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Writing - Poetry & Tale's Room - Article | by Giuseppe Guarneri in Writing - Poetry & Tale's Room on 04/06/2008 - Comments (0)
 
 
 
Vada all’inferno chi non tace

La ricchezza del dialetto. Libero slancio linguistico, fuori binario della buona educazione grammaticale. “Gli stupratori della cosa pubblica”, questo sottotitolo metterei allo scritto.

 
 

-E’ arrvat lu musicant?-
-No, n’gor arriv!-
La domanda del vecchio appoggiato alla porta d’ingresso, è la domanda che si pongono tutti vista l’ora. Gli rispondo in una lingua che di sicuro non è italiano e dio solo sa cos’è. La lingua della mia terra è storta, antipatica e scomoda proprio come le pietre di cui è fatta questa montagna. Parole che fanno paura al solo pronunciarle, per chi non le capisce; parole calde, che sanno d’afa e di terra dura da coltivare d’estate e di freddo cianotico d’inverno.
-N’gor arriv? E che cazz te fa!! E’ già mezzanott e mezz e n’gor cumii la commedie.. a che cazz d’or finesh! Eh, quell sta fregn la a magnà e beve.. chi iene freg… tant shta tutt pagato…-

All’interno del museo sono accatastate un paio di centinaia di persone. L’aria è già divenuta irrespirabile e non si possono aprire le finestre perché fuori sta diluviando: non piove da due mesi e sembra che stasera il Maledetto voglia recuperare. In questo posto non ci sono mezze misure. D’estate di norma ci sono quarantotto gradi e d’inverno si viaggia a meno quattro.

Camminando nel salone grande si possono incontrare gli individui più disparati. Sembra l’arca di Noè. Sembra che abbiano preso due pezzi di ogni categoria di persona; ci sono sfattoni della peggior specie, rigorosamente muniti di giacche sdrucite e pantaloni sporchi. Intendiamoci, non che ci sia niente di male in questo, è solo che a portarli sono persone le cui famiglie hanno un conto in banca grande quanto il bilancio di uno stato arabo qualunque.
Intellettuali comunisti-mangiacaviale, con le loro giacche casual, le barbette incolte e i cardigans rossi, che fanno molto radical-chic. Mi pare di vedere perfino un famoso regista, uno di quelli che se la sbattono per scrivere storiucole di troiette quindicenni psicologicamente disagiate alle prese con l’adolescenza. Butterei quelle pellicole tutte al macero. L’adolescenza. E che cazzo sarà mai: la scoperta della figa per i bambocci e la scoperta del cazzo per le bamboccie. Il regista è insieme ad una bionda con occhi azzurri incorporati ed un fisico da playmate anni ottanta. Se non era per quel paio di filmetti da “cassetta”, col cazzo che se lo filava uno sfigato del genere.

Discorso dell’assessore alla cultura del Comune di Pietracava

…è con grande piacero, che siamo qui riunito tutti, per rendere omaggi e anche ossequi, alla memoria di un nostro illustre paesan.
L’amminishctrazione comunala tutta, ringrazzia tutti gli organizzatori della manifestazione, e, lascitami aggiungere, ci mancherebberesse che noi non lo ringraziamo.
Però, ci tengo a sottoscrivere che il Comune di Pietrasecca, è sembre particolarmente senzibule alle iniziative dei nostri giovani, vere rocce d’Abbruzzo, i quali saranno i nostri successori… schperiamo il più tadi pussibile.
Un saluto affettuoso a tutti i presenti e non…

E non potevano mancare che loro. La solita schiera di politicanti di paese perennemente in guerra con il congiuntivo; professionisti del “piacerismo”, l’arte di raccattare voti regalando promesse e facendo favori a qualunque costo, fosse anche la costruzione dell’Empire State Building nella piazza di un paese di duemila persone. La scia dei loro profumi comprati in offerta speciale a tre euro e novantanove dalle loro mogli al discount, intorpidisce le capacità olfattive di tutti i presenti tanto che Mario, detto “Nausea” per via della sua flatulenza perenne, è costretto ad arrendersi e a lasciare il salone a testa bassa….. senza avere l’onore delle armi. Loro, gli stupratori della “cosa pubblica”, sono tutti in fila lungo la parete, ben attenti a non rimanerci attaccati per via del mezzo chilo di gelatina che si sono versati in testa.
Gelatina comprata sempre nel discount di prima.

