A bombed city womb is living in the slender and disarticulated physicalness of Alessandra Cristiani again. A trip to Sarajevo, made many years after the civil war, has been readapted in a distressed and distressing dance leading us from a past which is impossible to reconstruct, to a real present still full of painful scars.
Sarajevo is a peeling wall, a door that cannot be crossed, an abused body. With Geynest under gore, the shouted voices collected during the trip by Alessandra Cristiani come to our ears as a feeble whisper. The beauty of Alessandra Cristiani’s danced story is partly inside every slight violence of her movements. A suffered violence, whose wounds are represented by two paralyzed legs, two mutilated arms, a whole body stolen to childhood. Cristiani’s physicalness and nudity are bewildering, because they are showing us how many brutal naturalness could be in violence, and how few frills are necessary to tell it: a seashell, a dress, a black chalk and a pair of blood red trousers. Alessandra Cristiani describes war as a circle: From violence committed against the body, a body which represents the land itself, to other violence, but, however, not before being accompanied by the hand towards a dream, a coming back to an impossible past. The white pale Cristiani’s body is down to the ground, and it drags along hardly, her pelvis is motionless. Sand comes out from the seashell covering her womb, a white wake, witness of life, the beginning of life which is lost, the man’s semen lost in every abused woman or child’s sex, in the den of every ripped open house or shelter, in the bosom of the bombed land. The more the body goes ahead by dragging itself among the rooms, the more the wake extends itself and may not end unless the slow calling of a dream. A little dress-dome where the body, which returned small again, tiny, settles itself and finds a refuge in it. It hides in it, until disappearing. Having turned child again, the daughter of Sarajevo comes back home. But it is an impossible come back home, as it has been, as a matter of fact, for many of those who have lived the civil war. With the help of a chalk, it is easy to imagine a door that leads to her home. With the help of a chalk, it is easy to imagine a home. The home of all childhoods in Sarajevo. But to crossing that door, and that threshold, it is an unfulfilled wish. For Cristiani’s body, the bidimensionality of the wall is an obstacle to its imagined happiness. It crashes upon it and flattens, sliding down on the ground, returning to reality. The masterly use of the stage lights (edited by Gianni Staropoli), perfectly in symbiosis with the dance, as well as the music selected by the artist (including the metal, robotic sounds of Jed Whitaker), remind us that we are in a battlefield. Even though at the time of Cristiani’s trip civil war was long over, a city under siege remains besieged much longer than the actual duration of it: its ruins continue to talk about death and destruction for decades. A war doesn’t end so easily. The strip of light grows thinner more and more, by cleaving with silent brutality the darkness of the room at the end of the dream (while Dream a little dream of me drifts away played by a band known by chance by Alessandra Cristiani during her stay in Sarajevo), reminds us that war is not over not only because, as people, we are still talking about it, but because the places themselves tell us about it, like Sarajevo or like the cold rooms, remindful of a luxurious past, like the rooms wherein Cristiani has chosen to live again her story. After having hung the dream (the flowered dress) on the wall next to the shapes of her abused past, Cristiani’s body disappears and rematerialize after a few interminable seconds in another room to which the spectator will address his look by keeping at safe distance. At this point, violence is much more outspoken: the disjointing power of war revive on its interpreter’s body, a power still able to break up in pieces once again, in the extreme simplicity of the gesture. If during the short backwards dream the interpretation of Alessandra Cristiani is reminiscent about discomfort, the uncomfortable shots which Francesca Woodman dedicated to herself, trapped in the middle of creased wallpaper of enormous and abandoned rooms, now her bright red trousers, her white arms cut off in a convulsive and helpless movement, the even more insistent sound design, and finally, the mournful black depth of the scene, all of this suggest us an even more wasted scenery. A hopeless scenery which is and remains topical. Alessandra Cristiani slips down to the floor, once again leaned against one of these walls, which are the eternal obstacles of an unchanged and unchangeable reality.
Geynest under gore / Alessandra Cristiani
Il ventre di una città bombardata rivive nell’esile e disarticolata fisicità di Alessandra Cristiani. Un viaggio a Sarajevo, molti anni dopo la guerra civile, rielaborato in una danza desolata e desolante che ci conduce dal sogno di un passato impossibile da ricostruire alla realtà di un presente ancora pieno di dolorose cicatrici.
