“One breath left, un solo respiro ancora”...dal Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards
One breath left (un solo respiro ancora) è un’opera creata presso il Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards all’interno del progetto The Bridge: Developing Theatre Arts, una nuova ala che il Workcenter sta sviluppando dal maggio 1999 in stretto contatto con la ricerca sull’arte come veicolo. Lo spettacolo non spettacolo è interpretato da attori asiatici, europei e africani.
- Ho visto “one breath left” la prima volta a Bologna nell’autunno del 2000. La scenografia è molto semplice, essenziale, ci sono dei teli appesi lungo i tre lati della scena che delimitano uno spazio interno, uno spazio “intimo” dove si svolge quasi tutta la rappresentazione. Ho assistito ad un lavoro dove le immagini sono costruite ed inviate a me spettatore con gran nitidezza e precisione. Gli attori, un uomo e tre donne, pochi oggetti: una coperta che assume molteplici ruoli, un libro, del fuoco... evocano frammenti di vita quotidiana. - Il tema dello spettacolo è in realtà la zona di confine tra la vita e la morte, quell’attimo appena prima della fine.
- La storia è semplice: una donna (Gey Pin Ang) è distesa a terra, coperta da un lenzuolo, in agonia e il suo respiro è affannoso. Tre persone le sono accanto (Julius Jong Soon Foo, Pei Hwee Tan, Sun Sun Yap) e come per magia ripercorrono insieme a lei ricordi della sua vita. “In un lampo, dai suoi ricordi e dai suoi desideri non avveratisi sorgono immagini, riappaiono visioni: sogni e paure d’infanzia, persone che ha incontrato, la sua ricerca della conoscenza e i suoi incubi…Sono solo scorie della vita trascorsa che si risvegliano per un attimo, o una possibilità inesplorata troppo tardi, un istante di riconoscimento, troppo tardi intravisto? E’ tutto un sogno? Se così, chi è il sognatore?”*
- Tutto questo prende corpo attraverso le azioni nello spazio, i testi tratti dalle opere dei due più importanti classici del taoismo Chung Tzu e Lao Tzu, e i canti tradizionali in vari dialetti cinesi.
- Il testo è in Inglese ed i canti in cinese, io non capisco né l 'uno né l’altro, ma il senso pare arrivare in modo diretto attraversando la pelle come nei sogni. Dopo la performance ho pensato a quella definizione in cui si parla di etnoarte. Non l’arte della tal etnia, ma al contrario qualcosa che possa essere riconosciuto come valore dalle persone che vi assistono indipendentemente dalla cultura cui appartengono. La seconda versione di “one breath left” l’ho vista a Pontedera ad aprile del 2001. Per dirlo in una parola…un vortice.
- Mi sono appena seduto e la luce sulla mia testa si fa più fioca. Un ritmo alle mie spalle prende velocemente vita. A scandirlo sono le voci stesse degli attori che, in pochi istanti, invadono la scena.
- Oltre agli attori visti a Bologna, ora ce ne sono altri sei, questi tutti vestiti di nero ed incappucciati. Mi ricordano gli attori in nero del teatro NÖ.
- Sì, ricordano la figura del servo di scena del teatro tradizionale giapponese: colui che c’è ma sa anche rendersi invisibile agli occhi dei suoi compagni e dello spettatore.
- Li riconosco, sono gli attori che partecipano al lavoro del Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards.
- I quattro attori cinesi d’incredibile virtuosismo tecnico srotolano immagini e suoni a ripetizione come in un sogno. A fargli da argine le architetture mutevoli dei corpi e delle voci d’altri attori occidentali, monatti coperti da palandrane scure guidati da Mario Biagini. Sono queste nere architetture a guidare lo sguardo dello spettatore nel flusso delle immagini, dei colori e dei canti e costituiscono, a parer mio, il salto di qualità dello spettacolo dal precedente studio visto un anno fa.
- La narrazione ora pare più velata ma i momenti corali, soprattutto quando gli attori in nero si tolgono il cappuccio, immergono direttamente nel lavoro.
- Proprio il rigore formale visivo raggiunto e la conseguente messa a fuoco del punto d’attenzione dello spettacolo, consente allo spettatore di entrare nell’azione scenica, fare suo il sogno della protagonista, e partecipare dell’energia sottile che circola fra gli attori e in ciascuno di loro. Alla fine dello spettacolo gli attori volano letteralmente via attraversando il pubblico.
- Un turbinio di corpi che proietta noi spettatori altrove.
- Un venticello leggero spazza la scena e la lascia vuota. Vuota?
- Per un attimo ho avuto la sensazione di aver sognato. Sono rimasto diversi minuti lì, in silenzio, smarrito. Poi lentamente il buio.
- Prima di allora non mi era mai capitato di avvertire la realtà della morte in un modo così credibile e poco triste come quel vento carico di vita…
One breath left è il primo spettacolo che inaugura il Progetto The bridge: Developing Theatre Arts che è la combinazione di due tipi di lavori ben distinti: quello portato avanti da anni al Workcenter sull’arte come veicolo (il lavoro rivolto alla ricerca rigorosa della trasformazione dell’energia e dell’azione interiore) e un lavoro più strutturato che tiene conto dello sguardo dello spettatore. In questo Progetto che viene definito “esperimento: lasciare andare e vedere cosa succede”, i due tipi di lavoro si intersecano. Può succedere infatti che durante lo spettacolo lo spettatore venga abbandonato a se stesso, mentre qualcosa succede sulla scena che non tiene più conto di lui. Cascate di voci che fluiscono senza argini apparenti, libere, alla ricerca di una propria intima strada di trasformazione. “Cantate. Può succedere qualcosa?” chiedeva Grotowsky riferendosi al lavoro sul canto vibratorio, elemento fondante della ricerca del Workcenter. Sì, può succedere.
- E ancora “…cosa succede se, per esempio, si lascia un canto avere uno sviluppo che sia naturale per le persone che agiscono, pur in una situazione che fino allora aderiva ad una logica teatrale?”* In alcuni momenti la vibrazione della voce di Gey Pin Ang sta sì esprimendo un canto, ma sta anche facendo qualcos’altro, qualcosa che intuisco e intravedo quando lo spettacolo è già altrove, nella sua fase più “strutturata”, che è rivolta a me che guardo e che mi tiene stretta e mi conduce per mano, forse ad un nuovo territorio più misterioso.
*: tratto dalla lettera di presentazione di “one breath left”
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