sicuramente aggiunto di mio una forte tensione verso la centralità dello spettatore: nel 1997 ho definito Teatri di Vita come “centro per la sperimentazione dello spettatore”, attivando diverse modalità di interazione con il pubblico, a cominciare dalla creazione di un laboratorio annuale di critica aperto agli spettatori (che non avessero ambizioni come critici professionisti: quindi spettatori... veri!), che credo sia stato uno dei primi in Italia e che ha aperto la strada ai tanti che negli ultimi tempi sono presenti quasi ogni festival e rassegna.
SA: Tu e Andrea Adriatico…
SC: È un sodalizio di lunghissima data, che si basa da una parte sulla consonanza di vedute sul teatro contemporaneo e su un atteggiamento schivo rispetto al mainstream di questo teatro, non per snobismo ma per carattere e anche per un senso di disagio rispetto a certi rassemblements (cosa che ci ha procurato non pochi problemi, visto che non siamo mai nel posto giusto al momento giusto e con le conoscenze giuste). E dall’altra, il sodalizio si basa su una profonda stima reciproca per il lavoro dell’altro: il mio più da studioso e da dramaturg (nel senso che più che direttore del teatro mi sento una figura cerniera di riflessione e costruzione di progetti culturali), il suo più da regista con un lavoro che continua dopo oltre vent’anni a sorprendermi, come nello spettacolo-romanzo tratto da Pier Vittorio Tondelli Biglietti da camere separate, che riprenderemo anche quest’anno in stagione.
SA: Presenteresti ai nostri lettori la nuova stagione 2014? Ci sarà un tema conduttore?
SC: Il blocco di stagione da gennaio a maggio 2014 completa il lavoro iniziato nell’autunno 2013 e rilancia a un altro livello. Più che un tema, direi che esiste una parola d’ordine, e cioè “curiosità”, che è quella che chiediamo al pubblico di Bologna e della regione che ci segue. Curiosità rispetto a diversi spettacoli che saranno realizzati in residenza e quindi debutteranno qui “senza rete”, e rispetto ad artisti e compagnie che spesso non stanno sotto i riflettori del mainstream o addirittura che sono ai loro primissimi passi, e che noi presentiamo alla pari con le esperienze artistiche più mature. La curiosità è ciò che accomuna noi quando compiliamo la stagione e il pubblico, a cui chiediamo di avere la stessa disponibilità per scommettere e rischiare.
SA: Da chi è costituito il vostro pubblico e qual è il suo feedback alle vostre proposte?
SC: Il nostro pubblico è molto vario, e questo è per noi motivo di vanto. Dagli studenti ai pensionati, riusciamo ad attirare ogni fascia d’età per spettacoli che in altri contesti sarebbero definiti generazionali. La pensionata che mi ha raccontato di essersi emozionata vedendo una performance di sperimentazione decisamente estrema è stato uno dei momenti più significativi rispetto al nostro modo di intendere il teatro: non ci piace un teatro con un pubblico omogeneo, ci piace mescolare le carte. E non ci piace un teatro fatto solo per addetti ai lavori e studenti che ambiscono a diventare addetti ai lavori: il teatro di ricerca e innovazione, che è poi ciò che ci interessa, deve superare gli steccati del circolo chiuso; troppe volte ci troviamo ad assistere a spettacoli in cui tutti gli spettatori si conoscono tra di loro. Il nostro tentativo va in un’altra direzione, e il feedback che riceviamo, al di là di specifici gradimenti su singoli spettacoli, è più che lusinghiero.
SA: Quanto incide la crisi economica nella programmazione di Teatri di Vita? Chi vi finanzia?
SC: A dir la verità la crisi economica noi ce la portiamo avanti da sempre, come peraltro l’intero settore dello spettacolo. Certo, quest’ultimo periodo contribuisce a deprimere ulteriormente il nostro lavoro, per il quale ci troviamo a fare, immagino come molte altre strutture, salti mortali che umiliano di fatto la nostra professionalità e quella di chi lavora con noi, a cominciare dagli artisti. Perché il problema è che, come si sa, la crisi non colpisce un settore che navigava nell’oro, ma un settore che da sempre è stato fanalino di coda degli investimenti. In questa situazione ci aiuta il fatto di avere convenzioni pluriennali con il Comune di Bologna e la Regione Emilia Romagna, che ci consentono di avere un po’ di respiro a medio termine. Poi ci sarebbe il Ministero, che però ci riconosce come compagnia di giro anziché come teatro stabile d’innovazione (che è di fatto la nostra identità), con contributi irrisori.
SA: Teatri di Vita è il teatro comunale di Bologna: come descriveresti questo contesto cittadino?
