Considerazioni sul futuro di un modello di gestione del far festival a teatro. Santarcangelo 41
Sicuramente positivo il bilancio di questa edizione che chiude in armonia il progetto orizzontale di direzione del festival da parte della triade Socìetas Raffaello Sanzio, Motus e Teatro delle Albe. Il modello orizzontale di Santarcangelo è un modello estendibile del fare festival? Probabilmente sì secondo noi. È un modello giovanissimo però, che va ancora studiato e compreso con attenzione per tentare di individuarne limiti ed eventuali possibili criticità che potrebbero sussistere nel lungo periodo.
Variopinte, flessuose e avvolgenti, sono le murene di Leila Marzocchi, scelte come sema del quarantunesimo festival di Santarcangelo: con il loro movimento ondivago, i predatori serpentiformi, abitanti degli oscuri anfratti marini, rievocano l’irriducibilità della figura liminare dell’attore, che scandaglia le profondità della psiche, trascinandovi dentro gli spettatori.
Certamente l’andamento tortuoso è stato anche quello dell’itinerario del festival, che nell’edizione di quest’anno, sotto la guida di Ermanna Montanari del Teatro delle Albe di Ravenna, si è snodato tra le diverse declinazioni del binomio monade/coro, in continuità da un lato con la tradizione della manifestazione, caratterizzata dalla problematizzazione del concetto di coro e dalla risemantizzazione degli spazi pubblici, in primis della piazza, dall’altro con la sperimentazione teatrale d’avanguardia e l’inclusione dei cittadini, istanze già condivise da Chiara Guidi della Socìetas Raffaello Sanzio di Cesena e da Enrico Casagrande del riminese Motus, direttori artistici delle precedenti edizioni.
Attorno alla dialettica singolo – gruppo ruotavano le esperienze di Coro Doppio ed Eresia della felicità. Il primo, esito del lavoro di Dario Giovannini dell’Associazione Aidoru con alcuni abitanti di Santarcangelo di diversa età, origine e ideologia, ha esplorato le infinite possibilità di creare dualismi di fronte alla scelta tra alternative riguardanti la vita sociale e politica contemporanea, realizzando con grande sinergia una performance originale in piazza Ganganelli; la seconda è stata l’espressione gioiosa dell’idea rivoluzionaria della non–scuola, che ha coinvolto ragazzi e bambini provenienti da tutto il mondo.
Il Coro Doppio, così disordinato nel caos della diversità delle anime dei partecipanti quanto preciso, è stato ben sorretto dalla ritmica incalzante dell’alternarsi dei cartelli di Dario, quasi un dio di tutte le alternative possibili. Ogni imprevisto era lecito in questo andirivieni del comando a scegliere a tutti i costi da che parte stare e il canto diventava la via di sfogo, la soluzione, l’affermazione del sé, la rappacificazione con il gruppo dei propri simili. Enorme, magico, esilarante, commovente.
Una danza corale, quella di Eresia della felicità, magistralmente diretta da Marco Martinelli, un amico, forse un papà, per tutti i duecento adolescenti invaghiti, che il maestro trascinava nei meandri dell’azione teatrale, motivandoli ad un obiettivo che li accomunava tutti nello spazio fisico dello Sferisterio e nello spazio mentale della condivisione del far teatro… Eresia è forse il più riuscito esempio di sana riconciliazione con l’adolescente anarchico risvegliato nello spettatore.
Una notte ho sognato di partecipare all’Eresia, di ritrovarmi là, tra di loro, tanto che il giorno dopo ho subito chiesto a Marco se ci fosse spazio anche per me, se per caso avrei potuto mollare tutto per continuare a seguirli tra i pianeti e le stelle. Ebbene no, c’è un limite d’età, sappiatelo, potete solo sognarvelo: il che non è poco, però.
Resistenza e Utopia, incarnate nel personaggio di Antigone, sono state i temi della conferenza-spettacolo The Plot Is the Revolution al Teatro Petrella di Longiano, in cui si sono confrontati due generazioni e due approcci alla Rivoluzione, quello lieto e non violento del Living Theatre dell’ottantacinquenne Judith Malina e quello sofferto nello spirito e nel corpo di Motus, rappresentato dalla figura bellissima e potente di Silvia Calderoni, che ha ripercorso e messo in scena alcuni momenti-chiave degli spettacoli della compagnia newyorkese, da Antigone a The Brig, fino al volo di Paradise Now.
Judith e Silvia così diverse, così vicine sul palco sono state la quintessenza della comunicazione intesa in senso classico, quella ancora possibile solo attraverso l’azione del domandare all’altro, del racconto orale di sé nel tempo, del confronto dialettico frontale, vis-à-vis. Fa sorridere e insieme intristire pensare ai nuovi modelli di comunicazione propinatici dai social network e a cui in tanti siamo sempre più abituati. La forma del dialogo-intervista è stata esemplarmente usata come strumento per ripercorrersi, per manifestarsi, ma soprattutto per gridare quanto sia necessario affermarsi nell’ora di adesso, NOW. Silvia, iniziando timida nel presentare Judith, lentamente si è trasformata nello strumento esplosivo che Judith ha tenacemente incitato all’Oltre… Eccellente tutto in Silvia, il suo respiro, il suo corpo, la sua ribellione, il suo sudore, la sua assenza, la sua discrezione, la sua violenza, la sua concentrazione.
