SA: François, tu sei attore, drammaturgo, regista e pedagogo. Con quale di questi mestieri hai cominciato e quale percorso ti ha portato a sperimentarli tutti?
FK: Ho cominciato come attore, ma si tratta della mia "preistoria", cioè prima di incontrare Grotowski nel 73, prima di lavorare per praticamente 12 anni nel campo del para-teatro come si chiamava all'epoca (e lo so già, qui cominciano le domande difficili: che cosa era il para-teatro? Che cosa faceva Grotowski? Cercherò di rispondere*). Poi nell'85, dopo l'ultimo lavoro pratico con Grotowski a Monte Castello, ho realizzato che tutti questi anni passati a lavorare "fuori del teatro" con Grotowski e i colleghi del Teatr Laboratorium in Polonia e del Gruppo Internazionale L'avventura di Volterra, mi avevano preparato a un mestiere ben preciso: regista di teatro. Ho anche ripreso il mestiere di attore per confrontarmi praticamente con i problemi che si pongono nel lavoro e per gusto personale, ma considero che il mio vero mestiere è fare il regista. Per la pedagogia, è un po' diverso, perché quando hai avuto la fortuna d'imparare nel senso tradizionale, cioè per relazione diretta con un maestro, hai il dovere in un certo senso di ripagare il dono che ti è stato fatto, cercando di trasmettere quello che hai imparato. Ed è il mio caso. D'altra parte, fare l'insegnante è anche un modo pratico per mantenere il contatto con le generazioni successive, con le persone più giovani di te. Ovviamente non ho preso in considerazione nella mia risposta il fattore economico, dovrei piuttosto dire la sopravivenza materiale, che conta non poco nelle scelte che fai: allora sapere fare diversi mestieri aiuta la tua indipendenza economica. Se questo conta, il fattore decisivo però è il piacere che provi a lavorare (nel senso artigianale). Quanto alla drammaturgia, in francese si dice: non sei mai servito meglio che da te stesso. Voglio dire che mi è sempre sembrato più semplice cercare di risolvere da me stesso i problemi del testo che utilizzo piuttosto che affidarmi a qualcuno. Non vuol dire che non posso lavorare con un'altra persona sul testo, l'ho fatto spesso; ma mi sono sempre riservato la decisione finale del montaggio, cioè la decisione dei tagli. Credo che si deve essere fedeli allo spirito, non alla lettera dei testi che si usano nel teatro. Il resto è questione di gusto, di sensibilità a tale o a tal'altro aspetto del materiale scritto.
SA: Quali sono stati e sono i tuoi punti di riferimento nel mondo del teatro?
FK: Il punto di riferimento nel teatro è stato Jerzy Grotowski. All'inizio, negli anni '70, c'era in me sicuramente una grande voglia di imitarlo o piuttosto di imitare i suoi attori. Poi nell'85, quando mi sono riavvicinato al teatro, ho scoperto che non volevo più imitarlo (se mai ne fossi stato capace!) ma trovare la mia propria via senza tradire le poche regole fondamentali che sostenevano il lavoro di Grotowski. Ci sono tanti altri registi che ammiro o che mi toccano come Brook o Kantor, per parlare dei "nonni". Ma il punto di riferimento, la persona che penso se devo risolvere un problema e non so in quale direzione rivolgermi, è Boss, come lo chiamavo (e come lo chiamavano tutte le persone che lavoravano allora con lui). La cosa particolare di Grotowski è che non era mai dogmatico, ma semplicemente pragmatico nel lavoro e nella vita. "Ça marche?" (funziona?) era una delle sue domande fondamentali. Sapeva anche distinguere molto bene tra la qualità del lavoro e il giudizio basato sul gusto personale. Allora quando gli mostravo il mio lavoro di regista, le sue osservazioni riguardavano in primo luogo la qualità del lavoro (se funziona, se è preciso, se è vitale). Alcune volte diceva: questo o quello non mi piace, ma è un problema di gusto. Era chiaro che non era centrale. Al contrario era centrale l'opinione: questo mi tocca, o non mi tocca; oppure ci credo, o non ci credo.
Nota: All'inizio degli anni 70, Jerzy Grotowski (il direttore del Teatr laboratorium di Wroclaw in Polonia, considerato come une dei più grandi registi di teatro dell'epoca, in particolare per la sua messa in scena del "Principe Costante") comincia a dichiarare in varie conferenze che il teatro tale come si intendeva e si praticava allora era morto, e che bisognava occuparsi di qualcos'altro: della relazione tra le persone in una situazione dove si possa togliersi la maschera sociale. Parlava in un modo strano, toccante, con delle immagini che mi suggerivano delle scene di Woodstock, delle pagine di San Francesco d'Assisi, o dei documenti sugli indiani delle pianure americane. Proponeva un'avventura che chiamava "Holiday" (questi testi delle conferenze di Grotowski sono stampati in un librettino pubblicato dal Festival D'Automne di Parigi). L'idea di base era la sparizione del pubblico al profitto di un altro tipo di presenza, attiva ma non rappresentativa, non attorale perché priva di spettatori. Così è nato il para-teatro.