In un angolo, vicino la finestra, alla sinistra del tavolo del rinfresco ormai saccheggiato, appoggiati al muro quasi a formare un tutt’uno con l’intonato, c’eravamo noi tre: Scutti Sandro, Galassi Amelio ed io, Tiberio Di Nunzio….
-“e stù musicant n’gor arriv…”-.

Sandro fa lo scenografo, o almeno così crede. Si è diplomato qualche anno fa all’accademia delle belle arti di Roma. Ora si dedica all’allestimento di scenografie per recite scolastiche, ospizi, feste parrocchiali ecc.. Ma la sua attività principale è rappresentata da uno spettacolo teatrale che tiene con la sua compagnia, di cui mi onoro di far parte, ormai in replica da svariati anni al bar della contrada, al Milo Bar.
Ad eccezione del giorno di chiusura o di qualche “evento speciale”, come quello di questa sera, la nostra presenza al bancone di quel bar è sicura come la morte.
Da piccolo ci venivo con mio nonno. Nonno Aristide. Entrava, si toglieva il cappello, si sedeva e poggiava il bastone allo schienale della sedia. Dopo i saluti ed i convenevoli, pochi a dir la verità, lui ed i suoi compari iniziavano a giocare a carte. Come in un rito shamanico, il cartaio distribuiva le carte e iniziava il lento discreto gioco di accenni e smorfie tra i quattro sacerdoti, divisi in due squadre. Tutto filava liscio per un po’. Immancabilmente, per colpa di un tre di coppe o di un imbroglio mal celato si iniziava a litigare e tutto andava a puttane. In questi momenti la brocca di vetro opaco, dai lineamenti femminei, fianchi debordanti che salendo su mutavano in un collo stretto e sensuale per poi allargasi di nuovo a formare una perfetta apertura da cui far defluire il suo liquido ancestrale, rendeva ancor più peccaminoso l’incontro con il nettare rosso rubino che serbava in grembo.
La donna-farfalla rossa rubino si posava sul tavolo su cui mio nonno e i suoi compari imprecavano al cielo e di colpo tutto taceva. Il rosso cadeva nei bicchieri, la farfalla lasciva si concedeva ripetutamente e instillava il suo piacere sulle bocche dei vecchi grinzosi, in un giorno d’Agosto di molto tempo fa, sotto la veranda del Milo Bar.
Un godere che né il caldo, né il pensiero del sesso bruciato e né la polvere di serratura che il vento sbatteva sugli occhi riusciva a scalfire.
Tornavamo a casa per ora di cena. Avevo l’impressione di essere come un cane per ciechi. Infatti al ritorno il nonno aveva bisogno anche della mia spalla per reggersi in equilibrio, visto che il bastone con cui si sorreggeva ad ogni passo si faceva sempre più instabile.
-“Schifos, magar, puzzà crepà accis iuscht mò…. ischh for ve…”- che tradotto sta pressappoco così: “Schifoso, mago da strapazzo, che tu possà morire ucciso proprio in questo momento… esci fuori..”; la frase che pronunciava ogni volta che passava davanti la chiesa.
Ogni sera si fermava e lanciava la sua maledizione. Ogni maledetto giorno. A me la cosa pareva un po’ ridicola a dire il vero; il prete era già sulla settantina e non dava l’impressione che sarebbe vissuto granché. Ma lui niente. E se lo intravedeva dietro una finestra o sul sagrato andava fuori di testa ancora di più. A pensarci bene l’unico che rischiava un attacco di cuore era mio nonno, tanto forte era la rabbia che covava dentro. Prima di riprendere il tragitto si abbassava e mi afferrava forte il braccio – faceva così quando aveva una cosa importante da dirmi- si avvicinava al mio orecchio e diceva:”Meje n’ucchie di pret n’derr che na gocce di vin”-, ovvero:”meglio che a cadere in terra sia un occhio di prete che una goccia di vino”. Simpatico mio nonno!

