In una società in cui la cultura, e il teatro insieme a essa, va consumata e anche velocemente, l’esperienza teatrale di Masque è una forma di resistenza che non ha eguali nel panorama italiano. Da quasi vent’anni Masque organizza un festival, "Crisalide", che ha ben poco di festival quanto di esercizio e di creazione. Un’occasione in cui teatro e filosofia dialoghino non separatamente, ognuna dal proprio altare, ma mescolandosi indissolubilmente: filosofia come gesto e gesto come fonte di pensiero. Un’occasione sempre più difficile dal punto di vista pratico visto che, dall’anno scorso, ha dovuto subire la riduzione del 75% sui finanziamenti della provincia. Eppure, nonostante tutto, un’esperienza che non perde la sua identità, il suo radicamento nello stato attuale delle cose, nella scottante urgenza di alcuni interrogativi.
Nessuna scelta è, nel cammino di Masque, scontata. E questo fa di Lorenzo Bazzocchi ed Eleonora Sedioli degli artisti imprevedibili, perché imprevedibili sono le strade che conducono lo studioso nel cuore della propria ricerca. Ogni volta che ci avviciniamo a Masque, virtualmente o fisicamente, sentiamo di entrare in una dimensione altra dove le parole, un cibo ingerito, uno sguardo, qualsiasi minuscolo evento, hanno un peso considerevole nell’equilibrio delle cose e contribuiscono, ognuno a suo modo, a rendere sempre viva e costante una tensione che individuiamo come linfa del loro lavoro e come stimolo per il nostro ruolo di spettatori, affinché anche il nostro cammino sia imprevedibile e mai scontato. Abbiamo posto delle domande a Lorenzo su Masque, sul teatro, sul "Crisalide", sull’Emilia Romagna, sulla scienza e sulla conoscenza. Quello che abbiamo ricevuto come risposta è stato questo testo che in parte offre uno spiraglio a quelle domande, in parte mostra la loro impossibilità e in parte le ignora. Ma sappiamo che, allo stesso modo in cui Lorenzo ci parla qui a proposito dell’inconcepibilità dello spettacolo considerato come “confezione di un ragionamento, chiusura di un progetto”, è plausibile che una serie di domande rimanga aperta, affacciata sul vuoto, ché le risposte potrebbero dare l’idea di una forma che la realtà informe delle cose non possiede.
Per quanto tempo abbiamo inseguito l’occhio di quella balena?
Che cosa è stato.
“Dove andare” ha a che fare con l’idea dell’esserci, della necessità di indagare sul senso della propria consistenza. La parola “scena” non ha per noi significato alcuno, se la si vede come luogo separato dal reale nel quale costruire lo spettacolo. La parola “spettacolo” non ha valore alcuno se lo si vede come opera, confezione di un ragionamento, chiusura di un progetto, scrittura di una visione. Traballanti, noi usciamo dalle nostre case, “in sarabachino”, accompagnati, in una perenne passeggiata. Lo stato del nostro moto è quello del ballerino che sceglie accuratamente la posizione dei propri passi sul bordo del marciapiede. In equilibrio. Precario. Inseguo la mano di un uomo sconosciuto, ne vedo chiaramente la schiena, la forma dei muscoli elevatori, i lividi delle cadute. Non si trema di fronte al nulla. Si accumula un dolore feroce per l’impossibilità di una qualsivoglia decente risposta. Da sempre sulla nuca l’alito della natura, di una natura che mortifica, che ci pone in uno stato di perenne allerta, che ci allontana dai simili a noi. Killer, una natura killer. Da sempre ho inventato la mia vita. Ho preteso da coloro che mi seguivano un attaccamento che non dava ricompensa, che non indicava una via, che lasciava aperta la strada dell’abbandono. Sempre perduti. Vedevo il colore, ne percepivo la forza; sentivo la materia che lambiva la figura. E il