SA:Che differenza c'è per te tra, fare il "regista di te stesso" e fare "l'attore" o il "regista"?
FK: Fare l'attore per un regista nel quale hai una totale fiducia, è la cosa più piacevole, direi, semplicemente perché ti permette di sospendere il giudizio che hai su di te. Tu lavori nello sguardo di qualcuno e questo dà valore a quello che fai, perché il suo sguardo ha per te un reale valore. Fare il regista di me stesso è la cosa più ambigua, più imbarazzante. Come attore voglio difendere una parte del lavoro che me stesso come regista so che dovrebbe essere eliminata. Quasi sempre il regista in te ha ragione contro l'attore, ma devi fare il furbo, essere paziente, per infine decidere. Fare il regista, per me è guardare l'attore lavorare; guardare e tacere il più possibile (è sempre meglio quando l'attore stesso trova la soluzione da solo, senza nessuna indicazione, soltanto stimolato dalla tua presenza, dalla tua attenzione). Poi ovviamente il regista deve decidere il montaggio del lavoro, l'unità "poetica" e creare una dinamica di lavoro che permetta all'opera di crescere, di vivere, e non partorire delle creature già morte il giorno della prima.
SA: nel tuo ultimo spettacolo "Moloch"*, hai lavorato su testi di diversa natura. Come affronti il lavoro sui testi e che differenza c'é tra lavorare su un testo poetico, narrativo o teatrale?
FK: E' vero, il testo di "Moloch" è composto di materiale molto eterogeneo: c'è una parte di cronaca raccontata, c'è un lungo dialogo tra il procuratore e Ginsberg costruito sulla contrapposizione tra le due personalità e i due discorsi, e infine ci sono le quattro poesie di Ginsberg. Inizialmente ho fatto così: ho imparato a memoria le poesie, con questa qualità di memorizzazione che ti permette di pensarle senza neanche pronunciare il testo, e ho imparato la cronaca in modo imperfetto per mantenere l'obbligo di seguire la progressione del pensiero oltre al senso del testo per dirlo e, inizialmente, ho letto il dialogo in scena, senza troppo avere fretta di caratterizzare i due personaggi. Il dialogo ha cominciato poco a poco a fissarsi con i particolari dei personaggi (per esempio l'uso degli occhiali o la qualità della voce). Dopo alcuni mesi ovviamente ho saputo tutto il testo a memoria, ma con delle qualità diverse di memorizzazione che continuano ancora ad agire sul mio modo di dire il testo in scena.
Nota:*"Moloch" è la storia di un processo avvenuto tra il 1969 e il 1970 negli Stati Uniti contro i "sette" di Chicago, gli esponenti di una galassia di movimenti che spaziavano dagli hippie alle Pantere Nere, responsabili di avere organizzato un raduno per la "preservazione del pianeta" e contro la guerra in Vietnam degenerato in duri scontri e feroci attacchi della polizia. In linea con la cultura del tempo, il rito giudiziario si trasformò ben presto in un paradossale happening, con imputati vestiti da indiani, altri che si dichiaravano ufficialmente cittadini della "Woodstock Nation", e uno degli accusati legato e imbavagliato per ordine del giudice. Nel dicembre 1969 fu chiamato a deporre, quale testimone della difesa, il poeta Allen Ginsberg, la voce più forte e famosa della Beat Generation. Nel controinterrogatorio, il pubblico ministero cercò in ogni modo di screditarlo ridicolizzandone le pratiche religiose induiste e inducendo sospetti sui suoi rapporti con la droga e la omosessualità, ma Ginsberg, invitato a leggere tre suoi testi sotto accusa, la mela notturna , in societé e Poesie d'amore su un tema di Whitman, rovesciò puntualmente le insinuazioni, fino ad azzittire l'aula e a lasciare tutto il pubblico in piedi commosso recitando i frammenti più significativi di Urlo. (dall'articolo di Renato Palazzi sul Sole 24 ore)
SA: Dal momento in cui scegli un testo su cui lavorare al momento in cui la drammaturgia dello spettacolo è definita, che cosa accade?
FK: La cucina cambia per ogni piatto: voglio dire che non ci sono regole per questo. Tutto dipende dal testo. La sfida per esempio con il testo di Marcel Proust era di non togliere niente e trattare il testo come una partitura musicale di Bach: non si può togliere una nota, un silenzio. Nei monologhi ho spesso cercato di mantenere questa sfida, quando il testo era di alta qualità: ma nel caso di Moloch il problema era totalmente diverso. La sfida era come preparare l'attore a dire le poesie - e ovviamente lo spettatore ad ascoltarle - creando un contesto, una forma generale che facesse crescere la tensione. Questo vuol dire accettare anche dei momenti quasi noiosi per trovarci una nuova energia e arrivare infine a "Urlo". Ma questo è la cucina. La cosa più importante per me è come decidere di lavorare su questo o quest'altro testo. L'unica regola è che devo essere toccato dal testo e che deve contenere un senso forte, che può essere come nascosto dentro, ma che risponde ad una mia necessità: devo sentire che ho bisogno di "fare questo testo".
