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Theatre - Theatre Artists & Authors - Interview | by SuccoAcido in Theatre - Theatre Artists & Authors on 04/07/2011 - Comments (0)
 
 
 
Mariangela Gualtieri / Teatro Valdoca

“Quello della parola è per me un regno, più che un mezzo, un regno che abito e che è poeticamente percorso da qualche millennio. Abitare questo regno, percorrerlo, cercare di dire - a chi è vivo ora con me in questo mondo - parole che sono state dette migliaia di volte, ma dirle con la lingua di adesso … tutto ciò fa parte di qualcosa che potrei definire il mio compito, o la mia vocazione, parola poco di moda ma molto preziosa.”

 
 

SA: Ciao Mariangela, è un piacere e un onore poter scambiare due chiacchiere con te. Abbiamo letto che hai cominciato tardi a scrivere poesia, io sto cominciando adesso a leggerla e capirla … ho qualche speranza forse …
MG: Mi sembra che la poesia sia un fatto senile. Io ho cominciato a scrivere versi a quarant’anni.
È come se la vita dovesse un po’ bastonarti e un po’ consolarti, come se si dovesse diventare più esperti nell’amore e nella comprensione di sé e degli altri. Ma se pensi a Rimbaud, ci sono eccezioni eccellenti.

SA: “C’è qualcosa in me/ più vecchio di me/ intravisto nell’attimo della rovina/… C’è in me qualcosa / somiglia somiglia / al fondo di ogni cosa” sono versi tratti dal testo dello spettacolo Paesaggio con fratello rotto, del 2005: quando ti sei accorta di avere trovato questo qualcosa?
MG: Non l’ho trovato, piuttosto ho sempre saputo che era così. Da quando ero molto piccola è stata viva in me la certezza che il mondo, la cosiddetta realtà, non fosse solo quella che i miei sensi potevano percepire. Non mi sono mai sottomessa alla supremazia del visibile. L’invisibile, o per dirla con Jung ‘l’imperituro’, ciò che non passa, che non muore, ha sempre occupato nella mia vita un posto centrale. Direi che è stata ed è la parte più avventurosa del mio essere qui.

SA: Hai più volte parlato di un momento di buio, di fallimento, da cui è sgorgata poi la tua vena poetica creatrice. Possiamo chiederti cosa era successo?
MG: Sì, non vorrei però si pensasse che occorre attraversare esperienze estreme per arrivare a realizzare un’opera. Credo che qualunque vita abbia in sé gli ingredienti per arrivare all’espressione artistica. Nel mio caso è stata determinante una malattia, poi risolta, che mi aveva prostrata. Quella prostrazione ha sviluppato la mia attenzione e la mia apertura piena alla vita. Una sorta di deposizione della mia volontà e di abbandono a ciò che accadeva.

SA: Come è stata la tua adolescenza? Ne hai parlato come di un’età piena: cosa facevi? Interessi, amicizie, incontri, letture…
MG: Ero estremamente libera in un tempo in cui ancora alle ragazze molte cose non erano permesse. Ero l’unica della mia classe a poter viaggiare sola o a rincasare tardi la sera. Questa libertà mi ha permesso di vivere intensamente l’amicizia, soprattutto amici maschi coi quali ho legami stretti ancora oggi. E poi di sentire la vita come una grande avventura. È comunque un’età in cui si soffre anche molto perché si è più sensibili alle ingiustizie e alle sofferenze degli altri. Lo ricordo come un tempo molto vivo, intenso, avventuroso, e anche con pianti violenti senza motivo.

SA: Tu e Cesare Ronconi vi siete conosciuti da adolescenti e siete diventati compagni di vita e d’arte, divenendo l’uno regista e l’altra drammaturga del Teatro Valdoca, che avete fondato nel 1983. Hai capito subito che sarebbe stato un incontro decisivo per la tua vita? Ne hai avuto paura?
MG: No, non credo davvero di avere pensato, allora, che avremmo attraversato la vita insieme.
Mi pare comunque che le cose importanti si mostrino spesso con una veste ordinaria, e solo guardando indietro, ad un certo punto, scopriamo che di ordinario c’era solo il nostro modo di guardare.