Sarajevo è una parete scrostata, una porta impossibile da attraversare, un corpo violentato. Attraverso Geynest under gore le voci gridate raccolte in viaggio da Alessandra Cristiani arrivano alle nostre orecchie sussurrate appena. La bellezza del racconto danzato di Alessandra Cristiani risiede, in parte, nella levità della violenza che, comunque, rapprende ogni gesto. Una violenza sempre subita, le cui cicatrici sono due gambe paralizzate, due braccia monche, un corpo intero sottratto all’infanzia. La fisicità, la nudità della Cristiani sono spiazzanti perché dimostrano quanta brutale naturalezza può esserci nella violenza e quanti pochi orpelli siano necessari per raccontarla: una conchiglia, un vestito, un gessetto nero e un paio di pantaloni rosso sangue. La descrizione che la Cristiani fa della guerra è un cerchio: dalla violenza perpetrata sul corpo, corpo che rappresenta la terra stessa, verso altra violenza; non prima però di essere stati condotti, quasi accompagnati per mano lungo un sogno, un ritorno a un passato impossibile. Il corpo bianchissimo della Cristiani è a terra e si trascina faticosamente, il bacino immobile. Dalla conchiglia che copre il suo ventre fuoriesce della sabbia, una scia bianca a testimoniare la vita, il principio della vita disperso, il seme dell’uomo andato perduto nel sesso di ogni donna o bambina violentate, nell’antro di ogni casa o rifugio sventrati, nel seno della terra bombardata. Più il corpo va avanti trascinandosi per le stanze, più la scia si allunga e potrebbe forse non concludersi se non fosse per l’imporsi lento di un sogno. Un piccolo vestito-cupoletta in cui il corpo tornato piccolo, minuscolo, si insedia e vi trova quasi riparo, vi si nasconde fino a scomparire. Tornata bambina, la figlia di Sarajevo ritorna a casa. Ma è un ritorno impossibile come di fatti lo è stato per molti di coloro che hanno vissuto la guerra civile. È facile con un gessetto immaginare l’esistenza di una porta che conduca verso la propria casa. È facile con un gessetto immaginare una casa. Il focolare di tutte le infanzie di Sarajevo. Ma varcare quella porta e la quella soglia rimane un desiderio inappagato. Il corpo della Cristiani trova nella bidimensionalità della parete l’ostacolo alla propria felicità immaginata. Vi si scontra e vi si appiattisce, scivolando a terra, ritornando alla realtà. Il sapiente utilizzo delle luci di scena (curate da Gianni Staropoli), in perfetta simbiosi con la danza quanto le musiche scelte dall’artista (tra le quali i suoni metallici, robotici di Jed Whitaker) , ci ricorda costantemente che siamo in un campo di guerra. Nonostante all’epoca del viaggio della Cristiani la guerra civile fosse già finita da un pezzo, una città assediata rimane tale molto più a lungo rispetto all’effettiva durata dell’assedio: le sue rovine continuano per decenni a parlare di morte e distruzione. Una guerra non finisce così facilmente. La striscia di luce che si assottiglia sempre di più, fendendo con silenziosa brutalità il buio della stanza alla fine del sogno (mentre scivola via una Dream a little dream of me cantata da una band conosciuta dalla Cristiani per caso durante il soggiorno a Sarajevo) , ci ricorda che la guerra non è finita e non solo perché noi uomini ne parliamo ma perché i luoghi stessi, come Sarajevo o come le fredde stanze memori di un passato fastoso come quelle in cui la Cristiani ha scelto di rivivere il suo racconto, ci parlano di essa. Appeso il sogno (il vestito a fiori) alla parete accanto alle sagome del proprio passato stuprato, il corpo della Cristiani scompare per riapparire dopo pochi interminabili secondi in un’altra stanza, verso la quale lo spettatore rivolgerà lo sguardo mantenendosi a debita distanza. Qui la violenza è ancora più esplicita: la potenza disarticolante della guerra rivive sul corpo della sua interprete, capace ancora una volta, nell’estrema semplicità del gesto, di scomporsi in mille pezzi. Se durante il breve sogno all’indietro l’interpretazione della Cristiani ricorda il disagio, la scomodità degli scatti che Francesca Woodman dedicò a se stessa intrappolata in mezzo alla carta da parati sgualcita di enormi stanze abbandonate, adesso il colore rosso acceso dei suoi pantaloni, le braccia bianchissime mozzate in un movimento convulso e impotente, il disegno sonoro sempre più assillante e, infine, il lugubre fondo nero della scena, tutto questo ci suggerisce un paesaggio ancora più desolato. Un paesaggio senza speranza che, nonostante il passare del tempo, è e rimane di un’attualità scottante. La Cristiani scivola a terra, appoggiata ancora una volta a una di queste pareti, gli eterni ostacoli di una realtà immutata e immutabile.
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