SA: Per te che sei francese e vivi e lavori in Italia da anni, cosa vuol dire recitare in italiano?
FK: E' divertente. Mi obbliga a fare un grosso sforzo tecnico di memorizzazione, ma che forse mi permette di centrarmi più saldamente sul senso del testo, e a dare un supplemento di energia per compensare le imperfezioni della mia dizione.
SA: Quale è il tuo rapporto con la pedagogia?
FK: Come ti ho risposto prima, la pedagogia è essenziale per incontrare delle persone nuove nel lavoro; voglio dire non come spettatori ma come attori. Più vado avanti però, più ho dei dubbi su quello che si deve dire ai giovani attori. Ha un senso insegnare il teatro? Il mestiere dell'attore? Credo che l'unica cosa che conta nell'insegnamento sia il rigore, il pragmatismo, il gusto per il lavoro ben fatto come per qualsiasi artigiano. Il resto è affare di estetica,di gusto, per essere più semplice. Bisogna ricordarsi che la qualità della fantasia e la qualità della vitalità non dipendono dall'insegnamento, dalla cultura. Lo dimostra perfettamente il soggetto del mio prossimo lavoro: Bill Traylor (1856 - 1949). E' stato forse uno dei più grandi artisti figurativo afro-americano. Nato schiavo, finisce come barbone nelle strade di Montgomery in Alabama e comincia a 83 anni a disegnare e dipingere. Per tre anni non smette di produrre un'opera che conta più di 1200 disegni. Questo corpus di opere è stato preservato grazie alla lungimiranza di un giovane pittore bianco, Charles Shannon, che ha aiutato e sostenuto Bill Traylor durante questo periodo e che è stato capace di conservare per più di trent'anni delle opere che nessuno voleva o sapeva apprezzare. Bill era analfabeta.
SA: Cosa sono gli spettacoli in appartamento?
FK: Gli spettacoli in appartamento sono in parte un modo di incontrare un pubblico che spesso non va a teatro, ma anche un modo di far sopravivere una forma più ampia di teatro, quello che ho chiamato il teatro da camera, cioè il teatro fatto per un numero ridotto di spettatori e che permette una grande prossimità tra l'attore e lo spettatore. Questa prossimità non ha una funzione manipolatrice dello spettatore, al contrario direi. Permette di usare una scala (nel senso musicale) di suoni e movimenti molto più fine e complessa. Per spiegarmi meglio: è la stessa differenza nel cinema tra un regista che utilizza soprattutto i piani americani e un regista che utilizza prevalentemente i primi e primissimi piani come per esempio Bresson oppure Ozu. Non a caso cito questi due registi; sono per me dei modelli, dei maestri che mi hanno fatto capire attraverso il cinema che cosa cercavo nel teatro, nel mio modo di fare teatro.
SA: Che ruolo ha il pubblico nel tuo lavoro?
FK: Gli spettatori - non mi piace la parola pubblico - hanno essenzialmente un ruolo di testimoni. Non chiedo agli spettatori di partecipare fisicamente a quello che succede in scena (e intendiamoci, non si tratta di palscenico, che non è il mio spazio più congeniale per lavorare, ma dello spazio utilizzato dall'attore nel momento in cui sta lavorando). Quello che mi interessa è la loro presenza, la loro attenzione, il tipo di energia che si crea tra chi fa l'attore e chi è testimone del suo fare, cioè lo spettatore.
SA: Quali sono i tuoi progetti futuri?
FK: Come ti ho detto prima, sto lavorando con un piccolo gruppo di attori (4 o 5, non è ancora definito) sui disegni di un grande pittore afro-americano praticamente misconosciuto in Europa: Bill Traylor. La particolarità di questo progetto è che parte da immagini, non da un testo. Ci sarà del testo ma non sarà il materiale centrale. La cosa più importante di tutto è che DEDALUS, l'associazione che ho fondato insieme ai miei colleghi Humberto Brevilheri e Anne Zénour, ha trovato il suo spazio. Parlo di uno spazio materiale: 83 metri quadrati con quattro finestre e sei panche, un pavimento di cemento patinato in 70 anni dal passo degli artigiani che l'hanno abitato (era un laboratorio di falegnameria quando l'abbiamo affittato), un lavandino e una stufa a gas per l'inverno. Lo spazio si trova in una via tranquilla della periferia di Cremona. Da quando ci lavoro, ho riscoperto la qualità del silenzio nel lavoro. Lavorare in silenzio, con il sienzio, è aprire la porta ai suoni, alla musica. Così oltre i disegni di Bill Traylor, il nostro prossimo lavoro riguarda anche il blues.
SA: Ti piace andare a teatro?
FK: Non mi piace andare al teatro perché spesso sono deluso, ma a volte uno spettacolo mi ripaga dal senso d'incompiutezza e di mediocrità che tante volte mi ha sommerso. Allora non vado molto spesso a vedere spettacoli. Quando però ci vado e un attore mi sorprende, mi commuove, quando una soluzione registica riesce a tradurre l'atto poetico che è il teatro, mi sento meno solo e assai felice.
© François Kahn – 26.VII.2001