All'interno di uno chapiteau rosso metafora della coscienza, la compagnia The Enthusiastcs ci guida, attraverso la danza e la musica di 9 eccezionali artisti provenienti da tutto il mondo, verso l'abolizione delle strutture e delle parole che ci definiscono, per il raggiungimento pieno ed enstusiata di noi stessi.
“Ho lasciato la dualità e visto i due mondi come uno. Uno io vedo, uno chiamo”. Io non sono è un richiamo al monismo, alla concezione della realtà e dell’uomo come unione indissolubile tra mente e materia, mente e corpo. Secondo questa visione non c’è descrizione a parole che tenga. “Non ho storie da raccontare”, continua la citazione da Jalaluddin Rumi, il poeta sufi illuminato a cui la rappresentazione dichiaratamente si ispira. Io non sono è la negazione e il rifiuto della forma. “Io non sono il bla bla bla del pensiero, io non sono gli occhi, le orecchie, la bocca, io non sono la struttura”. Attraverso un elenco accurato di ciò che non siamo, gli attori e i musicisti di questo concerto/spettacolo teatrale invitano forse gli spettatori a comprendere ciò che siamo, senza però dargli un nome. Questa comprensione dovrebbe scaturire da un’intuizione gioiosa e allo stesso tempo profonda. La rappresentazione è diretta da Annalisa D’Amato ed è interpretata da 9 attori e musicisti (di cui uno carpentiere) provenienti da tutto il mondo: una compagnia variopinta il cui nome, The Enthusiastics, è un dato di fatto. A Palermo, una delle città del mondo in cui Io non sono ha fatto irruzione, sembra essere piombato dal cielo a interrompere il flusso di pessimismo, fatto di abitudine e rassegnazione, che tiene la città alle strette. Uno spettacolo così non poteva che avvenire all’interno di uno spazio chiuso, raccolto, quasi familiare: le chapiteau. Un enorme cuore, nel cuore di Palermo. Un tendone rosso più piccolo di quello che si usa per il circo ma abbastanza grande da far sì che per montarlo siano necessarie due giornate intere.
“Non mi riconosco più”, urla uno dei personaggi, Julien Desroches, mentre scappa in preda al panico, inseguito dalla bellissima Sophie (Julia Sarano), eterea e comprensiva nei confronti del ragazzo nel pieno di una crisi mistica, e dall’Ego (Monica Bianchi), la madre, una donna attaccata alla sua borsetta firmata come fosse la propria vita. “Com’è dura la vita!”, sbuffa quest’ultima, ma si capisce che è solo un modo di dire e verrà smentita, smontata e derisa dal resto dei personaggi che, attraverso la musica e la danza, ne aboliranno le borghesi certezze. “All structures are unstable”: un semplice segnale di pericolo all’interno di un edificio fatiscente si converte in un sutra. L’abbraccio di questo insegnamento è entusiasta e questo è possibile soprattutto grazie alla musica e alle voci eccezionali di tutti i protagonisti della scena. Oltre ai tre attori, un violinista narratore franco-indiano (Antonin Stahly), un violoncellista (Marco Di Palo), due chitarristi (Francesco Canavese e Francesco Forni), un percussionista carpentiere (Giordano Acquaviva) e un trombettista acrobatico (Charles Ferris), di cui all’inizio non si può percepire che l’ombra: il narratore ci racconta che è l’unico ad aver realizzato il suo sé e che per questa ragione rimarrà nascosto agli occhi degli spettatori, almeno per un po’. Ma quando sbuca fuori sulla scena è irresistibilmente divertente e affascinerà tutti, compresa la donna Ego che perderà il senno cercando invano di possederlo. Così, dopo una rumba mistica in fa minore, un twist rotante in re maggiore, una serenata bipolare in fa maggiore, si arriva finalmente a un festoso egocidio in do minore. L’Ego svela i suoi segreti, la finzione, la costruzione che ne regge il senso e viene letteralmente ucciso, in alto, alla fine di due scalinate, su un podio nel quale alla fine tutti i musicisti si raccoglieranno per lasciare spazio alla danza sfrenata di Julien e Sophie, alla nuova coscienza che non ha bisogno di parole (di strutture) per esprimersi ed essere. “Sono nato senza sapere una parola”, canta il narratore con il suo morbido accento da favola orientale. Io non sono è forse un ritorno alla nascita. E infatti, alla fine, sulla scena non rimarrà che uno chapiteau in miniatura, montato a poco a poco dalle sapienti mani del carpentiere, una casa dentro una casa, un piccolo cuore rosso pulsante dentro un grande cuore rosso pulsante. Io non sono è la parabola divertente, auto-ironica e sapiente (gli artisti sono sempre presenti, generosissimi nei loro gesti e nella tensione musicale) di un viaggio ebbro verso un’unione che è anche, e soprattutto, unione tra l’uomo e Dio o, se vogliamo, l’uomo e la propria esistenza.
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