Scoprii il motivo del suo odio per don Michele, e quindi per tutti i religiosi e tutte le religioni indistintamente, un paio di giorni prima che morì. Fu quando nonna Giulia chiamò il prete di un’altra parrocchia e gli diede incarico, quando ormai la fine era vicina, di confessare il nonno. Come era prevedibile, per l’ennesima volta scacciò il sacramento con una serie di apocalittiche imprecazioni. Così le domandai perché il marito ce l’avesse tanto con la chiesa.
-“Dopo la guerra… io era giovane e già sposata con tuo nonno”- era così che parlava, quando tentava di farlo in italiano. E poi –“io aspettava un figlio prima angora che aveva nato tua madre…-, si fermò e si asciugò il volto pieno di lacrime. Poi riprese: -“Quel figlio, Leone si chiamava, lo prese il Signore poche settimane dopo… erano tempi duri. Non mangiavo quasi mai e in più non c’avevo latte… ahhhh… si avess avut latt!!-.

Il racconto, rotto da singhiozzi e lacrime, si stampò nella mia testa come caratteri roventi che affondavano nella carne viva. Il resto mi sconvolse al punto che non riuscii a parlare per qualche minuto. Mio zio, o, sarebbe corretto dire, quello che poteva diventare mio zio, morì di denutrizione. Subito dopo la guerra gli alleati inviarono aiuti umanitari alle popolazioni tramite le parrocchie, le quali furono utilizzate come una grande rete di distribuzione di generi di prima necessità: ce n’erano 28.000 all’epoca.
Mio nonno appena seppe della cosa, corse a far richiesta di latte in polvere o surrogato o quello che era, ma don Michele, il quale gestiva l’assegnazione delle derrate, gli rispose che era già terminato tutto e che bisognava aspettare il lancio successivo.
Il piccolo zio Leone -strano destino per uno con quel nome- morì qualche giorno più tardi.
Diversi mesi dopo in paese circolò la voce che una sera in cui il prete era avvinazzato, confessò di aver ricevuto ordini precisi dalle autorità ecclesiastiche affinché nella distribuzione degli alimenti le famiglie di persone dichiaratamente comuniste dovessero venir poste ultime in lista. La scoperta mi fece ribollire il sangue: mio nonno scongiurò quell’uomo di dargli un po’ di latte per il suo bambino!

Avrei avuto voglia di uscire e picchiare a sangue il primo vestito nero che mi fosse capitato a tiro, fosse stato anche un cameriere. Avrei voluto spaccare la testa di quel prete del cazzo con uno di quei crocifissi che aveva in bella vista sull’altare. Uscii da casa e corsi, corsi e corsi ancora. Il sole era in procinto di tramontare; arrivai sotto la chiesa, afferrai un sasso e lo scagliai contro il rosone con tutta la forza che avevo in corpo. Ci fu un gran frastuono. Avrei anche potuto ferire qualcuno che si trovava all’interno, ma tutto sommato ne sarebbe valsa la pena.
Rimasi lì immobile. Il prete uscì e mi guardò: non so in che modo e non so il perché, ma sono sicuro che capì. Si fece il segno della croce e sparì subito dietro la finestra, come gli avevo visto fare decine di volte con mio nonno.
Mi sentii orgoglioso per la prima volta in vita mia. Nella mia testa si rincorrevano emozioni nuove e difficili da descrivere. Un vendicatore in piena regola. Un fuorilegge con la pistola ancora fumante; un samurai con la spada ancora grondante di sangue.
Gonfiai il petto, mi girai e mi incamminai lontano verso casa, con il sole alle spalle che stava ritirandosi, tremante. Pensai che perfino il sole avesse avuto paura di me. Avevo dodici anni.

Discorso di Romina Dell’Orlo, organizzatrice del reading musicale sullo scrittore Giovanni D’Angelo

Salve a tutti! Sono Romina Dell’Orlo. Vi comunico che il reading musicale previsto per le ore 22.00 inizierà tra circa dieci minuti. Ringrazio tutti gli intervenuti per la pazienza dimostrata!