SC: Anzitutto una correzione: più che tecnicamente “comunale”, Teatri di Vita gestisce uno spazio teatrale del Comune di Bologna, destinato a coprire in città (secondo l’impostazione di “sistema” sui teatri di proprietà comunale) la fascia della ricerca, dell’innovazione e della danza. Il contesto sociale e culturale è molto stimolante, e sarebbe lungo indicarne le ragioni (a cominciare dalla presenza dell’Università). D’altra parte, può essere considerato stimolante anche per aspetti negativi: troppo adagiata sulla sua “superiorità” di illuminata città borghese-comunista del 900, Bologna non ha saputo tenere il passo dei suoi slanci più innovativi, segnando il passo e quindi, oggi, trovandosi in difficoltà. Siamo pur sempre una città ricca di stimoli, con buoni servizi e una significativa consuetudine al dibattito culturale e politico, ma dappertutto aleggia una sensazione di stanchezza e sconfitta. Dalla “piccola” prospettiva dei teatri, questo si vede molto bene: dalla crisi dell’Arena del Sole, crisi gestita in modo particolarmente schizofrenico, alla nostra stessa realtà, che mostra esemplarmente ciò che potrebbe essere (un teatro multisala in un parco, aperto alla scena internazionale e alle forze produttive) se solo fosse messo nelle condizioni di farlo realmente e pienamente.
SA: A proposito del titolo del libro, Passione e ideologia. Il teatro (è) politico (Teatri di Vita, Bologna 2012), esso rievoca il saggio di Pasolini Passione e ideologia (Garzanti, Milano 1960), dedicato nella prima parte alla poesia dialettale e alla poesia popolare italiana del Novecento, nella seconda a figure di spicco della letteratura italiana contemporanea. In una nota dell’autore, contenuta nel volume, leggiamo: “Passione e ideologia”: questo “e” non vuole costituire un’endiadi (passione ideologica o appassionata ideologia), se non come significato appena secondario. Né una concomitanza, ossia: “Passione e nel tempo stesso ideologia”. Vuol essere invece, se non proprio avversativo, almeno disgiuntivo: nel senso che pone una graduazione cronologica: “Prima passione e poi ideologia”, o meglio “Prima passione, ma poi ideologia”. Il lettore potrà capire questo passaggio sia con l’imbattersi in dichiarazioni esplicite, sia col seguire le trasformazioni e le varie vicende di due gruppi tematici: la poesia regionale dialettale e Pascoli. Vedrà come nei saggi più vecchi l’individuazione dell’esistenza di questi due fatti si limiti a se stessa, quasi che il suo attuarsi fosse di per sé una ragione critica esauriente. E non nego che in qualche modo lo fosse, data la sovversione di certi valori e di certe abitudini ch’essa implicava. Ma il lettore vedrà poi come, invece, quei due gruppi tematici, pur ritornando, pressoché ossessivi, per tutto il libro, prevedano una visione storica in cui la loro semplice constatazione non è più sufficiente. La passione, per sua natura analitica, lascia il posto all’ideologia, per sua natura sintetica.
Applicando il discorso al teatro politico e alla sua storia, l’accostamento tra passione e ideologia quale senso assume?
SC: Il titolo del libro che ho curato con Elena Di Gioia, e che parte da un convegno che abbiamo organizzato a Teatri di Vita, è prima di tutto un omaggio a Pasolini. Questa espressione in relazione con il teatro politico credo, però, che si debba intendere non nel senso di Pasolini, che ragionava secondo una progressione (dalla passione all’ideologia; come dire, pensando ai suoi punti di riferimento, da Rimbaud a Gramsci), ma proprio nei sensi che Pasolini esclude, e cioè la compresenza o l’opposizione di passione e ideologia. Nella storia del teatro politico o, meglio, del rapporto fra teatro e polis, i due termini sono sempre stati presenti e si sono nutriti (o combattuti) l’un l’altro. Nel teatro politico passione e ideologia costituiscono un’inestricabile endiadi dialettica.
SA: È possibile tracciare delle linee guida del teatro politico tra il Novecento e gli anni Duemila? Quali ne sono state le espressioni più significative?
SC: Mah, qui il discorso si fa al tempo stesso più complesso e più semplice. Opto per la seconda strada, con un discorso semplificato, rispondendo che nella sostanza tutto il teatro è politico, nel senso che tutto il teatro intreccia rapporti con la polis (semmai, per intendere il teatro espressamente votato alla propaganda o alla critica politica, si dovrebbe parlare di teatro ideologico), e quindi la storia del teatro politico si sovrappone, di fatto, alla storia tout court del teatro. In questo senso, il teatro politico si evolve con l’evolversi del teatro stesso, quindi più che di linee guida parlerei di un complessivo permanente slittamento di processi creativi e soprattutto di modalità di relazione con il pubblico, che credo costituisca di fatto l’elemento più importante e che può far da collegamento tra il 900 e il Duemila: ancora una volta mi sembra che sia la centralità del pubblico la vera chiave di volta dei processi innovativi del teatro del 900 e di questi primi decenni del Duemila, in particolare proprio nei suoi aspetti più “politici”.