Sul finale, un pubblico scioccato è stato chiamato a partecipare attivamente lasciando un segno, una frase o un disegno con un pennarello sui pannelli di cartone posti sul pavimento del teatro, che successivamente sono stati esposti in piazza e ricoperti di altre scritte... geniale la strategia di invitare il pubblico ad iterare il NOW.
InT.E.L. di Fanny & Alexander la ricerca utopica di indipendenza da ogni forma di potere insita nell’artista si è fatta metafora della vita del celebre capo della rivolta araba di inizio Novecento, Thomas Edward Lawrence, costretto nella dimensione del fallimento quotidiano e nella solitudine, ma pur sempre animato dall’amore per l’Altro. Chiara Lagani ha incarnato la guerra, danzando quasi come sopra al cielo del deserto, fluttuante tra la folle gioia dell’obbedire agli schemi del comando e la sofferta alienazione di chi causa e vede morte. Purtroppo non ho potuto seguire Marco Cavalcoli sul palco dell’altra metà dello spettacolo, in scena contemporaneamente a Ravenna nel contesto del Ravenna Festival, ma ho saputo che in molti hanno deciso di assistervi il giorno seguente… ottimo esempio di teatro sonoro “in corrispondenza”, e mi si permetta di suggerire a tutte le compagnie di provare a scrivere spettacoli rappresentabili simultaneamente sui palchi di diverse città per esplorare le potenzialità dello scambio tra pubblici distanti.
Una quarantunesima edizione, dunque, con un deciso carattere politico e civile che, di fronte alla difficile situazione dovuta ai tagli alla cultura e in un periodo di accese contestazioni, culminate con l’occupazione del Teatro Valle di Roma, ha risposto in termini di ricerca e condivisione: ne sono state un’ulteriore testimonianza le 150 sedie donate dai teatri e dagli artisti di tutta Italia e disposte in una platea a cielo aperto, dal forte impatto visivo, in piazza Ganganelli.
L’allentarsi di ogni tensione e il desiderio di libertà e riconciliazione, cui si accompagna un profondo senso di gratitudine, sono stati ben veicolati, attraverso il potere incantatorio della musica e delle parole, dalla lettura di Chiara Guidi della fiaba russa L’uccello di fuoco e dalla poesia di Mariangela Gualtieri, splendido muezzin in tunica bianca, la cui voce risuonava ad ogni crepuscolo accompagnando i visitatori lungo la salita verso la torre civica, quasi in un percorso di vera e propria ascesi.
Ne L’uccello di fuoco, al di là di una magica barriera di ombre, luci e anfratti ricavati da sacchi e usci, si celava l’azione teatrale che, attraverso la lettura, Chiara ha vissuto con i bambini, scelti dal pubblico e riportati nel mondo delle fiabe, con un chiaro invito per tutti noi a seguirli. Il pubblico adulto ha goduto dell’accostamento tanto stridente quanto sapiente del violino di Silvia Tarozzi e del theremin preparato da Massimo Simonini, al punto che bisognava a tratti concentrarsi per restar aggrappati al racconto sospeso tra sogno e realtà, come soltanto nell’immaginario mondo delle fiabe accade.
La dissoluzione delle forme nell’intensità del suono e dell’elettricità in Just Intonation e Special Coils di Masque Teatro resta appiccicata ai sensi ancora dopo settimane. In Just Intonation, Eleonora Sedioli emerge a tratti dall’oscurità con una sinuosità sapiente che la trasforma continuamente in forme senza forma, quasi infinite, in un processo di metamorfosi lentissima. Ho visto e sognato di tutto in quei momenti, una rappresentazione esemplare.
Accanto alle opere degli artisti e delle altre compagnie nazionali (l’analisi dell’intimità familiare nelle tre parti de L’Origine del mondo di Lucia Calamaro, la potenza espressiva della narrazione nel toccante Noosfera Titanicdi Roberto Latini), la presenza delle compagnie dirette da Oriza Hirata e Kornél Mundruczó e di performer quali Antonia Baehr, Ivo Dimchev, Rotozaza, cui si sono aggiunti gli artisti europei legati al progetto Intersection della Quadriennale di Praga, ha confermato la vocazione internazionale del festival.
Tra le criticità, concentrare gli eventi più significativi nei due fine-settimana ha causato la difficoltà di seguirli tutti (per esempio, ho perso l’Accademia degli Artefatti e Fiorenza Menni…). Inoltre la scelta dei musicisti spesso non si è rivelata all’altezza degli artisti di teatro, in quanto la ricerca musicale non è stata sempre ben rappresentata: se da una parte gli enormi Bittovà e Fratelli Mancuso si sono manifestati sicuramente con classe ma senza stupire chi li conosceva, dall’altra chi poteva invece farlo, i giovanissimi Austra, mi hanno deluso e annoiato tantissimo. Peccato per l’assenza di tutta quella sperimentazione giovane e indipendente che si fa in Italia, davvero tanto più originale di questa. Mi sono però rifatto gli occhi e le orecchie con i Carretti Musicali dell’Associazione Aidoru che non finisco di ringraziare per l’umanità mostratami post-shows. Miglioramenti, invece, sono stati apportati nel recupero degli spazi che hanno accolto spettacoli e installazioni e delle aree destinate all’alloggio.