-“Uè,oh, Tiberio…. ma hai visto chi è quello lì? Come cazzo si chiama quel regista là… quello di quel film… ‘galline..’ qualcos’altro”-.
-“Galline arrosto?-“ faccio io.
-“Si CRISTO, mica me lo ricordavo. Come stò?”-
-“Perché questa domanda? Cos’hai in mente? Vediamo di farci riconoscere anche qui…”-
-“Bhe, vado a presentarmi. Ti sei dimenticato quello che ha detto Astolfi, il regista di quel cortometraggio in cui ero protagonista?”- e mentre diceva questa frase sul suo volto prendeva forma una smorfia di vanità.
-“Era la pubblicità di una carrozzeria e tu facevi la parte del cliente soddisfatto, se ricordo bene…”-
-“Eh, madonna questo qua, sempre a sottilizzare! Ma ti ricordi che ha detto o no?”-
-“Si, ha detto che sei il Vincent Gallo abruzzese. Contento?”- gli dico, con rassegnazione.
-“Uè, mò vado lì e gli faccio la scena di “Buffalo 66” in cui Vincent spara a John Goodman dentro il night club. Che ne dici?”- sempre più convinto.
-“Ma in quella scena non c’è neanche una battuta…”-
-“E che gli fa… ohh madonna questo qui! Sempre a vedere le piccolezze…”-
Si allontana finendo la frase e alzando le mani al cielo.
Il Galassi è un attore che per hobby lavora come contabile presso una nota azienda della zona. In un ufficio di tre metri per tre, con un collega che al posto della bocca ha una piantagione di scarpe da ginnastica usate made in Indonesia, tanto forte è il tanfo che sprigiona da quella feritoia sulla faccia. Assiduo frequentatore di corsi di recitazione comunali, provinciali e perfino parrocchiali, il Galassi ha una sfrenata idolatria per l’attore americano Vincent Gallo, del quale ha la casa tappezzata di foto e cimeli.
Recentemente ha acquistato ad un’asta online una scarpa dell’attore per il modico prezzo di 3.400 euro.
Cosa cazzo se ne farà di una scarpa sola.

Una voce 
…preghiamo gli intervenuti di prendere posto. Il reading musicale sta per iniziare. Il musicista Vittorio Capogrossi e lo scrittore Duccio Valentini stanno per arrivare…

Tiro giù l’ultimo sorso e butto la bottiglia di rosso ormai vuota in uno scatolone vicino al tavolo. Guardo il bicchiere controluce e mi stupisco nel vedere le rigature amaranto che, come lacrime che segnano il volto sporco di una bella donna, producono stupendi giochi di colore.
Io, infine. Lo scritto ispirato, lo scrittore fallito; il nipote affettuoso, che impara i vizi e disprezza virtù; ingordo e cinico; perfido e spietato; un tozzo di pane secco che ti si blocca in gola.

Noi tre, che se fossimo nati cento anni fa saremmo potuti essere i “Tre dell’Ave e Maria”.
Ma in fondo lo siamo a nostro modo. Il Bar Milo è la nostra chiesa; il barista il nostro confessore e il Fermentato d’Abruzzo, così denso da poterlo bere a fette, il nostro sangue di Cristo.
Portatori di una croce che è ben più pesante. Sofferenti per stigmate ben più dolorose che quattro chiodi sulle mani. Sofferenti per essere nati in un tempo che non è il nostro.
Le nostre messe son lunghe notti intere e al mattino le campane suonano a morte. Don Don, suonano Don. Lente, ma secche e inesorabili come colpi di pistola.

Ma ora shhh!
Lo scrittore si sta sedendo. Il musicante sta entrando.
Lo scrittore accende una sigaretta e apre il libro sulla pagina scelta.
Il musicante si siede al piano a coda, riccioli neri che scendono da sotto un improbabile cappello. Guarda i fedeli con sguardo perfido ed occhi di brace…
…schiarisce la voce…
…afferra il microfono…
…“e che vada all’Inferno chi non Tace”.

 


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Reg. Court of Palermo (Italy) n°21, 19.10.2001
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