SA: Che valore ha avuto per te l’esperienza della Scuola di poesia all’interno del Teatro Valdoca?
MG: Credo che per la mia scrittura, sia stata scatenante. Ho incontrato da vicino i maggiori poeti italiani di allora, primo fra tutti Milo De Angelis che dirigeva la Scuola, poi Franco Loi che da allora è diventato un amico e maestro carissimo. Forse l’insegnamento più grande che me ne è venuto è stato capire che ero libera e poi riuscire ad abitare questa libertà. Certo qualcosa in me era pronto, maturo per accogliere quell’insegnamento.

SA: Credi che ancora ai giorni nostri, come diceva Baudelaire, il poeta sia come un albatros, che “esule sulla terra, al centro degli scherni,/ per le ali di gigante non riesce a camminare”?
MG: Credo, perché lo sperimento ad ogni lettura pubblica, che ci sia grande bisogno di poesia e, dal mio punto di vista, grande attenzione alla poesia. Io tendo a non confondere il poeta con la sua poesia, e a non mitizzare le persone. Spesso il poeta è meschino, mentre la sua poesia vola alta. Certo è vero che la patria del poeta non è di questo mondo e dunque la condizione di esiliato è una costante.

SA: La parola è il tuo mezzo per dire o per fare?
MG: Quello della parola è per me un regno, più che un mezzo, un regno che abito e che è poeticamente percorso da qualche millennio. Abitare questo regno, percorrerlo, cercare di dire - a chi è vivo ora con me in questo mondo - parole che sono state dette migliaia di volte, ma dirle con la lingua di adesso…tutto ciò fa parte di qualcosa che potrei definire il mio compito, o la mia vocazione, parola poco di moda ma molto preziosa.

SA: Il pubblico rimane teso in ascolto durante le tue letture … In Chiesa non c’è quasi mai questo silenzio religioso... Il tuo rapporto con Dio?
MG: Il Galileo di Brecht dice parlando di Dio (cito a memoria) “o è dentro di me o in nessun luogo”. Io penso “o è ogni cosa o è troppo debole perché valga la pena inginocchiarsi”. Ma in realtà io non sono ancora arrivata a Dio, mi sono fermata prima, ad una sorta di animismo che senza nominare Dio e senza porsi il problema, avverte ogni cosa come soglia o fessura da cui il sacro preme, sfora, con la sua potenza tremenda e abbagliante. Certo usare il termine “animismo” è sbrigativo e non esatto, ma in questo contesto non posso fare di meglio.

SA: Perché l’uso del microfono? Perché la poesia orale? Chi legge poesia non ne trae lo stesso piacere di chi la ascolta?
MG: Il microfono ricrea il sonoro delle grandi architetture. Alza la voce verso il sovrumano, la abbassa verso il sub-umano, permette la consegna di una parola sussurrata, permette alla voce di smascherarsi e darsi in modo più veritiero. Perché la poesia orale? Perché la poesia è musica e vuole essere suonata, cantata: in questo modo tocca corde profonde al di là della ragione e delle regole ingabbianti della ragione. Quando la cosa funziona, chi legge e chi ascolta fanno parte dello stesso rito, e vibrano dentro la medesima ispirazione di chi ha scritto.

SA: Hai mai pensato di fare un disco registrando i tuoi versi?
MG: Sì, vorrei farlo ma, so che è difficile crederlo, non ne ho mai avuto il tempo.

SA: C’è qualche altra attività oltre alla poesia che secondo te ci può avvicinare all’immenso?
MG: C’è sicuramente un non agire che avvicina a ciò che chiami immenso, un non fare, un non essere, un non dire, un non volere, un non pensare. I poteri del non sono immensi.

SA: Riesci ad immaginare una società in cui non esiste prosa ma solo poesia?
MG: Certo. Credo che tutti i popoli che hanno sentito di appartenere alla terra, e non che la terra appartenesse a loro, tutti questi popoli, come gli Indiani d’America o alcune tribù dell’Asia, dell’Africa, dell’Australia, immagino avessero vite piene di grazia, in cui tutto era poesia, anche il modo di poggiare i piedi sulla terra o il modo di mangiare o respirare. Popoli che appartenevano ad una civiltà orale-aurale e si tramandavano i saperi in forma poetica.