Sicuramente positivo il bilancio di questa edizione che chiude in armonia il progetto orizzontale di direzione del festival da parte della triade Socìetas Raffaello Sanzio, Motus e Teatro delle Albe: per fare alcuni numeri, 70 progetti artistici presentati, tra spettacoli, concerti, incontri, installazioni e laboratori; 17 artisti stranieri coinvolti; 15 progetti presentati al Premio Scenario; 6.000 biglietti venduti; circa 500 presenze al campeggio allestito nell’area antistante lo Stadio e circa 3000 presenze al dopofestival all’Odeon Club.
Il modello orizzontale di Santarcangelo è un modello estendibile del fare festival? Probabilmente sì secondo noi. È un modello giovanissimo però, che va ancora studiato e compreso con attenzione per tentare di individuarne limiti ed eventuali possibili criticità che potrebbero sussistere nel lungo periodo. Come i fatti dimostrano, sembra un modello controllabile su geografie piccole, regionali, e per questo quindi un modello che potrebbe rafforzare i festival in tutta Italia, radicandoli e misurandoli al territorio in un modo utile e consapevolmente critico, ma che estendendo l’orizzontalità all’extra regionale potrebbe presentare delle falle, quantomeno a livello di dialogo tra identità e geografie con storie diverse. Ancora vogliamo sottolineare come la scelta consapevole in fase di formazione dei gruppi direttivi potrebbe essere un’esperienza forse più felice e facile soltanto in quelle regioni in cui la tendenza alla collaborazione è anche un fatto culturale e soprattutto ove sussistesse un riconoscimento unanime da parte delle comunità artistiche a chi fa sperimentazione e critica in modo utile. Altrimenti un tale modello potrebbe comportare le problematiche inerenti al come e al perché scegliersi e qui di umiltà ne servirebbe tanta. Ma anche nel primo caso non sarebbe facile secondo noi cercare una rotazione e l’esperimento santarcangelese sta sicuramente ponendo molte serie domande ai suoi protagonisti oggi al termine del triennio così felicemente svoltosi.
D’altra parte, solo il tempo può avvalorare queste piccole tesi e nel frattempo non possiamo che augurarci che esperimenti simili possano ripetersi anche in altre regioni d’Italia intanto perché sarebbero di più i laboratori in cui osservare il modello, poi perché la sua applicazione sembra utile ai percorsi artistici personali dei soggetti coinvolti, agli scambi in senso creativo, alle movimentazioni delle compagnie. Infine affidare direzioni critiche-artistiche a rotazione fa cartello, fa squadra, fa economia in un momento nel quale bisogna assolutamente stare vicini, soprattutto per meglio affrontare, in ogni senso possibile, le scelte scriteriate di politiche errate come quelle perseguite negli ultimi anni dal nostro governo che, sempre più in difficoltà, sembra quasi voglia mettere in fretta il bavaglio a tutto ciò che stimoli intelligenza e critica.
Di questi giorni è la lettera aperta sul futuro del Festival Santarcangelo dei Teatri (http://www.ilfattoquotidiano.it/eventi/lettera-aperta-sul-futuro-del-festival-santarcangelo-dei-teatri/), firmata fra gli altri da Fanny & Alexander, Teatrino Clandestino, Altre Velocità, Goffredo Fofi e Masque Teatro, che sottolineano la particolare “vocazione fortemente plurale, comunitaria e condivisa” di Santarcangelo, chiedendo di fare tesoro delle buone pratiche realizzate nelle ultime tre edizioni del festival.
Piccola nota turistica: non sarebbe stato facile per noi di SuccoAcido poter restare 12 giorni lì in Romagna se non fossimo stati ospitati da una cara amica, Clarissa Menghini, che ringraziamo pubblicamente e di cuore. E ovviamente una nota culinaria: 22 piadine (grazie Romagna) in 11 giorni non hanno fatto una grinza, ma non suggerirei a voi romagnoli di far lo stesso con il pane ca’ meusa o le panelle siciliane, nel caso remoto in cui eventi paragonabili in dimensioni e qualità al festival di Santarcangelo si proponessero un giorno in Sicilia e vi ritrovaste a poterli seguire, promuovere o arricchire con le vostre produzioni… certo prima bisognerebbe farvi rientrare nei budget locali, ma per la (di)gestione del non poco denaro pubblico che si renderebbe necessario bisognerebbe per forza rivolgersi ancora a certi piani alti che oggi gestiscono la maggior fetta di finanziamenti. E qui siamo ancora ben distanti da gruppi curatoriali, orizzontalità della conduzione e condivisione dei progetti, perché sicuramente a parte qualche caso fortunato che però resta isolato, non è la ricerca del teatro, quella seria, ad essere sostenuta in Sicilia.
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