SA: Teatri di Vita ha scelto di pubblicare il volume in formato ebook per favorire l’accessibilità, soprattutto a giovani e studenti, ai contributi raccolti in occasione dell’omonimo convegno, tenutosi a Bologna nell’ottobre 2011. Pensi che il teatro continuerà su questa linea editoriale? Sulla base di quali scelte?
SC: Il libro ha avuto prima una forma digitale, appunto in ebook scaricabile sia dal nostro sito in formato pdf, sia da Amazon in formato kindle; dopodiché è arrivato anche in forma cartacea in un bel volume per i tipi di Editoria & Spettacolo. La scelta dell’ebook è nata sia per una questione di praticità e rapidità, sia per l’accessibilità, grazie al costo molto basso. Credo che questa sia una linea importante, anche se personalmente sono molto legato alla carta. Diciamo che ci sono libri il cui scopo è quello della diffusione rapida (e quindi il percorso digitale risulta migliore e più strategico) e libri il cui scopo è quello della testimonianza a futura memoria (e allora è meglio la carta). E poi ci sono libri che aspirano a entrambe le dimensioni, come il nostro, e quindi sarebbe opportuno riuscire a offrire entrambe le possibilità. Nel nostro caso, la disponibilità – anzi, l’entusiasmo – di Editoria & Spettacolo nel voler pubblicare il libro dopo aver visto l’edizione digitale, è stata provvidenziale e ci ha permesso di aggiungere all’immediatezza dell’ebook anche il peso specifico di un’opera che ha modalità di lettura classiche e, credo, una buona prospettiva di permanenza.
SA: Tra i tuoi scritti si annoverano numerosi saggi sull’opera di Pasolini, pubblicati in volumi scientifici e riviste. Credi che sia necessario un approfondimento degli studi sul teatro pasoliniano anche da parte della comunità accademica?
SC: Assolutamente sì, e fortunatamente questo sta cominciando ad accadere. La drammaturgia di Pasolini è tra le esperienze di scrittura più importanti e stimolanti del teatro italiano, mentre le sue riflessioni teoriche affrontano in maniera originale questioni centrali. Nel mio libro I teatri di Pasolini di quasi dieci anni fa ho cercato di far emergere tutti questi aspetti, e la grande soddisfazione è verificare come molte intuizioni vengano oggi recepite e rilanciate dagli studiosi.
SA: Nel 1992-93 sei stato membro del comitato tecnico-scientifico del Festival di Santarcangelo. Ci parleresti di questa esperienza?
SC: È stata una bellissima esperienza, perché si è trattato di lavorare fianco a fianco con Antonio Attisani, allora direttore artistico del festival, che era una fucina di pensieri e intuizioni. Attisani lanciò ipotesi di lavoro che poi furono lasciate cadere dopo la sua rimozione e che successivamente sono state riprese, magari senza ricordarne il primo ideatore. Penso per esempio alla straordinaria apertura agli “Invisibili” fin dalla sua prima edizione, e penso al progetto (in parte attuato, ma poi dimenticato e ripreso solo recentemente) di rendere Santarcangelo uno spazio permanente aperto tutto l’anno (con tanto di fondazione di un edificio teatrale: posammo la prima pietra... che fu purtroppo anche l’ultima!). Nel 1992 e 1993 Santarcangelo rilanciò la sua presenza con proposte notevoli, grazie alle idee di Attisani e delle diverse persone con cui si confrontava. Personalmente ebbi la possibilità di aprire una finestra sulla danza contemporanea greca, con un artista straordinario come Dimitris Papaioannou, ma il grosso del mio lavoro fu nella costituzione, praticamente da zero, del settore comunicazione del festival, con linee di lavoro moderne.
SA: Cosa ne pensi dell’attuale situazione politica italiana, anche in relazione alla promozione e valorizzazione della cultura nelle sue diverse forme?
SC: Ne penso molto male e non vedo alcuna soluzione all’orizzonte. Finché la politica non si renderà conto della centralità (anche economica, ma non solo ovviamente) della cultura, e quindi della necessità di una politica culturale (con relativi investimenti), continueremo a essere un paese senza futuro. Ma questa classe politica è lo specchio perfetto di quella che Pasolini stesso aveva definito 50 anni fa (ed è tuttora attuale) “la borghesia più ignorante d’Europa”.
Passione e ideologia. Il teatro (è) politico, convegno a cura di Stefano Casi e Elena Di Gioia, Teatri di Vita / Palazzo d’Accursio, 10-11 ottobre 2011
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