SA: Quando ti fermi per creare cosa togli subito di mezzo? Ed è più utile andare fino in fondo o evitare di lasciarsi intrappolare in una forma in particolare? Bisogna essere pronti a rinunciare a qualcosa? Se sì a cosa?
MG: Più che cercare direi che mi metto nella condizione di essere trovata, cioè ispirata. La parola stessa ispirazione suggerisce un movimento energetico dall’esterno verso la persona, suggerisce che qualcosa appunto ci visiti, ci trovi. La condizione di essere trovati chiede una sorta di spoliazione, di abbandono, di caduta della volontà e dell’io che vuole.

SA: Hai raccontato del modo in cui avviene la realizzazione di un vostro spettacolo: si parte da un luogo e da attori scelti da Cesare senza un soggetto prefissato; si comincia a lavorare, si creano delle azioni, tu scrivi … e l’opera va prendendo forma ma solamente il giorno del debutto si scopre qual è il tema. Mi sembra che nei vostri spettacoli vengano scisse le tre entità: il corpo (gli attori), la voce (le tue parole), la mente (la regia). Se ciò è esatto, da cosa nasce questa esigenza?
MG: No, non è esatto e sicuramente è più vario e complesso. Il giorno del debutto, come in un varo, si sa se la barca galleggia, come prende il vento, come taglia la superficie dell’acqua, come sarà il suo corpo a corpo con l’onda. Ma la barca c’è ed è stata preparata con cura estrema e millimetrica. E la regia di Cesare non è sicuramente mentale, anzi, si batte con me che sono mentale e con gli attori quando lo sono. Direi che la sua regia è proprio lo sforzo di tenere il mentale lontano e invece abitare una sorta di follia, quella follia che tutti conosciamo e teniamo a bada appunto col mentale, col progetto, con la ragione. È vero che corpo degli attori e parola guerreggiano, come due entità che potrebbero disturbarsi a vicenda e dunque diffidano l’uno dell’altra. La regia guida questa lotta e fa di entrambi elementi di un rito, cioè simboli che venendo movimentati, attivati, inducono a volte negli astanti, una trasformazione interiore.

SA: Il luogo che hai sentito più fecondo, gli attori più ispiranti, lo spettacolo più trascinante?
MG: L’ultimo, sempre l’ultimo.

SA: Che rapporti ti legano agli attori storici della compagnia Danio Manfredini e Gabriella Rusticali?
MG: Gratitudine e stima professionale, in entrambi i casi. Con Danio c’è anche amicizia.

SA: Quanto hanno influito nei vostri lavori quelli di altre compagnie o teatranti italiani e stranieri? E viceversa? A chi vi sentite e vi siete sentiti vicini o lontani? Che influenza pensate di suscitare sulle giovani generazioni?
MG: I crediti sono tanti e continui ed è impossibile precisarli o elencarli. Abbiamo amato molto Carmelo Bene, Kantor, Grotowski, Peter Schumann, e li abbiamo amati quando eravamo giovanissimi e ci stavamo formando. Abbiamo imparato la loro lezione, assimilandoli, divorandoli con grande passione e facendoli diventare nutrimento per la nostra lingua.
Ma anche molto del così detto teatro d’autore italiano degli ultimi trenta anni, così ricco di esperienze diversissime fra loro, ha di certo nutrito il nostro lavoro. La nostra influenza sui giovani non so davvero precisarla, spero solo che siano alimentati da quello che facciamo, che lo digeriscano e trasformino in un segno loro, che più nulla abbia a che vedere con noi.

SA: I festival di teatro che ritieni più validi?
MG: Santarcangelo è quello a cui siamo più legati. Adesso la situazione è assolutamente tragica: alcuni festival sono stati cancellati, altri tagliati drasticamente. C’è davvero da piangere per la strategia dell’ignoranza che, chi ci governa, sta perseguendo.

SA: Parsifal e Caino sono i titoli di due significativi lavori del Teatro Valdoca, rispettivamente del 1999 e del 2011. Il primo, eroe tradizionalmente considerato positivo, il secondo, avvolto da un’oscura ombra. Chi potrebbe essere oggi un Parsifal? Siamo proprio tutti Caino?
MG: Forse ognuno è Parsifal all’inizio e alla fine della vita, si abita quell’ebetudine, e per il resto siamo più simili a Caino. Ma Caino, così come io l’ho visto, non è una figura solo d’ombra e credo anzi che l’allargamento ad una complessità fatta anche di forte luce, sia il mio contributo a questo mito che è stato troppo semplificato.

