There is no self-satisfaction nor self-pity in this portrait of a young artist, in fact, a slight amount of irony gives the play a bit of lightness, the same lightness that every common life faces its path with, despite any possible tragic implication.
“It’s true, I don’t exactly live as I wish and as I could, but everything will work out with the changing of the season”: a spring full of buds and sprouts appears to the young protagonist of Dodici parole buone ('Twelve good words'). He will gently step on the malleable ground of his present making it into a bundle that he will carry into an imminent future that appears brighter in his astigmatic eyes, despite he has already dealt with miracles that can come true only by a “solid base”. This portrait of a generation with ideals of light, as the subtitle of the play says, is a parable of the clash between reality and imagination, between concreteness and abstraction. The young dreamer (played by Stefano Farris) is accompanied only by a little chair and a little snail, Escargot, that hides in the corners of the limited space of reality which it finds itself to live in. In a long monologue (that is the dialogue with Escargot, with himself, or with a friend who doesn’t understand his choice) the dreamer goes over the parable of the clash between dreams and reality slowly lighting, one by one, twelve candles. Each of them represents a good word, a jump into the dreamers’ well. Good words that give him courage but that, at the same time, little by little, take him back to a reality made of practical needs. The script, written by Pierangelo Pompa (who is also the director of the play) on the grounds of textual fragments taken from the works of the Sardinian writer Salvatore Cambosu and of Vincent Van Gogh, outlines the story of disillusionment that can be valid in the XIX century as well as in ours: the wax of the twelve good words falls in the back of the dreamer in the shape of a growing number of inexorable little drops, and the audience, if on the one hand may worry and wonder how Stefano Farris can bear all that heat dripping on him, on the other hand, pretending for a moment to be the dreamer, is led to identify itself in the doubts and the enthusiasm of the protagonist feeling every burning drop as a piece of reality that turns into a weapon. There is no self-satisfaction nor self-pity in this portrait of a young artist, in fact, a slight amount of irony gives the play a bit of lightness, the same lightness that every common life faces its path with, despite any possible tragic implication. The desire of a shared experience, of a life devoted to art, of a few simple things is shattered by the need of money, the only guarantee of survival: the dreamer thinks he can live “with hardly any money” but in the end, the little money he earns being an artist won’t be enough to pay the rent (that “solid base” that makes miracles come true) and he will fall back on a job in a metallurgic industry, giving up his passion. The same person who asked himself incredulously: "What came first? The soul or the clothes?", the modern visionary Joan of Arc will turn into another ordinary man at the service of the industry and of the system of things that go as they must go; the system of concreteness. Escargot will die squashed under his boot, the twelve good words will fade out, and will be hushed up locked in his suitcase: “Words are brought away by the wind, and then nothing is true. No answer blows here around”. C’est la vie! And the only thing that remains is a suitcase and a journey that is still possible. Why not? Maybe different from what we thought it could be, but still possible.
Dodici parole buone / Antas Teatro
Non c’è autocompiacimento né autocommiserazione in questo ritratto di giovane artista, anzi, una lieve dose di ironia dona alla pièce leggerezza, quella stessa leggerezza con cui in fondo ogni vita comune, nonostante tutti i possibili risvolti tragici, si srotola su questa terra.
“È vero, non vivo esattamente come vorrei e potrei, ma tutto si risolverà con il cambio di stagione”: una primavera carica di gemme e germogli si staglia all’orizzonte del giovane protagonista di Dodici parole buone. Calpesterà piano la terra malleabile del suo presente e ne farà un fagotto da portarsi dietro in un futuro imminente che ai suoi occhi astigmatici appare più luminoso, nonostante già abbia avuto a che fare con i miracoli, possibili solo in presenza di una “base solida”. Questo ritratto di una generazione con ideali di luce, come recita il sottotitolo della pièce, è una parabola dello scontro tra realtà e fantasia, tra concretezza e astrazione. Il giovane sognatore (interpretato da Stefano Farris) è accompagnato unicamente da una piccola sedia e da una piccola lumaca, Escargot, che si nasconde negli anfratti del quadrato minimo di realtà che si ritrova a vivere. In un lungo monologo (che è dialogo con Escargot, con se stesso o con un amico che non comprende le sue scelte) il sognatore ripercorre la parabola dello scontro tra desideri e realtà accendendo a una a una, lentamente, dodici candele, ognuna delle quali corrisponde a una parola buona, un salto nel pozzo dei sognatori. Parole buone che gli danno coraggio ma che, allo stesso tempo, a poco a poco lo riporteranno sulla strada della realtà, fatta di bisogni pratici. Il testo, scritto da Pierangelo Pompa (sua è anche la regia) sulla base di frammenti testuali dello scrittore sardo Salvatore Cambosu e di Vincent Van Gogh, delinea una storia di disillusione valida nel XIX secolo come nel nostro: la cera delle dodici parole buone ormai sciolta cadrà a piccole gocce sempre più numerose e inesorabili sulla schiena del sognatore. Mentre lo spettatore si chiede preoccupato come farà mai Stefano Farris a sopportare tutto quel calore che gli gocciola addosso, il sognatore che è in lui si riconoscerà almeno un po’ nei dubbi e negli slanci di entusiasmo del protagonista e sentirà ogni goccia bollente come pezzi di realtà che si trasformano in armi. Ma non c’è autocompiacimento né autocommiserazione in questo ritratto di giovane artista, anzi, una lieve dose di ironia dona alla pièce leggerezza, quella stessa leggerezza con cui in fondo ogni vita comune, nonostante tutti i possibili risvolti tragici, si srotola su questa terra. Il desiderio di un’esperienza condivisa, di una vita votata all’arte, di poche semplici cose, si infrange contro il bisogno di denaro che garantisca sopravvivenza: il sognatore è certo di poter vivere “quasi senza denaro” ma alla fine quel poco denaro che ricaverà dal suo mestiere d’artista non gli basterà nemmeno a pagarsi l’affitto (quella “base solida” che garantisce l’avverarsi dei miracoli) e ripiegherà in un impiego nell’industria metallurgica e quindi nell’abbandono della propria passione. La stessa persona che si era chiesta incredula: “È nata prima l’anima o i vestiti?”, la visionaria Giovanna D’Arco moderna, si ritroverà a diventare un uomo in più al servizio dell’industria e del sistema della concretezza, delle cose che vanno come devono andare. Escargot morirà schiacciato sotto un suo scarpone, le dodici parole buone si spegneranno e verranno zittite, chiuse in valigia: “Le parole se le porta il vento. E poi non è vero niente. Qui non soffia nessuna risposta”. C’est la vie! E non rimane che una valigia immobile, un viaggio in fondo ancora possibile, perché no? Diverso da come l’avevamo immaginato, è vero, ma ancora possibile.
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