rivoltarsi su se stessa. E il piegarsi da sotto. Il prendere il bacino con le cosce e stringerlo al parapetto di marmo. Mi volto e scorgo pezzi di metallo, strisce di bianco, cenere; la luce radente, di sotto. Con le mani mi appoggio al pavimento, le assi di legno mi consegnano un piacere raro. Vedo degli uomini, camminano in ordine sparso. Come posso giustificare la totale assenza dai miei pensieri, come continuare a vivere in compagnia di un “me” sempre altro: lui racconta e mi dice di certi fatti. Domani inizia un lavoro duro. Ci alziamo alle 6,30. Andiamo a correre per una mezz’ora. Poi un caffè. E subito all’orto. È così che chiamiamo la nostra catacomba. Catacomba/tana. Per fuggire. Per vivere. Per vivere finalmente. Come trovare la forza per dirsi che solo lì sta la nostra vita. Non altrove. In questi giorni sto lavorando su una patch di Max che mi serve per seguire i passi della figura e contarli. Sto anche lavorando su un sistema di levitazione magnetica. Vorrei dare la possibilità ad Eleonora di stare sospesa, parzialmente intendo, sulla destra, fuori baricentro. Il corpo cerca una sua geometria, si allinea a volte all’orizzonte, a volte trova un parallelismo a certe linee di fuga. Faccio una grande fatica a descrivere tutto ciò. Ma è il corpo che decide dove andare, una volta che si sia scritta precisamente su carta l’intenzione. Mi chiedo cosa significhi inseguire la geometria. Forse che lo slittamento dei piani di un cristallo possa trovare ragione alcuna? Cosa insegue un cristallo quando accoppia gli spigoli dei suoi accrescimenti. Sta creando dei dispositivi di necessità. Necessità all’esserci. Precipitazione, crescita secondo precisi diagrammi di fase. Non sono paziente, quando è così evidente la direzione da prendere; non sono paziente, quando mi accorgo dell’inganno del piede, che se ne va per la sua strada, voglio che senta dolore. Dolore per esistere. Composizioni di contiguità, di alterazione, di ricostruzione. Il corpo ha sempre un muro di nebbia giallo al suo fianco. Sono qui, seduto sul primo piano della tribuna dell’orto. Di spalle ad un fotografo che scatta foto in bianco e nero alle cose; si è impuntato con la torretta di Achille. Ho dato il consenso a questi scatti. Ma non mi sento tranquillo. Per niente. Porta via qualcosa? Butto la testa di lato. Lui continua. Non ero neanche troppo giovane quando incontrai La scrittura del disastro di Blanchot. Per intere giornate non facevo altro che ripetermi quel ritornello sulla morte. Forse era “Un passo al di là”. Viviamo in una costante alterazione della realtà. La modifichiamo per dare una parvenza di sopportazione alla durezza. Mi volto, o mi piego e intravvedo strutture di possibilità: sempre e solo legate ad una condizione: quella della lotta, del combattimento; digrigno i denti e mi vedo. Vedo anche lei, loro. Attorno. Prendiamo delle vanghe; portiamo al centro dello spazio una credenza, un vecchio mobile da cucina, e cominciamo a romperla. Per quanto tempo abbiamo inseguito l’occhio di quella balena? E meniamo, su quel legno. Saltano gli sportelli, si sfascia il tutto. La luce ora filtra. Mai illuminare direttamente una figura, un corpo. Occorre inventare nuove superfici per accogliere la luce. Le macchie sul metallo di Achille sembrano peggiorare ogni giorno che passa. Le sto controllando con una lente di ingrandimento. La malattia del ferro. Mi sta dicendo alcune cose. E comunque non risponderò mai a coloro che vogliono sapere della vita di masque, che mi chiedono precisazioni su quello che è stato. Masque è un gioco. Una grande illusione. Un’altra vita. Forse un mondo nuovo dove stare.
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