SA: In Genesi il segno che Dio fa su Caino perché nessuno lo tocchi forse significa che il personaggio rappresenta una parte insita nell’uomo, la quale perciò non può morire … ? Ma allora, se è possibile, in cosa la possiamo trasformare?
MG: Io non so cosa stia a significare il segno che Dio fa a Caino, non ne ho dato una definizione certa: forse l’abilità, forse l’acutezza di pensiero, forse il linguaggio. Quello del segno resta un passaggio misterioso e forse il significato più chiaro è che Caino non venga punito, ma anzi protetto, come se appunto il male facesse parte intrinseca di lui, cioè di noi tutti.

SA: Senza polvere senza peso (2006): poesie non nate per il teatro …
MG: Molti miei versi nascono lontano dalla scena, in un ripiegamento ed un ascolto meno concitato di quelli a ridosso delle prove. È anche una poesia più lirica e meno epica, cioè non è gridata dall’alto delle mura di una città assediata, ma nata dentro un ascolto che molto somiglia all’auscultazione, cioè un orecchio teso verso ciò che sta dietro le apparenze.

SA: Cosa pensi della comunicazione tramite internet?
MG: La trovo ricca di possibilità. Spetta ad ognuno farne strumento di crescita o di evasione, di comunicazione o di chiacchiera, di conoscenza o di fuga dalla conoscenza. Certo non può sostituire la bellezza, cioè la natura, e neppure il rapporto in presenza fra vivi. La presenza ha un mistero ed una potenza che nessuna differita può avere.

SA: Come la vedi la nostra società? Credi più nella rivoluzione o nell’evoluzione?
MG: Credo nella parola, nell’amore, nell’amicizia, nella bellezza della natura, nell’arte. A tutto questo credo fermamente, poi ad altro che qui sarebbe troppo lungo e complesso precisare.

SA: “La vita ha bisogno/di un corpo per essere e tu sii dolce/con ogni corpo”: sono versi tratti da Mio vero, l’ultima sezione della tua raccolta Bestia di gioia, uscita nel 2010. Credi che oggi si dia un valore a questa vita che è attraverso il corpo?
MG: Si dà troppo valore al corpo, ai corpi, dimenticando l’intelletto, lo spirito, la psiche intesa come anima. Pensa a quanto facciamo per il corpo, quanto ci preoccupa il corpo.
Si dà valore al corpo e poco a ciò che ci tiene in vita, a ciò che ci tiene vivi.

SA: Da Antenata (1991), uno dei tuoi primi testi per il teatro, a Caino (2011), il più recente, come è cresciuta Mariangela Gualtieri? Cosa farà ancora?
MG: Spero sia cresciuta la mia comprensione e compassione del mondo e dell’uomo. Non so cosa farò, ma qualunque cosa sarà, spero mi lasci anche un bel tempo per non fare, per gingillarmi nelle città, nelle foreste, nei mari, nelle montagne, ad adorare - nell’ozio - questo pianeta lanciato nell’universo, questo corpo celeste che ci è toccato in sorte e che mi pare bellissimo.

SA: E se SuccoAcido fosse un informe caleidoscopio a cui ispirarti … ?
MG: L’ispirazione ha leggi nascoste e può servirsi di tutto, in particolare di ciò che con passione e attenzione comunica e tramanda. Dunque, è possibile, chissà…

 


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Bibliography, links, notes:

Pen: Roberta Petralia

Link: http://www.teatrovaldoca.org

 

 
 
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Caino: Danio Manfredini (foto © Rolando Paolo Guerzoni)
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Caino: Leonardo Delogu con il Coro (foto © Rolando Paolo Guerzoni)
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Caino: Leonardo Delogu e Giacomo Garaffoni (foto © Rolando Paolo Guerzoni)
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Caino: Raffaella Giordano e Danio Manfredini (foto © Rolando Paolo Guerzoni)
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Caino: Raffaella Giordano e Mila Vanzini (foto © Rolando Paolo Guerzoni)
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Il letto di Caino (foto © Rolando Paolo Guerzoni)
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Caino: Danio Manfredini e Leonardo Delogu (foto © Rolando Paolo Guerzoni)
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Caino: Mariangela Gualtieri (foto © Rolando Paolo Guerzoni)
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Caino: Raffaella Giordano (foto © Rolando Paolo Guerzoni)
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